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Perché il risultato di Durban non può bastare

14/12/2011

Durban – Si è chiuso alle 7 di mattina dell’11 dicembre 2011, con un giorno e mezzo di ritardo e dopo tre notti consecutive senza dormire, la diciassettesima e settima conferenza della parti rispettivamente della Convenzione ONU sul clima e del protocollo di Kyoto. Sicuramente la più lunga ed estenuante dal 1994.

Si chiude con l’unico risultato possibile, ossia il rinvio delle questioni politiche più importanti e una serie di decisioni più o meno dettagliate sui temi in discussione. Un rinvio di circa 10 anni di qualsiasi azione efficace e capace di produrre risultati concreti per la lotta globale ai cambiamenti climatici. A dispetto di quello che ci raccontano le voci più o meno ufficiali della UNFCCC – ‘risultato storico’ - o i politici di turno presenti in Sud Africa. Un rinvio che snobba l’urgenza di risolvere il problema climatico, come più volte richiesto e supplicato dai paesi più poveri e vulnerabili, nelle giornate e nelle notti di Durban.

La lunga giornata di sabato, dove i ministri e i capi delegazione di una trentina di paesi si sono chiusi per ben 8 ore in una delle stanze del centro ICC di Durban per un negoziato intenso e snervante, aveva indicato le due possibili conclusioni della conferenza di Durban: fallimento totale oppure rinvio. E le parti hanno deciso per quest’ultimo con l’istituzione della cosiddetta Durban Platform (pdf) che apre la strada a un nuovo gruppo di lavoro (un altro!) che a partire dalla prossima Conferenza delle Parti in Qatar (COP 18) dovrà studiare la soluzione giuridica migliore per il coinvolgimento di tutti i paesi della comunità internazionale, Stati Uniti inclusi, nella sfida contro il riscaldamento globale.

Per capirci, la COP17 ha rischiato di saltare all’ultimo secondo per il disaccordo sulla forma di tale soluzione giuridica, ovvero sul termine ‘legal outcome’, supportato da India e paesi in via di sviluppo e considerato troppo ambiguo dall’Unione europea. Il compromesso raggiunto dalle Parti all’alba di Durban prevede il lancio di un nuovo processo negoziale finalizzato all’adozione di un protocollo, un altro strumento giuridico oppure una conclusione condivisa con forza giuridica nell’ambito della Convenzione – ‘a protocol, another legal instrument or an agreed outcome with legal force’.

Cosa significhi l’ultima opzione, causa del disaccordo finale, nessuno ancora lo sa. O meglio, è sicuro che ognuno cercherà di interpretare il termine ‘agreed outcome with legal force under the UNFCCC’, a seconda del proprio interesse.

Da una parte i paesi in via di sviluppo con i più importanti tassi di crescita, affiancati, seppur in ombra, da Stati Uniti e simili, contrari a qualsiasi tipo di accordo giuridico, consapevoli che questo prima o poi si trasformerà in obblighi di riduzione vincolanti delle emissioni climalteranti. Dall’altra la maggior parte dei paesi in via di sviluppo più vulnerabili ai disastri provocati dai cambiamenti climatici e soprattutto l’Unione europea, uno dei pochi baluardi rimasti a difesa del protocollo di Kyoto. E qui la commissaria europea sul clima, Connie Hedgegaard, ancora tra i grandi nonostante la vergogna di Copenhagen, ha giocato finalmente un ruolo determinante per sbloccare il negoziato nelle ultime ore della riunione plenaria finale quando l’intransigenza dell’India stava per mettere a rischio il seppur modesto risultato sudafricano.

Il processo negoziale identificato a Durban dovrà concludersi entro il 2015 in modo da lasciare il tempo necessario per l’entrata in vigore e l’attuazione dell’accordo globale a partire dal 2020. E ancora una volta, è meglio fare finta di non ricordare quanto accaduto a Copenhagen quando i leader mondiali non hanno rispettato la scadenza del 2009, sebbene questa fosse fissata in una decisione vincolante adottata dalla COP13 a Bali.

In conclusione, la conferenza di Durban ha partorito un accordo in cui per la prima volta i paesi sviluppati, inclusi gli Stati Uniti, e i paesi in via di sviluppo più importanti si impegnano a negoziare un nuovo accordo, strumento giuridico o conclusione condivisa con forza giuridica finalizzato alla riduzione delle emissioni climalteranti a livello globale e individuale.

Basta questo per definire la COP17 come un successo? Certo che no. Durban dà un altro colpo mortale al futuro del protocollo di Kyoto nelle sue parti più significative, come gli obblighi di riduzione vincolanti e il comitato di controllo.

Non solo, nelle decisioni di Durban sono assenti ancora una volta i numeri delle riduzioni dei paesi industrializzati. Nessun accordo nemmeno sulla lunghezza del prossimo periodo di adempimento (5 oppure 8 anni?). Durban non basta perché rimanda al 2020 una eventuale riduzione effettiva delle emissioni globali dei gas a effetto serra. Non basta perché ancora una volta manca la volontà politica e lo dimostra la discussione infinita su singole parole e termini più o meno giuridici. A Durban, ogni occasione è stata buona per dichiarare l’opposizione a qualsiasi accordo giuridicamente vincolante anche nel medio periodo da parte degli Stati Uniti, oppure per confermare l’intenzione di non ratificare nessun accordo sul secondo periodo di adempimento del protocollo di Kyoto da parte di di Giappone, Federazione Russa e Canada.

Per il resto, tra i 55 temi complessivi in agenda a Durban, la COP 17 partorisce l’accordo sul Green Climate Fund (pdf) con la conferma dell’impegno di mobilizzare 100 milardi di dollari all’anno entro il 2020 (ad oggi solo la Germania ha comunicato un impegno economico pari a 40 milioni di euro), identifica un nuovo meccanismo di flessibilità (pdf) che dovrà essere preparato nel dettaglio nei prossimi anni, adotta le regole per le attività di uso del suolo, cambio di uso del suolo e forestazione (LULUCF), introducendo un limite all’utilizzo da parte dei paesi industrializzati e, infin,e istituisce una serie di workshop di livello tecnico su vari temi in agenda (per esempio REDD).

Tratto da qualenergia.it