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Euro, tutti i vantaggi della Germania

15/09/2015

L’opinione pubblica tedesca è stata educata a pensare di essere la spina dorsale di un’Europa in cui gli altri Paesi sono fardelli che pesano su di lei. Ma è proprio così?

A metà luglio, lo storico Jacob Soll scriveva sulle pagine del New York Times a proposito di un convegno sul debito greco tenutosi in Germania: “Alla fine della sessione, i partecipanti locali mi hanno avvicinato per spiegarmi come I greci stiano derubando I tedeschi e dirmi che erano stufi di essere vittime”. L’opinione pubblica tedesca è stata educata negli ultimi 20 anni a pensare di essere la spina dorsale di un’Europa in cui gli altri Paesi sono fardelli che pesano su di lei. Ma un’analisi più attenta mostra una situazione diversa.

Il contributo finanziario tedesco all’Unione, benché non trascurabile nel bilancio europeo, è poca cosa se confrontato con il PIL tedesco: nell’arco del settennato 2007-2013, la differenza fra quanto versato da Berlino a Bruxelles e i contributi ricevuti da istituzioni, imprese e cittadini tedeschi nell’ambito dei programmi europei è oscillata tra i 6 e i 13 miliardi annui, ovvero meno dello 0,5% del reddito nazionale e un centesimo circa della complessiva spesa pubblica tedesca.

Ben più consistenti sono stati, negli anni seguiti allo scoppio della crisi, i benefici della moneta unica per l’economia e le finanze pubbliche tedesche. In primo luogo la Germania ha potuto beneficiare di tassi di interesse sui propri titoli pubblici eccezionalmente bassi, in alcuni casi negativi anche su scadenze pluriennali: più si diffondeva il panico tra gli investitori circa la solvibilità dei paesi mediterranei aderenti all’eurozona, maggiore era la corsa ai titoli tedeschi considerati privi di rischi in un frangente di incertezza generale nei mercati finanziari. La politica monetaria espansiva della BCE, stante la sua impossibilità di essere prestatore di ultima istanza per gli stati in difficoltà (almeno fino alla dichiarazione della BCE nel luglio 2012 di preservare l’unione monetaria “con ogni mezzo”), ha alimentato questo circuito fornendo enorme liquidità a operatori alla frenetica ricerca di titoli risk-free.

Come calcolato dal Leibniz Institute for Economic Research il risparmio per le casse pubbliche tedesche a partire dal 2010 è calcolabile in oltre 100 miliardi di euro, una cifra ben superiore ai finanziamenti e alle garanzie forniti dalla Germania per sostenere il debito greco: anche nel caso di un completo default ellenico le perdite per Berlino ammonterebbero a circa 90 miliardi. A ciò va aggiunto il vantaggio per gli operatori privati tedeschi: mentre in larga parte del continente si assisteva ad un credit crunch, il bassissimo tasso di interesse sui titoli pubblici, fornendo un benchmark per il mercato del credito, spingeva verso il basso il costo del denaro prestato a imprese e banche.

Facendo qualche passo indietro, aggiungiamo un ulteriore elemento: la moneta unica ha permesso in Germania il consolidarsi dell’ormai famoso surplus della bilancia commerciale. Cosa significa? Significa che la Germania esporta molto più di quanto importa (in rapporto al Pil, molto più della Cina, colosso delle esportazioni, che invece ha visto calare il surplus dal 2008). All’inizio dell’unione monetaria, la Germania –per affrontare l’elevata disoccupazione post-unificazione- ha optato per una dura politica di compressione salariale. Questo ha prodotto riduzione della domanda interna ed estrema competitività dei prodotti tedeschi (insieme ad altri fattori, certamente): competitività nelle esportazioni e domanda interna compressa- quindi basse importazioni- sono alla base del crescente surplus nei conti con l’estero. Una politica, insomma, molto sbilanciata a vantaggio delle imprese: come riportava qualche mese fa Philippe Legrain sul Sole 24 Ore, nonostante un aumento negli ultimi 15 anni del 17,8% della produttività del lavoro, i salari reali tedeschi oggi sono più bassi rispetto al 1999. E qui entra in gioco la moneta unica. Con questa politica così orientata all’esportazione, in una situazione di cambi flessibili, sarebbe intervenuto un meccanismo equilibratore: il marco tedesco si sarebbe apprezzato (perché la domanda di marchi per comprare merci tedesche sarebbe aumentata al punto di farne salire il valore) e questo avrebbe iniziato a rendere le merci tedesche più care per il resto del mondo. Ma questo meccanismo è bloccato dall’euro, che invece non si apprezza e deprezza secondo le transazioni con l’estero della sola Germania, ma di tutta l’Eurozona. La Germania si è trovata così con una moneta sistematicamente sottovalutata rispetto a quello che avrebbe dovuto avere singolarmente, dato il suo surplus commerciale.

E all’interno dell’area Euro? Il risparmio così accumulato in Germania è diventato credito che le banche tedesche hanno trasferito nei Paesi della periferia: gli attori economici del Sud si sono trovati, con l’euro, a pagare interessi molto più bassi sui loro debiti, ma non così bassi da eliminare il vantaggio delle banche tedesche a inondarli di credito. Non solo: questi prestiti erano messi al riparo dai rischi legati al tasso di cambio e all’inflazione, entrambi problemi “spazzati via” dalla moneta unica. Questo dovrebbe dire molto sulla condivisione di responsabilità nell’esplosione del debito nei Paesi della periferia europea, che si sono trovati –nelle parole dell’economista Marc Blyth- di fronte a “uno tsunami di denaro a buon mercato con cui comprare merci tedesche”. Questo rende più chiare le ragioni per cui l’introduzione dell’euro ha prodotto una divergenza nei conti con l’estero: la Germania che esporta molto di più di quanto importi e gli Stati della periferia l’opposto. Il resto è storia recente: quando, con la crisi, i debitori del Sud sono diventati insolventi, sono intervenuti i fondi di salvataggio europei, che hanno spostato sulle spalle dei contribuenti le perdite delle istituzioni finanziarie, concretizzando quello che sempre Mark Blyth definisce “la madre di tutti gli azzardi morali”.

Oggi il governo tedesco, aggregando consenso attorno alla retorica del Paese modello che porta il fardello per gli altri, continua con questa politica di compressione della propria domanda interna e riduzione dei costi nella gara all’esportazione, nonostante i richiami persino dalla Commissione Europea. Il problema è che questo rende molto più difficile la ripresa dalla crisi di tutta l’Eurozona. La debole domanda tedesca non fornisce mercato per esportazioni degli altri Paesi, contribuendo ad approfondire la crisi di domanda, che ancora affligge l’area euro (e non solo, come lucidamente osserva in un recente contributo l’ex governatore della FED Ben Bernanke). In secondo luogo, questo tiene il valore dell’euro troppo alto per le economie in crisi della periferia, impedendo loro di riguadagnare competitività verso il resto del mondo. Così facendo, il surplus tedesco approfondisce la recessione e esporta deflazione negli altri Paesi dell’Eurozona; è utile ricordare che “deflazione” in un Paese indebitato significa che il valore del debito aumenta nel tempo, rendendone più difficile il pagamento.

Ma chi, in Germania, beneficia di queste scelte del governo tedesco? Non i lavoratori che vivono una stagnazione salariale ormai quasi ventennale, né chi ha bisogno delle infrastrutture pubbliche, vista la mancanza di investimenti; i beneficiari sono invece le imprese manifatturiere, che si trovano ad avere bassi costi di produzione e non patiscono la bassa domanda interna. Questo governo è però riuscito a rendere egemone un discorso politico che sposta l’attenzione dalle disuguaglianze interne verso una retorica vittimista in Europa, come abbiamo visto, piuttosto scollegata dalla realtà.

Senza un intervento politico, queste divergenze nell’Eurozona non potranno che aumentare. Questo significa che -al di là dell’uscita unilaterale dalla moneta unica, che avrebbe carattere spiccatamente nazionalista e la cui praticabilità sarebbe tutta da verificare- rimangono solo due opzioni: da un lato, uno scioglimento concordato dell’euro, i cui effetti distributivi nei mesi immediatamente successivi andrebbero attentamente valutati (un mix di inflazione, aumento dei tassi di interesse –con conseguente recrudescenza dell’austerità- riduzione dei salari reali, come avvenuto nel ’92 con la svalutazione della lira); dall’altro, un investimento serio in senso federalista, che doti l’Eurozona di un bilancio (e quindi un debito) federale a finanziare comuni politiche di sostegno alla domanda, con una politica industriale e delle politiche redistributive comuni, primi fra tutti un piano di investimenti, e il sussidio unico di disoccupazione.

 


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Commenti

susana

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Se una banca

Mi dica, Claudio, se lei affida dieci euro ad un banchiere e questi li presta ad un barbone perchè il barbone si impegna a restituirli maggiorati degli interessi, se la prende con il barbone o con il banchiere?
La tesi che la responsabilità sia sempre e solo del debitore è ridicola e senza senso: il greco che prendeva a prestito soldi in un periodo di euforia era certo che il tempo buono sarebbe durato a lungo, tanto da permettergli di restituire senza problemi il prestito.
Il creditore, invece, avrebbe dovuto avere maggiore accortezza nel concedere il prestito non fosse altro perchè si presume dotato di maggiori conoscenze e competenze per comprendere la reale situazione economica e finanziaria di un paese e, di conseguenza, del cittadino.
La banca tedesca, invece, ha allegramente prestato perchè protetto dal rischio di cambio grazie all'euro (il prezzo di una moneta nazionale avrebbe rappresentato un segnale della "forza" dell'economia di quel paese) e dalla consapevolezza che sarebbe intervenuto lo stato (anzi, gli stati) ad occuparsi di loro.
Lo prova il fatto che dei cento e passa miliardi di "prestiti" dati dalla Trojka alla Grecia, la gran parte sono andati alle banche greche che hanno rimborsati i prestiti alle banche tedesche e francesi.
Basta banalità e luoghi comuni. Il tempo è finito

Sulla Germania e sull'Europa

Alcuni commenti specifici:
"Il contributo finanziario tedesco all’Unione, benché non trascurabile nel bilancio europeo, è poca cosa se confrontato con il PIL tedesco"
Il contributo finanziario all'Unione è basso per tutti i paesi europei e questo è infatti un problema per motivi abbastanza evidenti, ma non è nulla che avvantaggi specificamente la Germania.

"In primo luogo la Germania ha potuto beneficiare di tassi di interesse sui propri titoli pubblici eccezionalmente bassi, in alcuni casi negativi anche su scadenze pluriennali."
Mi pare che la riduzione dei tassi di interesse sul debito con l'avvento dell'Euro sia stato un fenomeno generalizzato. In Italia si è passati dal 12% medio del 1990 (con un inflazione al 6%) al 2% attuale. Anche durante la crisi del 2011 si è restati abissalmente al di sotto dei tassi dell'era della Lira, mi pare.

"più si diffondeva il panico tra gli investitori circa la solvibilità dei paesi mediterranei aderenti all’eurozona, maggiore era la corsa ai titoli tedeschi considerati privi di rischi in un frangente di incertezza generale nei mercati finanziari"
Questa è la legge dei mercati finanziari, vale per qualunque paese non corra rischi di default, non solo per la Germania.

"All’inizio dell’unione monetaria, la Germania –per affrontare l’elevata disoccupazione post-unificazione- ha optato per una dura politica di compressione salariale. Questo ha prodotto riduzione della domanda interna ed estrema competitività dei prodotti tedeschi (insieme ad altri fattori, certamente)"
E' vero che la Germania è un paese nel quale i redditi sono saliti molto debolmente negli ultimi quindici anni, ma comunque è ancora uno dei paesi europei in cui i salari sono più elevati. I salari tedeschi sono oggi più alti di quelli francesi e inglesi e molto più di quelli italiani, spagnoli e greci. La maggior competitività non dipende quindi da salari più bassi come molti ci vogliono far pensare ma appunto da "altri fattori" che potrebbero essere "tecnologia", "reattività all'innovazione", "efficienza del sistema produttivo"...

"Con questa politica così orientata all’esportazione, in una situazione di cambi flessibili, sarebbe intervenuto un meccanismo equilibratore: il marco tedesco si sarebbe apprezzato (perché la domanda di marchi per comprare merci tedesche sarebbe aumentata al punto di farne salire il valore) e questo avrebbe iniziato a rendere le merci tedesche più care per il resto del mondo"
In primis va sottolineato che questo accade in qualunque area valutaria. Quello che attribuisci a Italia e Germania potrebbe valere anche per due regioni italiane. Se ad esempio la Lombardia e la Sicilia avessero due valute diverse la Sicilia potrebbe svalutare la propria e cercare così di recuperare competitività, questo non mi induce ad auspicare l'adozione di valute regionali. La scomparsa della grande industria in Italia tra gli anni ottanta e novanta, in seguito a ripetute svalutazioni della Lira, ci suggerisce che non sempre svalutare funziona perché ha spesso degli svantaggi superiori ai vantaggi ed è quindi preferibile, anziché spezzare un'unione valutaria, adottare efficaci politiche redistributive (che sono quelle che mancano in Europa come vedremo sotto)
Tornando alla Germania il fatto tra l'altro che le esportazioni tedesche extra-UE abbiano continuato a crescere negli ultimi dieci anni, nonostante la forza dell'Euro, può di nuovo far pensare che non sia la competitività sul prezzo a far la differenza e quindi che anche in aree valutarie diverse le cose non cambierebbero granché da questo punto di vista...

"gli attori economici del Sud si sono trovati, con l’euro, a pagare interessi molto più bassi sui loro debiti, ma non così bassi da eliminare il vantaggio delle banche tedesche a inondarli di credito"
Nessuno è obbligato a fare debito. Se lo fa la responsabilità non è del creditore che lo ha raggirato, ma è del debitore che consapevolmente ha accettato di indebitarsi. Questo varrebbe la pena di tenerlo a mente...

"questi prestiti erano messi al riparo dai rischi legati al tasso di cambio e all’inflazione, entrambi problemi “spazzati via” dalla moneta unica"
Ovvio, ma anche questo vale anche al contrario. Chi oggi compra titoli di stato di altri paesi europei è nelle stesse condizioni, ovvero nessun rischio di cambio e bassa inflazione.

“uno tsunami di denaro a buon mercato con cui comprare merci tedesche”.
Mah... se andassi in banca a chiedere un mutuo, non riuscissi a farvi fronte e poi dicessi che la banca mi ha tentato con uno "tsunami di denaro", mi prenderebbero per pazzo...

"sono intervenuti i fondi di salvataggio europei, che hanno spostato sulle spalle dei contribuenti le perdite delle istituzioni finanziarie"
Questa mi pare la classica "reductio ad bancam". Pare che dietro ad ogni problema ci sia un banchiere perfido che ne approfitta. In realtà le istituzioni finanziarie di solito scaricano le perdite sui risparmiatori che hanno sottoscritto fondi, quindi chi ci avrebbe rimesso se la Grecia fosse andata in default sarebbe stato qualche risparmiatore, e di risparmiatori ce n'è di tutte le taglie, compreso chi magari ci aveva messo i propri risparmi. Conosco pensionati che avevano messo i propri in fondi argentini... Non dimentichiamoci poi che un default non dà ad un paese solo problemi immediati, ma anche futuri. Pensate che quel pensionato di cui sopra, ammesso che gli sia rimasto qualcosa, lo investirà ancora in Argentina?

"i beneficiari sono invece le imprese manifatturiere, che si trovano ad avere bassi costi di produzione e non patiscono la bassa domanda interna"
Sulla leggenda dei costi del lavoro bassi in Germania vedi link...
http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Wages_and_labour_costs/it

"al di là dell’uscita unilaterale dalla moneta unica, che avrebbe carattere spiccatamente nazionalista e la cui praticabilità sarebbe tutta da verificare"
Il carattere nazionalista del "ritorno alla lira" è certificato dalla conclusione del discorso bagnaista. Se seguo il filo del discorso di Bagnai e dei suoi seguaci, provando a condividerne le ipotesi, non torno alla lira italiana, ma semmai alla lira sabauda. Non c'è certamente area valutaria meno ottimale dello stivale italico...

"un investimento serio in senso federalista, che doti l’Eurozona di un bilancio (e quindi un debito) federale a finanziare comuni politiche di sostegno alla domanda, con una politica industriale e delle politiche redistributive comuni, primi fra tutti un piano di investimenti, e il sussidio unico di disoccupazione."
Giustissimo, ma ciò vale a prescindere dalla lettura della crisi dell'Euro e della Grecia. Un'entità socio-politica che ha deciso di mettere in comune territori, regole, risorse umane, economiche e finanziarie non può continuare a non avere un suo bilancio da mettere a disposizione di quelle risorse che mobilita per gestire quei processi che ha messo in moto. Non c'è nemmeno da chiedersi se è possibile, c'è solo da constatare l'assurdità di non averlo già fatto. :-)

Insomma una Germania efficiente

In pratica la Germania ha investito su riforme, efficienza, lavoro, produttività, ricerca e quindi ora ha successo, è un paese migliore. Che c'è di male? Noi abbiamo investito su pensionati, inflazione, corruzione ed evasione fiscale. E anche sul bunga bunga. Come un paese sottosviluppato insomma. Per riequilibrare le cose non potremmo fare anche noi la stessa cosa invece di invocare il ritorno al terzo mondo?
http://www.alfadixit.com/index.php?option=com_content&view=article&id=135:euro-ce-chi-dice-no&catid=34:cat-poli&Itemid=57

Di uscite da destra e da sinistra

Gentile professoressa, sono state organizzate spedizioni sulla Luna, vuole che sia tanto complicato ritornare ad una moneta nazionale?
Jacques Sapir, come ben sa, ha prodotto un ottimo volume sulla dissoluzione dell'euro, in cui affronta tutti i problemi tecnico-politici immediati dell'uscita e suggerisce misure e strumenti per porvi rimedio.
Gennaro Zezza ha prodotto, con il Levy Institute, una simulazione in caso di ritorno alla dracma della Grecia nella quale pare chiaro che, nonostante la distruzione pressochè totale di capacità produttiva avvenuta nel paese, dopo un primo anno, anno e mezzo di difficoltà (soprattutto per la necessità di finanziare le importazioni) si produrrebbe un significativo aumento del PIL e, soprattutto, delle condizioni di vita dei greci, oggi pari a quelle delle orde di "profughi" che cercano di entrare in Germania e Svezia.
Il punto è che mi sembra non vogliate scostarvi dall'ortodossia: perchè mai dovrebbero aumentare i tassi di interesse. Non vorreste conservare uno dei principi cardine di quel progetto fascista che è stato l'euro, ovvero il "divorzio" Tesoro/Banca d'Italia?
E perchè mai l'indicizzazione dei salari dovrebbe annullare gli effetti della svalutazione? Se questa dovesse essere del 20/25%, l'inflazione non dovrebbe superare il 6/7% (nel primo anno). Rimarrebbe una bella riduzione, in termini di prezzo per gli acquirenti esteri, del 15/20% che non mi pare affatto poco.
Su un punto ha drammaticamente ragione: chi potrebbe garantire un'uscita da sinistra? Non certo la sinistra collusa e traditrice alla Tsipras, figuriamoci! Pur avendo sempre votato (fino alle ultime elezioni) comunista, se oggi avessimo una Le Pen, anzichè un figurante alla Salvini, non esiterei a darle il mio voto.

Nessuna invasione di cavallette...

Nessuna invasione di cavallette, né moria di primogeniti. Cioè: no, non liquidiamo in modo “ideologico” nessuna ipotesi. Ma tutte le ipotesi in campo hanno dei costi che richiedono attenzione.
Rimanendo sull’ipotesi di un’uscita concertata (uscita nazionale o uscita concertata dall’Euro non sono la stessa cosa, se non altro per l’ambiente internazionale ostile in cui si inserirebbe il primo caso): il principale vantaggio sarebbe la possibilità di sostituire la deflazione interna con la svalutazione della moneta. Scelta legittimissima, ma con dei costi: un sicuro aumento dei tassi di interesse, che vuol proprio dire “austerità”; inflazione da costi e riduzione dei salari reali, a cui si potrebbe –verissimo- fare fronte con una seria indicizzazione, ma questo ridurrebbe o eliminerebbe il vantaggio ottenuto con la svalutazione.
Una questione centrale è quella dei tempi di queste decisioni e degli “effetti annuncio”: solo paventare l’ipotesi fa scattare corsa agli sportelli e fuga di capitali (come nel caso greco), quindi i controlli di capitale (che sarebbero ovviamente necessari in caso di uscita) correrebbero il forte rischio di arrivare in ritardo. Se sappiamo che esistono dei vantaggi di lungo periodo (di cui comunque esistono precedenti in casi di abbandono di cambi fissi, ma non di ritorno indietro rispetto a una cessione della sovranità monetaria), esiste grande incertezza sulla misura dei costi di breve periodo, che rischiano di non essere recuperabili nel lungo periodo (in cui, come sappiamo, peraltro, saremo tutti morti).
Da ultimo, capiamo i dubbi sull’esistenza dei rapporti di forza necessari a imprimere all’Europa la svolta che auspichiamo nell’articolo, ma ci sembra che siamo ancora più lontani dai rapporti di forza necessari in Italia per un’uscita “a sinistra” dall’euro. (CN e MG)

Non c'è verso!

Una analisi che chi come me segue il blog di Alberto Bagnai sin dagli esordi conosce benissimo e che non può far che piacere ritrovare in questo sito.
Ma come al solito, in cauda venenum. La dissoluzione dell'eurozona, concordata o meno che sia, porterà invasione delle cavallette e moria dei primogeniti; ergo meglio "più Europa".
Che questa seconda opzione sia una cretinata (lo dico con tutto rispetto, ma non c'è altro termine da utilizzare, visto quel che sta succedendo in questi giorni) lo sanno anche i bambini.
Per quanto riguarda la prima: l'uscita da sinistra di cui parla Brancaccio (e che Bagnai proprio non capisce) significa avere la lungimiranza di rompere i tabù mainstream a cui anche voi siete evidentemente legati. Indicizzazione dei salari, controllo dei capitali, limitazioni alle importazioni ecc. sono per voi iatture che non possono neppure essere nominate? La vera differenza tra un'uscita "da destra" ed una "da sinistra" sta proprio qui