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Pil, benessere e politiche. Il Rapporto Stiglitz-Sen-Fitoussi

30/09/2009

 

Sarkozy l’aveva commissionata nel febbraio del 2008, Stiglitz, Sen e Fitoussi, con i loro 22 prestigiosi collaboratori, l’hanno consegnata un paio di settimane fa: la più completa (e a più alto tasso di Premi Nobel: se ne contano ben 5 tra gli studiosi coinvolti) requisitoria contro il Pil ora è disponibile, ed è facile prevedere che resterà una pietra miliare in questo campo. Nelle 300 pagine di questo Rapporto sono presenti, arricchiti da acute osservazioni, tutti gli argomenti sui limiti del Pil e sulle strategie da adottare per "superarlo", che da molti anni alimentano un interessante dibattito.

Nel Rapporto vengono ricordati i casi - spesso ben noti, come quello delle spese per riparare danni ambientali - in cui il Pil cresce e il benessere sociale, per quanto ampiamente inteso, di certo non aumenta. Inoltre, viene sottolineato che se si fosse prestata attenzione a altri indicatori, in particolare a quelli di sostenibilità finanziaria, la crisi in corso avrebbe potuto essere, quanto meno, meglio governata; vengono presentate 12 raccomandazioni che dovrebbero condurre non tanto alla definizione di un indicatore sintetico alternativo al Pil quanto alla messa a punto di statistiche in grado di cogliere il benessere sociale nelle sue molte dimensioni.

 

Queste 12 raccomandazioni riguardano il benessere materiale e quello non materiale. Rispetto al primo si sottolinea la necessità di porre attenzione al reddito e al consumo, piuttosto che alla produzione, di considerare anche indici di ricchezza e di prendere a riferimento il nucleo familiare. Si ricorda l’influenza sul benessere della qualità dei beni e si pone particolare enfasi sulle disuguaglianze e sulla necessità di non limitarsi a considerare le grandezze medie, alle quali sono comunque da preferire quelle mediane. Si ricorda che il benessere dipende anche da attività che non danno luogo a scambi di mercato, come le prestazioni dirette tra soggetti e si raccomanda di misurare i servizi offerti dallo Stato in base non ai loro costi, come avviene con il Pil, ma al loro impatto sul benessere dei singoli. Riguardo alla dimensione non materiale del benessere si ricorda l’importanza del tempo libero (che, se incluso nell’indice di benessere, potrebbe annullare il vantaggio degli Stati Uniti su molti paesi europei in termini di Pil pro capite) e la necessità di misurare le relazioni sociali, la "voce" politica e la sicurezza o vulnerabilità dei singoli. Si afferma anche che vanno considerare misure oggettive e soggettive e che sono necessari indici di sostenibilità del benessere nel tempo, ambito nel quale dominano i noti problemi connessi all’ambiente.

 

Queste argomentazioni possono chiarire, si spera definitivamente, alcuni punti. Il primo è che il benessere e il Pil sono cose distinte. Questa è tutt’altro che una novità: nel 1934, il padre del Pil, Simon Kuznets, presentando la sua "creatura" al Congresso Usa ebbe a dichiarare: "Il benessere di una nazione…non può essere facilmente desunto da un indice del reddito nazionale". Ciò basta a porre l’onere della prova a carico di chi volesse sostenere il contrario. In realtà, la tesi di una diretta coincidenza tra Pil e benessere è assai meno diffusa di quella, ben più raffinata, che considera il Pil una condizione necessaria per favorire indirettamente il progresso di dimensioni rilevante del benessere: la riduzione delle disuguaglianze piuttosto che la qualità dell’ambiente o la diffusione del senso civico. Il Rapporto, non soltanto con gli argomenti proposti ma anche con l’invito a predisporre statistiche su tutte le principali dimensioni del benessere, pone le condizioni perché affermazioni di questo tipo (così come quelle opposte che, se le interpreto bene, vedono nel Pil una causa sistematica di peggioramento del benessere e per questo invocano la decrescita) non possano essere più formulate in assenza di prove convincenti.

 

Il Rapporto, chiarisce anche che "andare oltre il Pil" non significa costruire un indicatore sintetico alternativo. Contrariamente a quanto è apparso su diversi organi di stampa, nel Rapporto non vi è alcuna precisa proposta al riguardo. Le Raccomandazioni, di cui si è detto, chiariscono che la misurazione del benessere non è un problema esclusivamente tecnico, per la semplice ragione che la concezione stessa del benessere chiama in causa le preferenze e i valori di fondo di una società e degli individui che la compongono. Anche per questo i politici hanno, in questo ambito, ampia libertà di scelta. Nasce così una domanda semplice ma cruciale: dalle critiche rivolte al Pil, e dalle proposte di superamento che ne derivano, possiamo attenderci una politica che in qualche ragionevole e forte senso, sia "migliore"? O dovremo accontentarci delle pur utili classifiche di paesi e regioni in base a indicatori più o meno complessi e ragionevoli di benessere, proposti da ricercatori e centri studi? A quest’ultimo riguardo, sono disponibili diverse proposte sulle statistiche da considerare insieme o in alternativa al Pil, spesso integrate in un unico indice (una breve cronologia si trova a: http://www.oecd.org/dataoecd/24/56/41288178.pdf). Per l’Italia, si può ricordare l’indice Quars, relativo alle nostre regioni, elaborato da "Sbilanciamoci".

 

Il Pil ha avuto indubbi meriti nel permettere, per lungo tempo, una gestione dell’economia che ne limitasse le oscillazioni e ne favorisse l’espansione, con benefici effetti per il benessere. Per questo, 20 o 30 anni fa, economisti, anche molto sensibili a concezioni non strettamente economiche del benessere, affermavano che "l’invenzione" del Pil era stato uno dei grandi contributi del secolo scorso alla conoscenza economica. Esso rappresentava, per i governi, una bussola della quale si era compresa l’importanza durante la Grande Depressione.

 

Da quando il Pil è stato "inventato" e utilizzato, le condizioni economiche e sociali di un gran numero di paesi hanno conosciuto fasi diverse che tali risultano anche in base a indicatori non strettamente economici. Si pensi, per fare solo un esempio, all’intero Occidente nei 30 anni successivi al conflitto bellico e alle vicende, assai differenziate geograficamente, degli ultimi 15 anni. Il Pil era sempre lì, ma le cose sono andate molto diversamente nel tempo e per paesi diversi. Questa variabilità contrasta con l’idea molto diffusa secondo cui "oggi" le condizioni sono cambiate e questo cambiamento ha decretato l’esaurimento della funzione storica del Pil. Forse non di questo si tratta ma della mutevole attenzione che, pur sempre in vigenza del Pil, si è deciso di dare ad altre dimensioni – o, forse, ad altre concezioni - del benessere sociale .

 

D’altro canto, la soggezione al Pil ben difficilmente potrebbe essere giustificata dalla tesi della coincidenza tra il Pil stesso e il benessere. Si è già ricordato quanto ha affermato Kuznets e mille altre simili affermazioni potrebbero essere aggiunte. Appare, perciò, molto improbabile che nell’assumere le proprie decisioni i policy makers che si sono affidati quasi esclusivamente al Pil lo abbiano fatto pensando che questo equivalesse a promuovere il benessere sociale. Più facile immaginare che le loro scelte fossero il frutto non di un equivoco sul "contenuto" di benessere del Pil ma di un consapevole processo di valutazione.

 

Dunque, il meno che si possa dire è che il grado di soggezione al Pil è stato un atto volontario: i governi hanno libertà di scegliere le variabili dalle quali farsi guidare e i pesi da attribuire a ciascuna di esse. Possono anche, se lo vogliono, interrogarsi sul rapporto che tutto questo ha con il benessere sociale, ma non sembrano obbligati a farlo.

 

Possiamo, allora, sperare che emendando, riformando o addirittura eliminando il Pil scompaia la possibilità di fare un cattivo uso di questa libertà? E possiamo immaginare di costruire un indice che "catturi" nel migliore modo possibile il benessere sociale e venga imposto come obiettivo unico da massimizzare ai governi? Le risposte a queste domande sembrano piuttosto scontate e appare evidente che la questione ricade a pieno titolo nel terreno della democrazia. Essa non può essere risolta che apprestando processi decisionali di comprovata solidità sotto questo profilo. Ad esempio, la competizione elettorale potrebbe svolgersi proprio sui pesi da attribuire alle diverse dimensioni del benessere e dovrebbe essere integrata da meccanismi istituzionali che assicurino il rispetto degli impegni assunti.

 

Tutto ciò appare piuttosto complesso e di tale complessità nel Rapporto vi è consapevolezza. Lo dimostra non soltanto la scelta di offrire raccomandazioni ma l’esplicita dichiarazione che obiettivo principale del Rapporto è accrescere la disponibilità di dati e di statistiche di qualità su dimensioni rilevanti del benessere sociale (e sulla sua sostenibilità) allo scopo di permettere ai politici di prendere scelte più meditate (ovviamente se lo vorranno), ai media di informare meglio i propri lettori (anche questo se lo vorranno) e a questi ultimi di fare pesare le proprie informazioni maggiormente nella scelta politica (sempre, se lo vorranno). Sfortunatamente (o forse no?) il "superamento" del Pil, se così vogliamo chiamarlo, non genera automaticamente politiche "migliori". Però può offrire loro una nuova, grande opportunità.

Tratto da www.nelmerito.com