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India: sviluppo economico, poco sostenibile

03/05/2011

Bric/L’India raggiungerà la Cina? Il sorpasso è l’obiettivo a lungo termine che i poteri politici ed economici si sono attribuiti, anche se Amartya Sen mette in guardia da una crescita che trascura la qualità della vita

“ …se l’India continua a crescere alla stessa velocità attuale, essa cambierà il mondo…”
The Economist, 2010

“… in India lo sviluppo galoppa, ma lo fa anche la fame…”
V. Bajaj, 2011

 

Premessa

Per comprendere le caratteristiche specifiche dei processi di sviluppo dei paesi che fanno parte dell’area Bric appare utile, tra l’altro, guardare ai loro rapporti, economici e politici, con la Cina, nonché confrontare le loro modalità di crescita con quelle del gigante asiatico. Questa considerazione vale in particolare per l’India.

Negli ultimi anni non si è più sentito parlare della cosiddetta Cindia, un’eventuale alleanza, immaginata da alcuni, tra le due maggiori nazioni del mondo come popolazione, in preda ambedue a processi di fortissima crescita economica. L’ipotesi di un loro stretto accordo ha circolato per qualche tempo per il mondo. Ma la storia dei due paesi, nonché la loro situazione presente, militano fortemente contro la possibilità che essi sviluppino un’alleanza per accrescere ulteriormente la loro presa sui mercati e sulla politica mondiali. Le loro attuali opzioni economiche, sociali, politiche, appaiono sostanzialmente divergenti.

Il gruppo dirigente indiano in particolare guarda alla Cina con invidia da una parte e con orgoglio e spirito di rivalità dall’altra. In ogni caso, l’establishment indiano non nasconde la sua determinazione nel cercare di superare al più presto e a tutti i costi i tassi di sviluppo economico cinesi e di diventare un giorno anche un paese con un pil più elevato di quello del rivale.

Le differenze tra India e Cina

Il confronto sul fronte economico e sociale si mostra peraltro certamente come poco favorevole per l’India.

Il pil indiano complessivo è oggi circa soltanto un quarto di quello cinese, mentre quello pro-capite è pari a poco più di un quarto – bisogna in ogni caso ricordare che il suo livello era nel 1991 uguale per i due paesi –, mentre i tassi di crescita della sua economia si sono rivelati sempre inferiori a quelli del suo rivale negli ultimi trent’anni, anche se di recente essi si sono avvicinati molto; nel 2010 si è registrato un +8,6% contro un 10,3% e alcune previsioni per il 2011 parlano di una possibile sostanziale parità di tassi di crescita.

Disarmante appare il paragone sul fronte di alcuni indicatori sociali. Così, ad esempio, secondo le cifre fornite dalla Banca mondiale qualche anno fa, in India la percentuale della popolazione che viveva sotto la soglia della povertà era pari nel paese, nel 1990, al 51,3% ed essa era scesa al 41,6% nel 2005, mentre in Cina le cifre corrispondenti erano uguali rispettivamente al 60,2% e al 15,9%, indicando una caduta molto più rilevante. L’India rappresenta la più alta concentrazione al mondo di persone malnutrite; lo erano qualche anno fa il 43% dei bambini sotto l’età di cinque anni, contro il 10% di quelli cinesi. Solo il 53% dei ragazzi indiani studiava per più di 5 anni, contro il 98% di quelli cinesi. Si registra ancora oggi un numero maggiore di poveri in solo otto degli stati indiani che in tutta l’Africa sub-sahariana.

Il confronto appare insoddisfacente anche per quanto riguarda la concentrazione del potere economico e i livelli di corruzione, temi tra di loro in qualche modo incrociati.

Per quanto riguarda le due questioni, più che alla Cina, l’India è di frequente paragonata alla Russia (Lamont, Fontanella-Khan, 2011). Alcuni recenti scandali hanno alimentato la paura che la combinazione di una grande creazione di ricchezza e di una governance molto debole minaccino alla radice il successo economico del paese.

La corruzione appare particolarmente evidente nel settore delle telecomunicazioni, appena toccato da un grave scandalo, in quello immobiliare e in quello delle costruzioni. Essa è sicuramente aumentata da quando l’economia è stata liberalizzata a partire dal 1991 (Lamont, Fontanella-Khan, 2011); tra l’altro, gran parte del denaro stanziato per i progetti pubblici sparisce di solito nelle maglie di una burocrazia vorace e inefficiente. Il livello della corruzione appare rilevante anche in Cina, ma i suoi effetti negativi sul sistema economico vi si fanno sentire molto di meno.

Un ultimo tipo di paragone con la Cina riguarda i livelli di inflazione. In quest’ultimo paese essa si colloca in questo momento sopra il 5%, livello certamente poco incoraggiante, ma in India essa viaggia oggi intorno al 9%, la cifra più elevata riscontrabile tra tutti i paesi asiatici (Lamont, 2011).

Perché la crescita economica indiana dovrebbe, secondo alcuni, superare quella cinese

Nonostante i problemi sopra elencati e altri cui tralasciamo di fare riferimento, diversi autori pensano comunque che, alla lunga, i tassi di crescita dell’economia indiana risulteranno più elevati di quelli cinesi.

Citiamo soltanto le argomentazioni in proposito avanzate qualche tempo fa dall’Economist (The Economist, 2010, a e b).

Secondo la rivista, che riprende delle analisi degli economisti della Morgan Stanley e di altri centri di ricerca, il tasso di crescita annua del pil indiano dovrebbe superare quello cinese entro tre-cinque anni. Più in generale, nei prossimi 20-25 anni l’India dovrebbe crescere più velocemente di qualsiasi altro grande paese.

Sono diversi i fattori che militerebbero a favore del più elevato tasso di sviluppo indiano.

Intanto vanno ricordati i trend demografici. La popolazione cinese, grazie in particolare alla politica del figlio unico, sta cominciando a invecchiare e inizierà presto a ridursi quantitativamente. Quella indiana in età lavorativa crescerà di 136 milioni di unità da qui al 2020, mentre quella della Cina soltanto di 23 milioni. L’economia indiana beneficerebbe così di quel “dividendo demografico” che ha a suo tempo alimentato molti dei miracoli economici asiatici degli scorsi decenni.

Il secondo elemento di spinta alla crescita risiederebbe nella forza dei suoi imprenditori. Mentre lo sviluppo cinese è diretto dallo stato, quello indiano è portato avanti nella sostanza, afferma l’Economist, da 45 milioni di imprenditori che sono in preda a una vera e propria esplosione di iniziative. Parallelamente, il capitalismo indiano è più innovativo di quello cinese, appare più knowledge-intensive, mentre le sue grandi imprese stanno riuscendo a internazionalizzarsi di più e meglio di quelle cinesi.

Questo rimanda anche al terzo fattore in gioco per la rivista, la democrazia indiana, elemento che può conferire al paese dei grandi benefici di lungo termine. Ad esempio, le idee scorrono più facilmente in India, dal momento che il paese manca della cultura cinese della segretezza e della censura.

Ma le argomentazioni avanzate dall’Economist appaiono, a nostro parere, almeno in parte, discutibili.

Certo, la forte crescita della popolazione potrebbe portare un grande contributo allo sviluppo, che qualcuno stima sino al 4% annuo, ma, d’altro canto, essa potrebbe anche essere di ostacolo, dal momento che la relazione tra crescita della popolazione e dell’economia non è affatto necessariamente positiva: trovare un impiego a tutti i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro potrebbe diventare anche un grave problema se la questione non fosse gestita con grande competenza e capacità dai governi in carica.

Per quanto riguarda il secondo punto, anche la Cina registra almeno altrettanti imprenditori di quelli indiani che, quanto a capacità e intraprendenza, non sembrano certo secondi agli altri. Le previsioni dall’ultimo periodo suggeriscono, inoltre, che sarà la Cina e non l’India a diventare entro relativamente pochi anni la prima potenza scientifica del pianeta, anche se non va sottovalutata la spinta indiana nel settore; intanto, comunque, gli investimenti all’estero del primo paese continuano a essere quantitativamente superiori a quelli del secondo, anche se le grandi imprese indiane sembrano mostrare in effetti una maggiore capacità di inserimento nei processi di internazionalizzazione.

In relazione infine al terzo punto, va ricordato che non appare chiaro quale sia veramente oggi la relazione tra sviluppo economico e democrazia. Un regime autoritario come quello cinese ha mostrato, almeno sino a oggi e contrariamente a quanto si poteva pensare in occidente, che tale relazione appare perlomeno piuttosto confusa.

Ma conviene comunque porsi come obiettivo primario quello di vincere la gara economica con la Cina?

In ogni caso, comunque, non si può escludere che i tassi di crescita indiani superino, presto o tardi, quelli cinesi. Ma, d’altro canto, è sensato che gli indiani puntino tante carte su di un tale obiettivo?

Un recente articolo del Guardian (The Guardian, 2011), centrato sulle prospettive di sviluppo del paese, registra il delinearsi di una divisione abbastanza profonda tra le grandi imprese e il governo da una parte e molti accademici e ambientalisti dall’altra.

Amartya Sen, amico di vecchia data dell’attuale primo ministro, ha innescato la discussione affermando in un suo recente intervento che l’India dovrebbe smetterla di essere ossessionata dal desiderio di superare i tassi di sviluppo economico cinesi e che appare stupido aspirare a una crescita annuale a due cifre senza che venga affrontato il problema della sottonutrizione cronica di decine di milioni di indiani. Lo stesso studioso ha aggiunto che avrebbe più senso confrontarsi con la Cina sul fronte degli indicatori sociali, quali la speranza di vita alla nascita, il tasso di mortalità infantile, il livello di scolarizzazione dei ragazzi. Il pil, ricorda Sen, può non essere un buon indicatore della qualità della vita.

Lo studioso afferma, d’altro canto, che egli non disprezza certo in generale la crescita economica, ma che essa non dovrebbe essere secondo lui l’obiettivo ultimo di tutto l’esercizio. Quello che appare importante, afferma Sen, è soprattutto ciò che facciamo con i frutti dello sviluppo. Attualmente tale processo va, per l’autore, sostanzialmente a favore dei più ricchi e privilegiati.

Come riferisce sempre il Guardian, alle argomentazioni di Sen hanno risposto due docenti della Columbia University, Arvind Panagariya e Jaghdish Bagwati, ambedue molto noti.

Il primo ha cercato di mettere in rilievo come lo sviluppo indiano favorisca direttamente i poveri attraverso la creazione di redditi e di posti di lavoro e come quindi la crescita non porti benefici soltanto ai ricchi.

Il secondo ha affermato anch’egli a sua volta che le critiche di Sen al modello di crescita indiana sottostimano la riduzione nei livelli di povertà che è stata già portata dai processi di sviluppo, aggiungendo che, ancora peggio, esse ostacolano oggettivamente il varo delle riforme che ora sarebbero necessarie per portare maggiori benefici alla popolazione più povera.

Che dire alla fine? Ci sembra che l’analisi oggettiva delle differenze negli attuali indicatori sociali dell’India nei confronti di quelli cinesi, sopra riportati, mostrino chiaramente come le argomentazioni di Sen abbiano un forte fondamento di verità e come i progressi indiani nel settore siano stati almeno sino a oggi limitati e largamente insoddisfacenti.

Conclusioni

Noi non sappiamo veramente come si svilupperà sul terreno economico la competizione tra India e Cina nei prossimi anni. Ma lo sviluppo indiano, pur in sé così importante come dimensioni, si sta svolgendo senza alcuna considerazione per i più poveri, i più deboli, le minoranze etniche, mirando nella sostanza a soddisfare prioritariamente un ristretto numero di grandi imprenditori, nonché la fascia superiore della burocrazia pubblica, coinvolgendo inoltre nel processo una classe media in rilevante crescita numerica. Il confronto con la Cina, che pure non è un modello di virtù, appare francamente insostenibile. Ma l’establishment indiano sembra accecato dal miraggio della crescita economica di per sé, dalla creazione in sostanza di quella che esso chiama la Shining India.

Il caso indiano mette di nuovo con forza in discussione la relazione che ci deve essere tra sviluppo economico e lotta contro la povertà e la diseguaglianza, relazione che appare certo, in ogni caso, complessa. Su tale questione, comunque, esso non appare un esempio da imitare.

Ma la più grande democrazia del mondo deve trovare in sé la forza per avviare un nuovo progetto di sviluppo sostenibile, o la sola via aperta rimarrà alla fine quella dei naxaliti, che sono già notevolmente presenti, non a caso, su di un terzo del territorio del sub-continente.

 

Testi citati nell’articolo

Bajaj V., Galloping growth, and hunger in India, www.nyt.com, 11 febbraio 2011

Lamont J., Time to put the brakes on India’s dreams, www.ft.com, 27 aprile 2011

Lamont J., Fontanella-Khan J., India: writing is on the wall, www.ft.com, 21 marzo 2011

Poverty matters blog, Growth in India - the state of the trickle-down debate, The Guardian, 25 marzo 2011

The Economist, A bumper but freer road, 2 ottobre 2010, a

The Economist, India’s surprising economic miracle, 2 ottobre 2010, b

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