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Il modello giapponese, evitare con cura

08/05/2009

Stagnazione, crisi della domanda interna, denatalità, invecchiamento. Per l'Europa - e soprattutto per l'Italia - si profila un destino giapponese?

“…C’è soltanto una piccola probabilità di un boom delle esportazioni (del Giappone) verso altri pianeti…”
The Financial Times, 27 aprile 2009
“…Io non vedo nulla nella nostra situazione e nelle nostre risposte politiche (alla crisi) che mi persuada che ci vorrà meno di un decennio per uscire da questo guaio…”
W. Munchau

Premessa
Il Giappone ha registrato una crescita spettacolare della sua economia nei primi decenni che hanno seguito la seconda guerra mondiale, più o meno del tipo che ha poi ottenuto la Cina a partire dalla fine degli anni settanta; è seguito, nel periodo successivo, un rallentamento nei ritmi dello sviluppo. Poi, nei primissimi anni novanta, si è verificato all’improvviso un crollo della borsa – così, da un livello massimo di 40.000 punti registrato dall’indice Nikkei alla fine del 1989, ci si trova ancora oggi a viaggiare al di sotto dei 9000-, un forte sgonfiamento del mercato immobiliare, una crisi devastante del sistema bancario. Lo scoppio di queste bolle è stato il segnale dell’avvio di una sostanziale, lunga, stagnazione dell’economia, fenomeno che è durato sino al 2001.
Si è sviluppata, in particolare, in tale periodo una spirale perversa verso il basso tra il sistema finanziario e quello delle imprese; le banche, con lo scoppio della crisi, si erano ritrovate con un grande volume di crediti inesigibili, anche a ragione del fatto che esse avevano negli anni precedenti prestato risorse senza alcun freno al sistema economico; con lo scoppio della bolla esse sono state indotte a bloccare i nuovi prestiti, mentre le imprese venivano travolte dalla cattiva congiuntura e alimentavano così ulteriormente, a loro volta, le difficoltà delle banche.
A partire dal 2002 e sino, grosso modo, alla metà del 2008, è seguito un periodo di debole ripresa e si è poi registrata - è storia di oggi- , in parallelo alla crisi mondiale, una nuova caduta molto rilevante dell’economia.
I dati recenti sono molto eloquenti: nell’anno fiscale 2008-2009 il paese ha registrato –nessuno certo se lo aspettava- il primo deficit della bilancia commerciale con l’estero degli ultimi trenta anni ed un sostanziale collasso della produzione e degli investimenti; si valuta inoltre, sempre per l’anno fiscale appena trascorso, una riduzione del pil del 3,1%, nonostante il fatto che le banche del paese non abbiano dovuto farsi carico, nei loro bilanci, che di modiche quantità di attività tossiche.
Vengono così, nell’ultimo periodo, interamente annullati i guadagni che si erano conseguiti nel corso del nuovo millennio, anzi il valore del pil in termini nominali si è posizionato nel primo trimestre del 2009 allo stesso livello che esso aveva nel 1993. Così per sedici anni, commenta l’Economist (The Economist, 2009), l’economia non è andata da nessuna parte. Per quanto riguarda poi il 2009, il Fondo Monetario Internazionale stima una ulteriore probabile riduzione del pil del 6,2% (Wassener, 2009), mentre l’Ocse parla del 6,6%. Va, inoltre, ricordato che la previsione attuale riguardo all’incidenza del debito pubblico sempre sul pil viene fissata intorno al 224% per l’anno 2012 (Cook, Briscoe, 2009). Si tratta nella sostanza di cifre terrificanti.
Ad onor del vero, nelle ultime settimane si è manifestato qualche segnale più incoraggiante: la produzione industriale nel mese di marzo è cresciuta, sia pure di poco, dopo sei mesi di caduta e potrebbe ancora salire nei mesi di aprile e maggio. Qualche segnale di ripresa si manifesta anche nel campo delle esportazioni, ma le previsioni di quasi tutti gli osservatori sono comunque, al massimo, per una stagnazione di fondo dell’economia nel futuro anche di medio termine, in relazione in particolare alla debolezza della domanda interna, sia pure attraverso il passaggio attraverso fasi di alti e bassi. Il governo ha comunque varato molto di recente un piano di rilancio abbastanza sostenuto e pari come ammontare a circa il 3% del pil.
La riforma del sistema economico e sociale e le sue conseguenze
Ci si può chiedere quali sono state le ragioni di un andamento così deprimente del sistema economico a partire dal 1990, nonché della debole successiva ripresa – perché, in particolare, essa è stata sostanzialmente un’illusione? – e della attuale nuova caduta, più forte di quella delle altre economie industrializzate; ci si chiede soprattutto se il caso giapponese, di un’economia cioè sostanzialmente stagnante ormai da venti anni, può dirci qualcosa sul possibile andamento futuro dell’economia statunitense e soprattutto di quella europea ed italiana, come noi pensiamo. De te fabula narratur dunque?
Molti studiosi ed esperti – si veda ad esempio quanto scrive un commentatore autorevole come B. Emmott (Emmott, 2008) - hanno valutato che la ripresa dell’economia nei primi anni del nuovo millennio fosse interamente da attribuire alle “coraggiose” politiche di riforma economica e sociale sviluppate dall’allora primo ministro J. Kuizumi e in particolare a quelle del sistema finanziario e del mercato del lavoro, mentre invece i governi precedenti si erano mostrati del tutto incapaci di un’azione efficace, paralizzati come erano dalla particolare struttura di potere del paese.
Kuizumi, eletto nel 2001, ha voluto in effetti trasformare profondamente il Giappone introducendo delle riforme interamente di tipo neoliberista, avendo davanti agli occhi come modello in particolare il caso statunitense: “niente sviluppo senza riforme” era il suo motto preferito. Ora, il paese si poteva sino a quel momento considerare come retto, almeno in parte, da principi che normalmente possono venir associati a regimi di tipo sostanzialmente socialisti: si registravano, in effetti, delle basse disuguaglianze di reddito tra le varie classi e relativamente bassi squilibri nelle retribuzioni tra manager e operai all’interno delle imprese –niente a che fare con la situazione anglosassone-, un sistema di impiego a vita nelle fabbriche e negli uffici, degli alti salari –i più alti del mondo, insieme a quelli tedeschi. Così, ad esempio, Lech Walesa, che, molto incuriosito, aveva visitato più volte il paese nel corso degli anni ottanta, soleva dire che il Giappone rappresentava il solo esempio di successo del modello socialista che il mondo avesse mai conosciuto.
Nel 1990, i lavoratori a tempo parziale o con contratto di tipo temporaneo – nella gran parte dei casi si trattava di donne che dovevano dividersi tra fabbrica e famiglia- costituivano il 18,8% della forza lavoro. Ma i cambiamenti nella legislazione introdotti dal governo Kuizumi hanno aperto le porte ad una ristrutturazione selvaggia del mercato del lavoro: così, già nel 2005 la percentuale dei dipendenti a tempo parziale o con contratti temporanei era salita al 30% del totale, con tendenza alla ulteriore crescita, anche se molte grandi imprese avevano preferito non avvalersi delle nuove disposizioni, continuando invece a mantenere il sistema dell’impiego a vita (Emmott, 2008). Nel frattempo, le diseguaglianze di reddito sono aumentate fortemente e il livello medio dei salari si è avvicinato di più –come del resto in Germania con la riforma Schroeder – a quello degli altri paesi meno fortunati, almeno su questo piano.
Ma la convinzione che il miglioramento della situazione fosse da attribuire alle riforme liberiste di Kuizumi non regge molto ad un più attento esame dei fatti. In realtà, anche alla luce degli sviluppi recenti e della nuova caduta dell’economia del paese in una profonda recessione, appare evidente che la ripresa del 2001 è stata a suo tempo sostanzialmente dovuta, oltre che alla riduzione del valore dello yen, al boom dell’economia mondiale e in particolare, in tale quadro, alla forte domanda di prodotti giapponesi da parte degli Stati Uniti e della Cina. Mentre gli Stati Uniti assorbivano quantità enormi di beni di consumo, la Cina incrementava fortemente gli acquisti dal Giappone e dalla Germania di beni di investimento necessari per portare avanti i suoi processi di forsennata industrializzazione. Così, le esportazioni nette del paese hanno contribuito per circa il 50% alla crescita totale del pil tra il 2003 e il 2007 (The Economist, 2009). Come mostra P. Krugman (Krugman, 2009), se la riforma del sistema bancario, insieme a quella del mercato del lavoro, fosse stata centrale nella ripresa giapponese, questo si dovrebbe vedere dai dati. Ma in realtà, afferma l’autore, non c’è ad esempio alcuna traccia di una ripresa degli investimenti collegata al fatto che le imprese potevano ricorrere di nuovo al credito bancario. In realtà, gli stessi investimenti costituivano una percentuale più bassa del pil nel 2007 rispetto al 2000, mentre quello che è cambiato favorevolmente nel periodo è stato invece il saldo della bilancia commerciale. E’stata poi sempre la ripresa delle esportazioni che ha fatto decollare l’economia, rimpinguato i risultati economici delle imprese e migliorato quindi anche la situazione delle banche, rompendo il circuito perverso di cui abbiamo parlato sopra. Le recessioni indotte da una crisi finanziaria di solito finiscono, secondo l’esperienza empirica esistente e richiamata anche da Krugman (Krugman, 2009), con un boom delle esportazioni, cosa oggi praticamente impossibile. Anzi, è stato di nuovo lo sgonfiamento delle stesse esportazioni, indotto dalla crisi – in particolare di quelle verso gli Stati Uniti e verso la Cina- che ha fatto ancora una volta crollare l’economia del paese, nonostante, o forse anche a ragione di, tutte le riforme precedenti.
In effetti, anche la riforma del mercato del lavoro non è servita a molto, ma anzi essa ha agito di recente, probabilmente, in senso negativo; ci si ritrova oggi, in effetti, con un aumento nei livelli di disoccupazione, in particolare per quanto riguarda i lavoratori precari, comunque con dei dipendenti che godono in larga parte di redditi sostanzialmente decurtati, mentre sono spaventati dalla possibilità di licenziamento e sono, più in generale meno motivati di prima: tutto questo non contribuisce certo a spingere in alto i consumi interni, né la produttività del sistema. In effetti, gli stessi consumi languono e la gente, quando può, preferisce risparmiare per un futuro che si preannuncia come molto incerto.
Un altro aspetto della crisi giapponese, a parte i problemi del crollo delle esportazioni e dei perversi mutamenti del mercato del lavoro, appare quello demografico. A partire dal 2005 la popolazione del paese ha cominciato a ridursi; il tasso di natalità si colloca ormai al livello di 1,2 per ogni donna, mentre la durata media della vita è la più alta del mondo e mentre si prevede che nel 2025 il 30% della popolazione avrà almeno 65 anni; il numero dei bambini, che costituivano il 35% della popolazione nel 1950, rappresenta oggi il 13,5% del totale (Emmott, 2008).
Come sottolinea il Fondo Monetario Internazionale, nonostante i grandi costi della crisi per le casse degli stati, la più grande minaccia all’equilibrio dei conti pubblici è rappresentata per il futuro, almeno nei paesi sviluppati, dagli andamenti demografici sfavorevoli che comportano, tra l’altro, maggiori esborsi per il sistema pensionistico e per quello sanitario.
Al massimo tra venti anni la popolazione europea sarà in media così vecchia come quella giapponese oggi e quella italiana lo sarà anche prima. Comunque, la recente esplosione del debito pubblico nel mondo sviluppato, in seguito alla crisi, esacerba dovunque l’impatto di un processo di invecchiamento che si presentava già prima come molto costoso per i bilanci pubblici.
Conclusioni
Così, alla fine, le difficoltà del Giappone negli ultimi venti anni sembrano indotte da una stagnazione senza possibile via d’uscita, dal momento che la crisi della domanda interna non può essere superata per via della mancanza di qualsiasi stimolo che vada in controtendenza, in presenza anche, tra l’altro, di una riduzione nel numero degli abitanti e di un loro marcato invecchiamento medio, fenomeno che aumenta i costi a carico del bilancio pubblico, mentre la via delle esportazioni sembra in gran parte ormai preclusa.
Questo modello purtroppo rappresenta probabilmente il futuro prossimo dell’Europa e in particolare dell’Italia, paese che mostra già da tempo diversi sintomi della malattia e che appare più avanti sulla strada giapponese rispetto a tutti gli altri paesi del nostro vecchio continente. Si pensi, in effetti, tra l’altro, all’alto livello del nostro debito pubblico, il secondo come ampiezza nel mondo sviluppato, all’invecchiamento demografico, che potrebbe essere ora aggravato dalle politiche razziste del nostro governo per quanto riguarda l’immigrazione, alla stagnazione dell’economia che ci contraddistingue da molti anni, già quindi prima della crisi, anche nell’ambito di un continente in perdita di velocità rispetto al resto del mondo. Si deve purtroppo temere “una bonaccia in cui tutti i nostri mali diventerebbero cronici” (Rampini, 2009). Cosa potrebbe in effetti spezzare nel nostro caso queste tendenze negative?
Più in generale, il mondo non sembra riuscire a trovare una strada per la crescita dell’economia senza i grandi deficit commerciali degli Stati Uniti e i paralleli surplus di Cina, Germania e paesi petroliferi (Giles, 2009).
Testi citati nell’articolo
- Cook C., Briscoe S., The red ink of a greyer future, The Financial Times, 2 aprile 2009
- Emmott B., Rivals. How the power struggle between China, India, Japan will shape our next decade, Penguin Books, Londra, 2008
- Giles C., Hard times call for hard measures, The Financial Times, 2 aprile 2009
- Krugman P., Japan’s recovery, again, www.nyt.com, 27 aprile 2009
- Munchau W., Europe must learn from Japan’s experience, The Financial Times, 4 maggio 2009
- Rampini F., Se ci attende un futuro giapponese, www.repubblica.it, 27 aprile 2009
- The Economist, The incredible shrinking economy, 2 aprile 2008
- The Financial Times, Japan’s real lesson, 27 aprile 2009
- Wassener B., Japan predicts 3,3% contraction, The New York Times, 28 aprile 2009

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Commenti

Il mito della crescita

Ho letto l'articolo, ma, al solito, si continua a perseguire il mito della crescita continua.
Mi chiedo: come è possibile che gli economisti non si accorgano della legge basilare della natura, vale a dire che ogni crescita deve avere un termine?
Le risorse sul pianeta sono finite, sia quelle alimentari, sia le materie prime, lo spazio, l'acqua ecc.; per contro abbiamo le conseguenze cataboliche del consumismo: inquinamento, cambiamenti climatici.
La denatalità sta a rappresentare proprio la reazione naturale ed inconscia della popolazione (che riguarda anche un meccanismo biologico e psicologico verso la sterilità).
Il capitalismo ha funzionato fintanto che il mondo era ricco di materie prima e relativamente poco popolato.
La crescita oggi non è più possibile, lo sviluppo della Cina, India e paesi sottosviluppati è una ulteriore accelerazione verso la fine delle risorse. Le crisi si succederanno sempre più velocemente e disastrosamente.
Occorre una nuova econoimia, basata sulla denatalità e sulla riduzione dei consumi, sul risparmio e sulla conservazione, altrimenti ci troveremo presto in guerra, in tante guerre e rivoluzioni che scoppieranno in varie parti del mondo.
Il meccanismo che la natura adotta, infatti, è quello di una diffusa mortalità nella specie che ha ecceduto nella riproduzione, in mancanza di risorse e territorio, anch'esso risorsa importantissima (il che spiega i fenomeni di "razzismo" nei paesi sovrappopolati).
No, non scaricherò gli articoli del libro, perchè suonano la stessa musica di questo articolo, cui sto rispondendo.
Al momento, buio completo per gli economisti.