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Ripartire i costi e i benefici dell’euro per salvare la moneta unica

21/11/2011

Il cambio esterno determinatosi nell’Unione monetaria favorisce le esportazioni (tedesche) di beni e servizi e penalizza le importazioni di paesi come l’Italia. Senza una diversa ripartizione di costi e benefici occorrerà tirare le conseguenze

L’attuale crisi valutaria europea è atipica e si manifesta con la fuga dai titoli pubblici dei Paesi in deficit esterno piuttosto che con la speculazione sul tasso di cambio. L’acquisto dei titoli pubblici è il modo attraverso cui i deficit di parte corrente della bilancia dei pagamenti dei Paesi membri dell’UME vengono finanziati da parte delle banche e degli operatori esteri. Il modo miope ed egoistico con cui l’asse franco-tedesco ha gestito la crisi greca, ha reso evidente agli operatori di mercato che l’euro non è affatto una scelta irreversibile. In tal modo in pochi mesi si è disperso un patrimonio di credibilità e di fiducia accumulato nei venti anni precedenti.

In Europa esiste un precedente nella crisi del 1992. Allora l’Italia, insieme alla Gran Bretagna, concordò con gli altri partner comunitari l’abbandono del Sistema Monetario Europeo, dopo che lo spread con i bond tedeschi aveva raggiunto 700 punti. La svalutazione del 25% del valore della lira pose fine alla crisi e ripristinò le condizioni minime per perseguire l’equilibrio macroeconomico. Questo fu l’atto fondamentale dell’allora Governo Amato. La successiva manovra restrittiva dei conti pubblici per il 5,8% del Pil, la più pesante della storia della Repubblica, servì per oltre due terzi a ripianare le perdite subite dalla Banca d’Italia, guidata da Ciampi, nell’ostinata quanto vana difesa della parità della lira. Sei anni dopo l’Italia entrava nell’Unione Monetaria Europea.

Oggi, come allora, la crisi affonda le sue origini nelle contraddizioni strutturali interne all’Europa. L’Unione Monetaria Europea (Ume) è un’area fortemente disomogenea sotto il profilo economico. Una delle principali argomentazioni addotte in Italia a favore dell’euro fu quella della moneta unica come veicolo di convergenza virtuosa, in coerenza con la consuetudine delle classi dirigenti italiane di utilizzare la “frusta” esterna come strumento di forzoso ammodernamento del Paese. Nei dodici anni di esistenza dell’euro è accaduto esattamente l’opposto. Le divergenze si sono accentuate e, dopo lo scoppio della crisi globale, hanno assunto un ritmo ancor più accelerato.

Una cartina di tornasole degli squilibri interni all’UME è fornita dal saldo dei conti con l’estero dei Paesi membri. Dalla nascita dell’Ume nel 1999 al giugno 2011 l’Italia ha accumulato un deficit nelle partite correnti di oltre 305 miliardi di euro a fronte di un surplus della Germania pari a oltre 1.050 miliardi. In questi stessi anni il contributo medio della domanda interna alla crescita trimestrale su base annua del PIL tedesco è stato negativo (-0,2%) a fronte di un contributo positivo della domanda estera (+0,6%). L’intera crescita dell’economia tedesca negli ultimi 12 anni è cioè addebitabile alle esportazioni nette. Opposto invece il caso italiano dove il contributo medio della domanda interna è stato positivo (+0,5%) e quello della domanda estera negativo (-0,3%). Il risultato finale è un tasso di crescita economica della Germania pari ad oltre il doppio di quello dell’Italia dal 1999 al 2011 (dati Ocse).

Normalmente, in Paesi monetariamente sovrani, squilibri strutturali di tali dimensioni e durata sarebbero stati corretti o quantomeno fortemente attenuati da variazioni del tasso di cambio. All’interno di una Unione Monetaria, ovviamente, questo strumento non è più disponibile. La teoria delle aree monetarie ottimali ha evidenziato come in tale situazione l’aggiustamento degli squilibri interni debba prevedere almeno una delle seguenti due condizioni, entrambe assenti nell’Ume: forte mobilità interregionale del lavoro e meccanismi fiscali di redistribuzione territoriale delle risorse. La flessibilità dei prezzi interni non rappresenta un meccanismo di aggiustamento poiché, ad eccezione dei beni e servizi non commerciabili, per la gran parte dei settori economici i prezzi sono allineati in tutto il territorio dell’Unione.

Diverso il quadro invece per il tasso di cambio reale misurato in termini di prezzi delle esportazioni, che dal 1999 ad oggi ha garantito un guadagno di competitività internazionale della Germania nei confronti dell’Italia pari a quasi il 40%. Le ragioni sono molteplici e complesse e attengono in parte a cause di carattere sistemico, che rendono l’Italia un Paese relativamente inefficiente rispetto alla Germania. Sicuramente rilevanti al riguardo sono alcuni fattori strutturali che caratterizzano l’economia tedesca: la specializzazione produttiva, orientata su produzioni ad alto contenuto tecnologico e ad alta intensità di capitale con una sostenuta dinamica della produttività; la struttura dimensionale delle imprese con una dominanza delle imprese medio-grandi in grado di praticare una discriminazione dei prezzi alle esportazioni; il contenimento salariale concordato tra le parti sociali in particolare nel settore dell’export; una politica industriale e commerciale attiva nel supporto ai settori esportatori; una rete infrastrutturale pubblica efficiente nel ridurre i costi di trasporto, comunicazione e informazione per le imprese; una politica della ricerca in grado di agevolare i processi innovativi; un forte sostegno del sistema bancario, in prevalenza pubblico, al settore manifatturiero orientato all’export.

Questi però sono solo alcuni elementi, di natura interna, del modello di sviluppo neo-mercantilista adottato dalla Germania. Un altro elemento decisivo deriva dall’appartenenza della Germania all’UME. In un regime di cambi flessibili quale quello adottato dall’Ume, il tasso di cambio nominale dell’euro è determinato nel lungo periodo dall’equilibrio nei conti con l’estero dell’intera area monetaria. Il surplus esterno della Germania e dei Paesi nordici è pressoché esattamente bilanciato dai deficit degli altri Paesi membri. Ciò ha comportato una situazione di sottovalutazione dell’euro per la Germania e gli altri Paesi nordici e, viceversa, una sopravvalutazione dell’euro per i Paesi mediterranei, Francia compresa, e per l’Irlanda. In altre parole, per i Paesi a maggiore competitività l’euro è stato un potente veicolo per la conquista di quote commerciali nei mercati extra-Ume, mentre, viceversa, esso è stato un ostacolo sugli stessi mercati per i Paesi a minore competitività.

Il surplus della bilancia commerciale tedesca nell’intero periodo della moneta unica europea è derivato per oltre i due terzi dall’interscambio con i Paesi extra-Ume. Anche grazie all’euro la Germania nel 2011 è così diventato il secondo Paese esportatore di merci a livello mondiale dopo la Cina, scavalcando gli Usa, ed occupa stabilmente la stessa posizione anche nelle esportazioni di servizi commerciali, dopo gli Usa e prima di Gran Bretagna e Cina. La scomparsa dell’euro potrebbe dunque essere una meta molto desiderabile per la Cina e gli Usa, sia perché ridurrebbe sensibilmente la competitività commerciale di un temibile concorrente come la Germania, sia perché eliminerebbe una potenziale minaccia al ruolo del dollaro come principale valuta di riserva internazionale. Alla luce di tali considerazioni si possono forse comprendere meglio alcuni discutibili downgrading delle agenzie di rating americane e il sostanziale fallimento del G20 di Cannes, con la cortese ritrosia della Cina nei confronti di un diretto coinvolgimento nella gestione della crisi europea.

In un’area valutaria, dunque, la deflazione interna di un Paese agisce sulle quantità e non sui prezzi. Ciò implica che l’aggiustamento condotto attraverso la deflazione dei Paesi in deficit potrebbe teoricamente raggiungere il proprio obiettivo soltanto attraverso una recessione che riduca il reddito, l’occupazione e, di conseguenza, anche le importazioni. Tuttavia, data la dimensione degli squilibri esistenti, il processo deflattivo rischia di essere particolarmente lungo e gravoso e di innescare un circolo vizioso che potrebbe sfociare in una profonda depressione economica dell’intera area monetaria, allargando ancor di più le divergenze territoriali. Persino negli ormai unanimemente famigerati programmi di aggiustamento strutturale, imposti dal Fondo Monetario Internazionale negli anni Novanta ai Paesi in difficoltà del Sud del mondo, l’atto iniziale era costituito da una massiccia svalutazione della moneta che precedeva le misure correttive dei bilanci pubblici. Il caso greco sta d’altra parte a dimostrare la totale inefficacia delle misure deflattive per correggere gli squilibri.

Probabilmente più efficace e sicuramente meno costoso in termini di benessere complessivo dell’area sarebbe perseguire un aggiustamento quantitativo dentro l’Ume attraverso la reflazione dei Paesi in surplus, che farebbe aumentare la loro domanda aggregata e quindi le loro importazioni. Misure di questo tipo sarebbero giustificabili in un periodo quale l’attuale, caratterizzato da elevati tassi di disoccupazione del lavoro e di basso utilizzo della capacità produttiva.

La lezione che è inevitabile trarre dalla crisi odierna è quella della necessità assoluta di procedere rapidamente verso uno stretto coordinamento e una integrazione delle politiche fiscali e di bilancio all’interno dell’Ume, finalizzato a garantire la sostenibilità per tutti i Paesi membri dell’appartenenza all’area monetaria. Tuttavia, l’accelerazione del processo di integrazione politica, per quanto rapida possa essere, non è più sufficiente per far fronte alla drammatica emergenza attuale. Essa andrebbe accompagnata immediatamente dalla decisione della Banca Centrale Europea di garanzia illimitata dei titoli dei debiti pubblici dei Paesi membri, come avviene per qualsiasi altra Banca centrale di uno Stato sovrano. Ma se tutto ciò non dovesse accadere, l’Italia dovrebbe forse ripetere l’esperienza della Grecia e perseguire consapevolmente l’impoverimento del Paese? In questo quadro, ritengo che il senso dignità nazionale dovrebbe spingere il nuovo Governo italiano a porre con forza la questione della riforma complessiva dell’Ume e della ripartizione solidale dei costi e dei benefici cha da essa si traggono. In assenza di risposte concrete e positive, non si può più escludere la possibilità di una fuoriuscita, possibilmente concordata, dell’Italia dalla moneta unica europea.

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Commenti

Fuori dalla crisi o fuori dall'euro?

Credo che l'Italia sapesse benissimo i rischi che correva aderendo all'euro: non solo il rigore monetario e fiscale di Maastricht e del Patto di stabilita', ma anche la perdita di competitività e i conseguenti squilibri esterni. Era necessario un piano coerente, di lungo periodo e bipartisan, di aggiustamento di bilancio e di adeguamento industriale: un nuovo "modello di sviluppo" basato su di una rigorosa politica dei redditi e dei prezzi. Ne esistevano le basi nella politica di concertazione. Non se ne e' fatto nulla, anzi sono state follemente demolite quelle stesse basi rincorrendo una deleteria pratica di "autonomia dell'impresa". Con i risultati che vediamo: salari strutturalmente più bassi e prezzi strutturalmente più alti della media euro, deficit esterno, resilienza del debito, bassissima crescita.
Oggi la crisi dell'euro richiede un salto di regole. E' necessario sostituire ai titoli nazionali titoli europei, il cui corso possa essere sostenuto dalla BCE. Se questo non avviene, e rapidamente, e' probabile che alcuni paesi debbano lasciare l'euro. Ma sia chiaro che anche questa estrema rationem non sarà, da sola, sufficiente ad assicurare la ripresa della crescita. L'aggiustamento strutturale, il "nuovo modello di sviluppo" necessari sin dagli anni '90, sono ormai improrogabili.