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Francia

Il presidente in guerra

25/11/2015

Ci sono molte differenze di tono, contenuto e significato tra il discorso di Hollande e quello di G.W. Bush all’indomani dell’undici settembre 2001. Ma ci sono anche dei parallelismi sorprendenti ed inquietanti.

Gli attentati del 13 novembre a Parigi hanno gettato l’Europa verso un nuovo e sempre più acuto stato emergenziale. Una nuova emergenza che si somma a quella socio-economica (iniziata nel 2008 e tuttora in corso) ed a quella umanitaria (determinata dai massicci flussi di rifugiati in entrata e dalla mancanza di una minima reazione coordinata da parte degli stati europei).

François Hollande, dopo essersi cimentato nel ruolo di “presidente marziale” a seguito degli attacchi a Charlie Hebdo del gennaio scorso, ha accantonato definitivamente la sua promessa di essere un “presidente normale”. Nel suo discorso televisivo alcune ore dopo gli attacchi terroristici, Hollande non solo ha dichiarato l’emergenza nazionale, ma ha definito gli attacchi di Parigi come la prima azione di una guerra tra la Francia e l’ISIS. Con il suo lungo discorso dinanzi all’Assemblea Nazionale quattro giorni più tardi, il “presidente normale” si è definitivamente tramutato nel “presidente marziale”. Così, non solo lo stato di emergenza sarà esteso a tre mesi, ma Hollande promuoverà una vasta riforma della Costituzione francese per accrescere i poteri dell’esecutivo.

Ci sono molte differenze di tono, contenuto e significato tra il discorso di Hollande e quello di G.W. Bush all’indomani dell’undici settembre 2001. Ma ci sono anche dei parallelismi sorprendenti ed inquietanti. Due di questi sono cruciali: la mancanza di volontà di prendere in considerazione le ragioni profonde degli attacchi e la caratterizzazione degli attacchi come atti di “guerra”.

Hollande, così come fece G.W. Bush, ha evitato la domanda chiave del perché – oltre al come, dove e con quale modalità - gli autori degli attacchi odiano a tal punto la popolazione civile francese da aver provocato l’orrore del venerdì 13. Le cause sono difficili, complesse e molteplici. Ma non importa quanto duro e difficile sia ammetterlo, in questo momento così amaro, queste cause non sono estranee al passato coloniale della Francia (un passato rispetto con il quale la République si è solo parzialmente confrontata, come ha fatto notare Gilles Kepel). E non sono estranee nemmeno le recenti azioni ed omissioni dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. È stato un catastrofico errore, morale e di valutazione, utilizzare le milizie dei Mujaheddin (da cui sarebbe poi nati i Talebani) contro l’Unione Sovietica nel 1980. Ed è stato altrettanto catastrofico reagire agli attacchi dell’undici di settembre nel modo in cui gli Stati Uniti hanno fatto. Altri errori sono stati commessi durante la Primavera araba e in particolar modo durante quella siriana, deterioratasi in un lungo e terribile autunno di guerra civile. E a questo si aggiungono gli ambigui rapporti che associano lo Stato Islamico ed un certo numero di “partner strategici” dell’Occidente nella regione (è risaputo come l’Arabia Saudita sia la più importante fonte di finanziamento del jihadismo salafita).

L’unico momento in cui Hollande si è avvicinato a prendere realmente in considerazione il contesto degli attacchi, ha visto il Presidente francese offrire alla Russia di Putin una cooperazione strategica. Ciò implica che la strategia di Francia e Germania nei confronti della Russia fino a questo momento, in particolar modo per quel che riguarda il sostegno della Russia ad Assad, è stata contradditoria ed ondivaga al punto da risultare, oggi, pressoché disastrosa. Putin, che solo un anno fa era descritto come una nuova minaccia per la pace nel mondo, viene ora presentato come un alleato indispensabile.

La parola chiave nei due discorsi di Hollande, come in quello di G.W. Bush, è stata “guerra”. Poche ore dopo gli attacchi, il presidente e i suoi consiglieri hanno deciso che era opportuno descrivere gli attacchi come una “guerra”. Questa descrizione è lontana dalla realtà, e, averla scelta, può implicare delle conseguenze fatali. Innanzitutto, i tragici eventi di Parigi risultano difficilmente distinguibili da molti attacchi terroristici che hanno avuto luogo negli ultimi decenni, attacchi che sono stati qualificati come atti di terrorismo, non certo come atti di guerra. Le bombe nei pub dell’IRA (un auto-proclamato ‘esercito’) non hanno portato le autorità britanniche a definire quegli attacchi degli atti di “guerra”. Le bombe della mafia tese a scuotere lo Stato alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli anni Novanta non hanno prodotto una dichiarazione di guerra da parte della Repubblica italiana. Ugualmente, né gli attacchi del marzo 2004 a Madrid, né quelli del luglio 2005 a Londra - simili per intensità e modo di operare a quelli parigini - sono stati descritti come atti di terrorismo, non di guerra. Senza contare il fatto che basterebbe considerare la percentuale delle vittime dell’ISIS tra la popolazione islamica dei paesi arabi per ridimensionare drasticamente la tesi della ‘guerra all’occidente’. Negli Stati Uniti, alcune voci isolate avevano sostenuto a ragione che G.W. Bush stava facendo un errore colossale nel descrivere gli attacchi dell’undici di settembre come una dichiarazione di guerra (un errore aggravato dall’aver scatenato una guerra contro una tecnica - il terrorismo - e non contro un obiettivo specifico).

In secondo luogo, parlare di “guerra”, anche se inconsciamente, legittima gli aggressori. Hollande sostiene che il commando che ha orchestrato ed eseguito l’attacco fa parte di un “esercito terrorista”. Vi è, in questo modo, un riconoscimento implicito del nemico quale soggetto organizzato ed istituzionalizzato (come De Villepin ha coraggiosamente sottolineato). Ma è molto più grave il fatto che, premesso che prima che l’ISIS attaccasse Parigi il presidente Hollande aveva fatto bombardare le sue postazioni in Siria, parlando di guerra il presidente ha riconosciuto indirettamente che i terroristi hanno agito all’interno di una guerra iniziata proprio da lui. L’ex “presidente normale”. Se questa è una guerra, dunque, Hollande potrà sfuggire dalla logica conclusione che sia stato lui a cominciarla?

In terzo luogo, c’è qualcosa di più preoccupante nascosto dietro la metafora della “guerra”. Dichiarando guerra all’ISIS, Hollande si aspetta di ottenere lo spazio politico per incrementare i poteri dell’esecutivo che, sostiene, sono necessari per combattere ISIS. Trasformandosi nel “presidente in guerra”, Hollande impedisce il prevedibile (e assolutamente necessario) dibattito a proposito dell’enorme fallimento dei servizi segreti, della sicurezza e delle strategie di prevenzione. Dibattito che aiuterebbe a spiegare perché l’attacco non è stato previsto e impedito, nonostante i tanti avvertimenti. Hollande trasforma così l’intera discussione pubblica in un gioco nel quale si fanno previsioni a proposito di quali altre libertà, e quali diritti, debbano essere limitate per garantire la sconfitta dell’ISIS. È davvero peculiare che molti giorni prima della fine del primo periodo di emergenza durato due settimane, il Primo Ministro fosse già intento a presentare un appello per estendere il periodo di emergenza di almeno tre mesi.

Il discorso di guerra del Presidente Hollande rappresenta un altro passo avanti verso la realizzazione di uno “stato di eccezione permanente”. Questa non è una novità se si guarda alla storia francese, così come ai recenti sviluppi politici europei. Negli anni Cinquanta, quando la République era afflitta, simultaneamente, da una profonda crisi economica e dagli effetti della guerra d’Algeria - con conseguenti attacchi terroristici non molto diversi nel metodo e nella sostanza da quelli della scorsa settimana - la Costituzione francese concesse all’esecutivo (guidato da De Gaulle) poteri enormi, non solo per risolvere i problemi economici, ma soprattutto per districare la République dai suoi numerosi conflitti.

La lettera della Costituzione francese è il frutto di circostanze che, strutturalmente parlando, non sembrano essere così dissimili da quelle odierne. Hollande sta dunque chiedendo un aumento dei poteri esecutivi che, da un lato, appare non necessario date le caratteristiche della Costituzione francese; dall’altro, però, rischia di trascinare la Francia (e l’Europa) in un contesto inesplorato ed inquietante. Quello dello “stato di eccezione permanente”, categoria giuridico-politica coniata da Carl Schmitt durante il periodo più buio della storia d’Europa. Uno stato d’eccezione che andrebbe a irrigidire ulteriormente le limitazioni dello spazio democratico imposte dalla struttura di governo dell’Unione Europea. Si pensi alla manifesta preclusione di ogni possibilità di opporsi democraticamente alle misure di austerità, l’imposizione di misure antipopolari attraverso l’utilizzo del ricatto finanziario durante la crisi greca, le sospensioni di Schengen durante la crisi dei rifugiati. Tutti elementi che sembrano vieppiù delineare i contorni di uno “stato di eccezione” europeo. Una dinamica che, tuttavia, ha riguardato prevalentemente la sfera socio-economico, le costituzioni nazionali e la tradizionale agibilità democratica. Con il discorso di Hollande sembra profilarsi un pericoloso passo in avanti.

Infine, se questa è una guerra, quando sarà in grado Hollande di annunciare la vittoria? E se non sarà in grado di farlo, quando verrà sospeso lo stato di emergenza? Due settimane, tre mesi, e poi? Le costituzioni democratiche hanno bisogno di contenere disposizioni in materia di emergenza proprio per evitare il duplicarsi delle costituzioni stesse: una per le giornate di sole, e l’altra per i giorni di pioggia. Le emergenze vanno affrontate nell’ambito dello stato di diritto. Una condizione fondamentale e necessaria per mantenere le emergenze all’interno della costituzione è di essere in grado di sapere quando finiranno, per evitare che la dichiarazione dell’emergenza non sia che un passo al di fuori dalla costituzione. E quanto sta accadendo in Europa, e in particolare in Francia, solleva timori di una tale possibilità. Non è affatto chiaro quando Hollande sarà in grado di annunciare la fine dello stato di emergenza. Intensificando il conflitto Hollande ha escluso che a gennaio ci sarà un passo indietro alla normalità anche se gli aggressori venissero catturati. Ma se è così, quando sarà possibile rivedere il “Presidente normale”? Esistono ancora gli incentivi politici per spingere Hollande a ritornare “moi, le Président normale de la République”? Pretendendo più poteri per intensificare il conflitto, Hollande rivela il livello e la portata dei suoi fallimenti strategici, politici e legislativi. Le conseguenze di tutto questo rischiano di essere funeste per la Francia, l’Europa e per il Mondo.

 

 

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Commenti

Leggere bene prima di commentare

Sono d'accordo con Guarascio.
In effetti bastava leggere con attenzione: "È stato un catastrofico errore, morale e di valutazione, utilizzare le milizie dei Mujaheddin (da cui sarebbe poi nati i Talebani) contro l’Unione Sovietica nel 1980".
Quindi i Talebani sono venuti dopo, ma presentando diversi legami con le milizie utilizzate contro l'URSS.
Ma la tesi essenziale dell'articolo mi sembra che sia la consequenzialità stretta tra la proclamazione, più o meno retorica, dello stato di guerra e l'instaurazione di uno stato di emergenza permanente.
E io la condivido in pieno: il fatto che non si possa manifestare a Parigi mi sembra già abbastanza inquietante e sufficiente a dimostrare la tesi.

risposta

Ringrazio per il gentile commento e per l'utilissima puntualizzazione.

Mi permetto di far notare che il riferimento a quanto avvenuto in Afghanistan
dall'invasione Sovietica in poi è, nel nostro articolo, esclusivamente funzionale a mettere in luce la fallacia e gli effetti
di lungo periodo della strategia occidentale nell'area mediorientale. Tra questi effetti di lungo periodo
mi sembra complicato non riconoscere il legame tra il supporto dei Mujahideen da parte degli USA
e la degenerazione successiva che ha visto solo una frazione di questi ultimi trasformarsi in quel che poi abbiamo conosciuto come i Talebani.

Sul legame a cui facciamo riferimento non vi sono particolari dubbi direi. E che il nostro riferimento fosse esattamente agli effetti diretti e indiretti della strategia USA nell'area mi pareva altrettanto chiaro. Grazie al suo intervento ora non è solo chiaro l'intento retorico del nostro riferimento ma abbiamo anche un dettaglio utile circa la storia dei Mujahideen e di quanto accaduto in Afghanistan negli anni 80.

Grazie ancora per il contributo. Sorvolo per gli inutili insulti che considero una perdonabile caduta di stile.

Cordialmente

Dario Guarascio

I talebani nel 1980 contro l'URSS? Ma stiamo scherzando?

Mi spiace, ma chi pretenda di intervenire su un contesto difficile quale quello attuale eviti di scrivere sciocchezze! Ad essere utilizzati contro le forze sovietiche negli anni Ottanta NON furono i talebani, allora inesistenti, ma diverse milizie a base tribale, le quali, una volta preso il potere nel 1992, iniziarono a combattersi tra loro, perpetuando uno stato di guerra civile permanente. I talebani sorsero allora, e presero la capitale nel 1994, consolidandosi poi nel 1996, con l'appoggio del Pakistan e basandosi sulla popolazione Pashtun (maggioritaria in Afghanistan ed in Pakistan). Furono effettivamente considerati da molti, USA compresi, come un fattore di stabilità al tempo, ma MAI combatterono contro l'URSS, per il buon motivo che allora NON esistevano. Se si fanno svarioni del genere (basta un semplice controllo on line per evitarli!) come pretendere di essere presi sul serio sugli altri argomenti trattati nell'articolo? Basta, per favore, con i dilettanti e gli amateurs!!!