Home / Sezioni / globi / I tortuosi sentieri del capitale. Giovanni Arrighi, l'ultima intervista

facebook-link twitter-link

Newsletter

Registrati alla newsletter di sbilanciamoci.info

Sezioni

Ultimi link in questa sezione

05/10/2015
Turni di 12 ore e dormitori, l’Europa di Foxconn sembra la Cina
14/07/2015
La vera tragedia europea è la Germania
04/07/2015
Redistributing Work Hours
22/06/2015
Institutions and Policies
21/05/2015
A Finance Minister Fit for a Greek Tragedy?
04/05/2015
I dannati di Calais
04/05/2015
Are creditors pushing Greece deliberately into default?

I tortuosi sentieri del capitale. Giovanni Arrighi, l'ultima intervista

20/11/2009

Come mai nel 1963 sei andato in Africa, per lavorare al University College of Rhodesia and Nyasaland?

Il perché ci sono andato è molto semplice. Venni a sapere che le università inglesi stavano pagando davvero delle persone per insegnare e fare ricerca – diversamente dal mio posto in Italia, dove si doveva prestare servizio per quattro o cinque anni come assistente volontario prima che ci fosse qualche speranza di avere un lavoro pagato. Nei primi anni ‘60, gli inglesi stavano fondando delle università in tutto il loro ex-impero coloniale, come college di quelle britanniche. Il UCRN era un college della University of London. Mi sono presentato per due posti, uno in Rhodesia e uno a Singapore. Mi chiamarono per un colloquio a Londra e, dato che l’UCRN era interessato, mi offrirono un impiego come Lecturer in Economics. E così sono andato.

Fu una vera e propria rinascita intellettuale. La tradizione neoclassica, modellata sulla matematica, a cui ero stato educato1 non aveva niente da dirmi sui processi che andavo osservando in Rhodesia, o le diverse realtà della vita africana. Al UCRN lavoravo al fianco di antropologi sociali, in particolare con Clyde Mitchell, che stava già facendo un lavoro sull’analisi di rete, e Jaap van Velsen, che stava introducendo l’analisi situazionale, più tardi riconcettualizzata come analisi estesa dei case study. Andavo regolarmente ai loro seminari e sono stato influenzato fortemente da tutti e due. Un po’ alla volta, ho abbandonato la modellazione astratta per la teoria sociale antropologica, più concreta e fondata empiricamente e storicamente. Iniziai la mia lunga marcia dall’economia neoclassica alla sociologia storico-comparativa.

Questo era il contesto del tuo saggio del 1966, The political economy of Rhodesia, che analizzava le forme dello sviluppo capitalista di classe in corso in quel paese e le loro contraddizioni specifiche – spiegando le dinamiche che portarono alla vittoria del Rhodesian Front Party, il partito dei coloni nel 1962, e la Unilateral Declaration of Indipendence di Smith nel 1965. Quale fu l’impulso iniziale dietro al saggio, e qual è la sua importanza per te, guardandoti indietro?

The political economy of Rhodesia è stato scritto dietro incitamento di Van Velsen, che era un critico implacabile del mio uso dei modelli matematici. Avevo fatto una recensione di un libro di Colin Leys, European politics in Southern Rhodesia e Van Velsen mi suggerì di svilupparla in un articolo più lungo. Qui, e in Labour supplies in historical perspective, ho analizzato il modo in cui la completa proletarizzazione della classe contadina della Rhodesia creava delle contraddizioni per l’accumulazione capitalista – negli effetti, in che modo finiva per produrre più problemi che vantaggi per il settore capitalista(2). Fino a che la proletarizzazione era parziale, creava le condizioni per cui i contadini africani sussidiavano l’accumulazione di capitale, dato che producevano parte della loro propria sussistenza; ma più la classe contadina diventava proletaria, più quei meccanismi iniziavano a rompersi. Una manodopera completamente proletarizzata poteva essere sfruttata solo se era pagata con un salario di sussistenza pieno. In questo modo, invece di rendere più facile lo sfruttamento della manodopera, la proletarizzazione lo rendeva in effetti più difficoltoso, e spesso ha richiesto al regime di diventare più repressivo. Martin Legassick e Harold Wolpe, per esempio, davano per certo che l’apartheid in Sud Africa era dovuto principalmente al fatto che il regime aveva dovuto diventare più repressivo nei confronti della forza lavoro africana poiché quella era pienamente proletarizzata, e non poteva più sussidiare l’accumulazione del capitale come aveva fatto in passato.

Tutta la regione dell’Africa Meridionale – che si stende dal Sud Africa al Botswana attraverso la ex-Rhodesia, il Mozambico, il Malawi, che una volta era il Nyasaland, fino al Kenya, come punta estrema a nord-est – era caratterizzata da forti risorse minerarie, dall’agricoltura dei coloni e da un’estrema spoliazione della classe contadina. È molto diversa dal resto dell’Africa, nord incluso. Le economie dell’Africa Occidentale sono basate essenzialmente sull’agricoltura. Ma la regione meridionale – che Samir Amin chiamava l’“Africa delle riserve di manodopera” – era in qualche modo un paradigma dell’estrema spoliazione contadina, e allo stesso modo della proletarizzazione. Parecchi di noi stavano mettendo in evidenza che questo processo di spoliazione era contraddittorio. Inizialmente creava le condizioni perché la classe contadina sussidiasse l’agricoltura capitalista, le attività estrattive, la manifattura e così via. Ma, procedendo, creava delle difficoltà nello sfruttamento, la mobilitazione e il controllo del proletariato che, nel frattempo, era stato creato. Il lavoro che stavamo facendo allora – il mio Labour supplies in historical perspective, ed i lavori collegati di Legassick e Wolpe – stabilirono quello che poi venne chiamato il Paradigma dell’Africa Meridionale sui limiti della proletarizzazione e della spoliazione.

Contrariamente a quelli che ancora identificavano lo sviluppo capitalista con la proletarizzazione tout court – Robert Brenner, per esempio – l’esperienza dell’Africa meridionale mostrava che la proletarizzazione, di per sé, non favorisce lo sviluppo capitalista – dato che erano richieste anche altre circostanze di tutti i generi. Per la Rhodesia, identificai tre stadi di proletarizzazione, solo uno dei quali era favorevole all’accumulazione capitalista. Nel primo stadio, i contadini rispondevano allo sviluppo del capitalismo rurale fornendo i prodotti agricoli, ed avrebbero fornito manodopera solo in cambio di alti salari. L’intera area in questo modo finiva per essere caratterizzata da una penuria di manodopera, perché non appena l’agricoltura capitalista o l’attività estrattiva iniziavano a svilupparsi, si creava una domanda per i prodotti locali che i contadini africani era molto veloci nel soddisfare; potevano partecipare all’economia monetaria attraverso la vendita dei prodotti piuttosto che con la vendita di manodopera. Uno degli scopi del supporto statale all’agricoltura dei coloni era di creare concorrenza con i contadini africani, cosicché questi ultimi fossero costretti a fornire manodopera piuttosto che prodotti. Questo condusse ad un processo a lungo termine che andò dalla proletarizzazione parziale alla proletarizzazione completa; ma come già menzionato si trattò anche di un processo contraddittorio. Il problema, con il normale modello “proletarizzazione come sviluppo capitalista”, è che ignora non solo le condizioni reali del capitalismo dei coloni dell’Africa Meridionale ma anche molti altri casi, come gli stessi Stati Uniti, che erano caratterizzati da uno schema completamente differente – una combinazione di schiavitù, genocidio della popolazione nativa e immigrazione del surplus di manodopera dall’Europa.

[...]
Quando sei tornato in Europa, hai trovato un mondo molto diverso da quello che avevi lasciato sei anni prima?

Sì. Tornai in Italia nel 1969, e piombai immediatamente in due situazioni complicate. Una era all’Università di Trento, dove mi era stata offerta una docenza. Trento era il centro principale della militanza studentesca, e la sola università in Italia che, a quel tempo, offrisse dottorati in sociologia. La mia nomina era sponsorizzata dal comitato organizzativo dell’università che era formato dal democristiano Nino Andreatta, dal socialista liberale Norberto Bobbio, e da Francesco Alberoni; faceva parte di un tentativo di imbrigliare il movimento studentesco attraverso l’assunzione di un radicale. Nel primo seminario che tenni, avevo solo 4 o 5 studenti; ma nel semestre autunnale, dopo che il libro sull’Africa era uscito nell’estate del 1969, avevo quasi mille studenti che cercavano di entrare in classe(3). Il mio corso divenne il grande evento di Trento. Provocò addirittura una spaccatura in Lotta Continua: la fazione di Boato voleva che gli studenti venissero al corso, per ascoltare una critica radicale delle teorie dello sviluppo, mentre la fazione di Rostagno cercava di interrompere le lezioni lanciando pietre, in classe, dal cortile.

La seconda situazione era a Torino, grazie a Luisa Passerini, che fu uno personaggio di rilievo nella diffusione degli scritti situazionisti e che, quindi, ebbe una grande influenza su molti dei quadri di Lotta Continua che stavano attingendo al situazionismo. Facevo il pendolare tra Trento e Torino, via Milano – dal centro del movimento studentesco al centro del movimento dei lavoratori. Mi sentivo attratto e allo stesso tempo spaventato da alcuni aspetti di questo movimento – particolarmente dal suo rifiuto della “politica”. In alcune assemblee, poteva capitare che operai molto militanti si alzassero e dicessero, “Basta politica! La politica ci sta spingendo nella direzione sbagliata. Abbiamo bisogno di unità”. Per me, fu proprio uno shock, arrivando dall’Africa, scoprire che i sindacati comunisti erano considerati reazionari e repressivi dagli operai in lotta – e che in questo c’era un importante elemento di verità. La reazione contro i sindacati del PCI divenne una reazione contro tutti i sindacati. Gruppi come Potere Operaio e Lotta Continua si affermarono come un’alternativa, sia ai sindacati che ai partiti di massa. Con Romano Madera, che allora era uno studente, ma anche un quadro politico e un gramsciano – una rarità nella sinistra extra-parlamentare – iniziammo a sviluppare l’idea di trovare una strategia gramsciana per metterci in relazione con il movimento.

È qui che l’idea di autonomia – di autonomia intellettuale della classe operaia – è emersa per la prima volta. La creazione di questo concetto è ora generalmente attribuita ad Antonio Negri. Ma, in effetti, ha origine nell’interpretazione di Gramsci che sviluppammo nei primi anni ‘70, nel Gruppo Gramsci cofondato da Madera, Passerini e me. Il contributo più importante che ci sembrava di potere dare al movimento non era nelle vesti di chi offriva un sostituto dei sindacati, o dei partiti, ma come studenti e intellettuali impegnati ad aiutare le avanguardie degli operai nello sviluppo della loro stessa autonomia – autonomia operaia – attraverso una comprensione dei processi più ampi, sia nazionali che globali, in cui le loro lotte avevano luogo. In termini gramsciani, lo si concepiva come formazione di intellettuali organici alla classe operaia in lotta. A questo fine formammo i Collettivi politici operai (CPO), che divennero noti come l’Area dell’Autonomia. Non appena questi collettivi avessero sviluppato la loro pratica autonoma, il Gruppo Gramsci avrebbe cessato di avere una funzione e si sarebbe potuto sciogliere. Quando si sciolse effettivamente, nell’autunno del 1973, Negri entrò in scena e portò i CPO e l’Area dell’Autonomia verso una direzione avventurosa che era lontana da ciò che si pensava in origine.

Ci sono della lezioni comuni che hai appresso dalle lotte di liberazione nazionali africane e dalle lotte della classe operaia italiana?

Le due esperienze avevano in comune il fatto che, in entrambe, avevo buonissime relazioni con i movimenti più ampi. La gente voleva sapere su che basi stavo partecipando alla lotta. La mia posizione era: ‘”Non ho intenzione di dirvi che cosa fare, perché voi conoscete la vostra situazione molto meglio di quanto potrò mai fare io. Ma sono in una posizione migliore per capire il più ampio contesto in cui si sviluppa. Così il nostro scambio deve essere basato sul fatto che voi mi dite qual è la vostra situazione e io vi dico in che relazione si trova con il contesto più ampio, che non potete vedere o che vedete solo parzialmente, nel quale operate”. Quella fu sempre la base di eccellenti relazioni, sia con i movimenti di liberazione nell’Africa Meridionale che con gli operai italiani.

Gli articoli sulla crisi capitalista hanno avuto origine in uno scambio di questo tipo, nel 1972 (4). Agli operai dicevano: “Adesso c’è una crisi economica, dobbiamo stare calmi. Se continuate a fare le lotte i posti di lavoro in fabbrica se ne andranno altrove”. Così gli operai ci posero la questione: “Siamo dentro a una crisi? E, se sì, quali sono le implicazioni? Dovremmo starcene tranquilli per questo?”. Gli articoli che costituivano Towards a theory of capitalist crisis furono scritti in funzione di questa problematica particolare, formulata dagli operai stessi, che dicevano: “Parlaci del resto del mondo e di che cosa ci dobbiamo aspettare”. Il punto di partenza degli articoli era: “Allora, le crisi avvengono che voi facciate le lotte o no – non sono in funzione della militanza degli operai, o degli “errori” nella gestione dell’economia, ma sono fondamentali al funzionamento della stessa accumulazione capitalista”. Era quello l’orientamento iniziale. Il libro fu scritto proprio all’inizio della crisi; prima che l’esistenza della crisi fosse ampiamente riconosciuta. Divenne importante come cornice di riferimento che poi ho usato, negli anni, per monitorare quello che succedeva. Dal quel punto di vista, ha funzionato per bene.
Torneremo sulla teoria delle crisi capitaliste, ma volevo prima chiederti del tuo lavoro in Calabria. Nel 1973, proprio mentre il movimento si stava alla fine placando, hai accettato l’offerta di un posto di insegnamento a Cosenza?
Una delle attrattive, per me, dell’andare in Calabria, era continuare la mia ricerca sull’offerta di manodopera in un nuovo contesto. Avevo già visto in Rhodesia come, quando gli africani furono completamente proletarizzati – o, più precisamente, quando divennero coscienti che a quel punto erano completamente proletarizzati – la cosa portasse alle lotte per chiedere un salario di sussistenza nelle aree urbane. In altre parole, la finzione per cui “siamo maschi soli, le nostre famiglie continuano a vivere delle vite contadine nelle campagne”, non poteva più reggere, una volta che le stesse famiglie erano costrette a vivere nelle città. Avevo messo in evidenza questa cosa in Labour supplies in historical perspective. La misi ancora più a fuoco in Italia, perché c’era questa situazione ingarbugliata: i migranti del sud venivano portati nelle regioni industriali del nord come crumiri, negli anni ‘50 e nei primi anni ‘60. Ma, dagli anni ‘60, e specialmente verso la fine degli anni ‘60, furono trasformati in avanguardie della lotta di classe, che è l’esperienza tipica dei migranti. Quando misi in piedi un gruppo di ricerca in Calabria, feci leggere gli antropologi sociali che avevano lavorato sull’Africa, particolarmente sulle migrazioni, dopodiché facemmo un’analisi dell’offerta di manodopera dalla Calabria. Le questioni erano: che cosa stava creando le condizioni per questa migrazione? E quali erano i suoi limiti – dato che, ad un certo punto, anziché creare una forza lavoro docile che potesse essere usata per minare il potere di contrattazione della classe operaia settentrionale, gli stessi migranti diventavano l’avanguardia militante?

Dalla ricerca emersero due cose. La prima, che lo sviluppo capitalista non si basa necessariamente sulla completa proletarizzazione. Da una parte, la migrazione su lunga distanza della manodopera si stava verificando a partire da luoghi dove non era in corso nessuna spoliazione, dove, addirittura, c’era la possibilità per i migranti di acquistare terra dai proprietari terrieri. Questo aspetto era collegato al sistema locale di primogenitura, attraverso il quale solo il figlio maggiore ereditava la terra. Tradizionalmente, i figli minori finivano per entrare nella Chiesa o nell’esercito, fino a che le migrazioni su larga scala e su lunga distanza fornirono un’alternativa sempre più importante per guadagnare i soldi necessari all’acquisto della terra, una volta tornati a casa, e per mettere su le proprie fattorie. Dall’altra parte, nelle aree veramente povere, dove la manodopera era completamente proletarizzata, in genere non ci si poteva affatto permettere di migrare. L’unico modo in cui si riuscì a farlo fu, per esempio, quando i brasiliani abolirono la schiavitù nel 1888 e ci fu bisogno di manodopera sostitutiva a buon mercato. Vennero reclutati i lavoratori da queste aree profondamente impoverite dell’Italia Meridionale, venne loro pagato il viaggio e furono risistemati in Brasile, per rimpiazzare gli schiavi emancipati. Questi sono schemi di migrazione molto diversi. Ma in termini generali, non sono i poverissimi a emigrare: è necessario avere qualche mezzo e qualche aggancio per poterlo fare.

La seconda cosa che si ricavò dalla ricerca calabra aveva delle similitudini con i risultati della ricerca in Africa. Anche qui, la disposizione dei migranti, rispetto all’impegnarsi nelle lotte della classe operaia nei luoghi in cui si erano spostati, dipendeva dal presupposto che le condizioni in quel luogo fossero considerate come in grado di determinare permanentemente le loro possibilità di vita. Non è sufficiente dire che la situazione delle aree verso cui si emigra determina per quali salari e per quali condizioni i migranti lavoreranno. Si deve anche dire fino a che punto i migranti si percepiscono nella condizione di ricavare il grosso della propria sussistenza dall’impiego salariato – è un meccanismo che può essere individuato e monitorato. Ma il punto principale che emergeva era un tipo diverso di critica all’idea di proletarizzazione come processo tipico dello sviluppo capitalista.

(continua)
Note
1) NdT: all’Università Bocconi.
2) V. rispettivamente: Arrighi, The political economy of Rhodesia, nlr 1/39, Sept–Oct 1966; Leys, European politics in Southern Rhodesia, Oxford, 1959; Arrighi, Labour supplies in historical perspective: a study of the proletarianization of the African peasantry in Rhodesia, in Arrighi and John Saul, Essays on the political economy of Africa, New York, 1973 [NdT: v. nota successiva per l’edizione italiana di Essays on the political economy of Africa.
3) Arrighi, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, Torino, 1969.
4)V. in inglese Arrighi, Towards a theory of capitalist crisis, nlr 1/111, Sett–Oct 1978; gli articoli sono apparsi per la prima volta in “Rassegna Comunista”, 2, 3, 4 e 7, Milano, 1972 [NdT: con il titolo comune di Una nuova crisi generale.

Ringrazio David Harvey, Beverly Silver, Kheya Bag per la disponibilità, Nicola Montagna per i pareri sulla traduzione e la Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna per le indicazione bibliografiche. (Gh. B.)