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Sindrome cinese per il piano Obama

03/02/2009

Il buy american, le accuse allo yuan. Gli Usa stanno per dichiarare la guerra economica al mondo? E bloccare il made in China servirebbe davvero?

“…la politica statunitense di aumento di diverse volte del deficit e del debito pubblico non sarà certo aiutata dallo buttare contemporaneamente della sabbia negli occhi delle persone che devono comprare la gran parte di tale debito…” (Charles Dumas, Lombard Steet Research co.)

“… se noi compriamo americano, nessun altro lo farà…” (Douglas A. Irwin, The New York Times, 1 febbraio 2009)

Le prime decisioni prese dalla nuova amministrazione statunitense sono state salutate, ci sembra correttamente, con molto favore, anzi qua e là con entusiasmo, in giro per il mondo. Ma si profila già qualche ombra in un certo senso anche molto inquietante.

Così, il nuovo ministro del tesoro, Tim Geithner, affermava, in un documento presentato al Congresso durante le udienze che dovevano confermare la sua nomina, che la moneta cinese era “manipolata”; inoltre egli dichiarava che Obama aveva promesso di usare in maniera aggressiva tutte le vie diplomatiche disponibili per cercare di cambiare le attuali pratiche cinesi in materia. Qualche giorno dopo, 53 deputati del Congresso hanno firmato una lettera per chiedere al governo federale che ogni sussidio pubblico sia “condizionato alla creazione di posti di lavoro americani in America, non di posti di lavoro cinesi in Cina”; alla fine del mese di gennaio la camera dei rappresentanti ha inserito nel piano Obama in discussione alcune clausole “buy american” per il settore siderurgico e per quello tessile; il Senato, che di solito non è da meno, si apprestava a fare anche di più, estendendo la clausola a tutti gli acquisti pubblici collegati al piano. Peraltro il presidente, il 3 febbraio, ha criticato tali decisioni.

Le prime reazioni cinesi

La risposta cinese è venuta a cominciare da due giorni dopo le dichiarazioni di Geithner ed essa appare piuttosto articolata; da una parte qualche articolo sui giornali, dall’altra delle dichiarazioni più ufficiali il cui tono appare abbastanza energico.

Nel dettaglio, su China Daily del 24 gennaio si mette in rilievo come le dichiarazioni di Geithner segnino un rilevante mutamento di atteggiamento rispetto a quello della precedente amministrazione americana; i commentatori del giornale ricordano che per combattere l’attuale crisi è necessario uno sforzo comune e che le questioni si possono anche affrontare, ma in modo tale che si faccia più bene che male all’economia.

Il vice-governatore della banca di Cina, dal canto suo, afferma che l’accusa si basa su di una falsa analisi delle cause della crisi. Intanto il ministro degli affari esteri dichiara, in un colloquio telefonico con H. Clinton, che ognuna delle due parti deve prendere in considerazione gli interessi fondamentali dell’altra e gestire in maniera appropriata le divergenze e le questioni delicate.

Nei giorni successivi lo stesso primo ministro Wen Jaobao, durante il suo viaggio in Europa, ha ribadito le stesse posizioni dei responsabili cinesi.

La questione della moneta

Conviene chiedersi a questo punto se una rivalutazione sostenuta dello yuan potrebbe veramente contribuire ad un netto miglioramento della bilancia commerciale statunitense; inoltre, se e di quanto sia effettivamente sottovalutata la moneta cinese.

Per quanto riguarda il primo punto, si può affermare che anche un rilevante apprezzamento dello yuan non porterebbe necessariamente agli effetti desiderati.

Il livello delle esportazioni ed importazioni di un paese dipende da una serie di variabili e di decisioni molto complesse, in cui, tra l’altro, hanno un peso molto importante le strategie delle imprese multinazionali, che, nel caso dei rapporti tra Cina e Stati Uniti, sono molto importanti. Esse infatti contribuiscono ad una parte rilevante delle importazioni ed esportazioni del paese asiatico.

In generale e almeno entro certi limiti, l’esperienza dimostra che una variazione dei tassi di cambio non si riflette automaticamente nei prezzi dei prodotti, perché le imprese hanno, tra l’altro, la tendenza a fissarli in relazione a quelli dei loro concorrenti, piuttosto che in relazione, o soltanto in relazione, alla variazioni dei tassi di cambio.

Inoltre, bisogna sottolineare che la gran parte delle tipologie delle merci esportate dalla Cina verso gli Stati Uniti non è prodotta in maniera quantitativamente significativa in quest’ultimo paese; se gli Usa non comprassero più tali prodotti da Pechino, sarebbero comunque obbligati ad acquistarli da qualche altra parte e per la gran parte presumibilmente sempre in Asia. In effetti, i movimenti nel valore delle monete spostano semplicemente la domanda di beni all’importazione da un paese all’altro. Comunque, la Cina pesa soltanto per una frazione minoritaria del commercio totale americano con il resto del mondo e il deficit commerciale con la Cina è solo una frazione, anche se importante, del deficit complessivo degli Stati Uniti.

La causa più importante di tale disavanzo appare di origine interna; esso è legato, in particolare, al fatto che gli americani consumavano troppo e risparmiavano troppo poco, almeno sino allo scoppio della crisi. Il deficit complessivo della bilancia commerciale statunitense appare così vasto da indicare che esso è motivato soprattutto da problemi strutturali del paese. Visto da un altro punto di vista, esso appare “endemico” in un sistema finanziario internazionale centrato sul dollaro; tale deficit persiste ormai, sia pure con rilevanti oscillazioni, sin dagli anni cinquanta. Il resto del mondo può continuare ad approvvigionarsi di dollari, moneta di riserva, solo a fronte di un deficit rilevante della bilancia dei pagamenti statunitensi.

I cinesi potrebbero, del resto, in caso di fissazione di dazi all’importazione da parte degli Stati Uniti, trasferire una parte delle loro merci in altri stati amici e da lì farle proseguire con una falsa etichetta verso gli Stati Uniti, o spostare anche una parte delle lavorazioni in altri paesi, magari a più basso costo del lavoro. Inoltre, esso spingerebbe ancora di più le imprese cinesi verso la produzione di merci a crescente valore aggiunto, aumentando potenzialmente i problemi.

Va anche considerato il fatto che il basso livello dei prezzi dei prodotti cinesi dipende solo in parte, e forse per una quota non considerevole, dal supposto squilibrio dei cambi tra le monete; esso è legato, in molto maggior misura ed in maniera crescente, alla competitività generale del paese, ai vantaggi di costo, alle economie di scala, ai grandi investimenti in infrastrutture, in innovazione, al dispiegarsi di una concorrenza fortissima tra i produttori locali in molti settori.

La già effettuata e importante rivalutazione della moneta rispetto al dollaro – ad oggi il livello di cambio dello yuan è in effetti salito di circa il 20% dopo lo sganciamento della moneta dal rapporto con il dollaro nel luglio del 2005 – ha avuto un impatto complessivamente ridotto sulle esportazioni complessive del paese, anche se esso è stato rilevante in alcuni settori, quali quello del tessile-abbigliamento, dei giocattoli, dei mobili, dei motocicli e bicicli. Questo anche perché, almeno per una parte molto importante di esse, si tratta in realtà di prodotti di cui la Cina è soltanto il punto di montaggio finale in Asia. Il cosiddetto processing trade con gli Stati Uniti rappresenta più della metà dell’ interscambio totale tra i due paesi e circa i tre quarti del surplus della bilancia commerciale.

Un aumento importante del valore dello yuan potrebbe danneggiare per molti versi l’economia statunitense: ci perderebbero i consumatori, che vedrebbero crescere i prezzi di molti prodotti; ma anche le multinazionali statunitensi ne potrebbero soffrire, sia perché una parte consistente delle esportazioni cinesi proviene da filiali locali delle multinazionali, sia perché l’eventuale innalzamento delle barriere commerciali Usa contro i prodotti del paese asiatico potrebbe portare a delle rappresaglie contro le imprese statunitensi presenti in Cina.

Va poi sottolineato come il paese, con gli attuali livello di cambio, mentre presenta un surplus rilevante con gli Stati Uniti e con l’Europa, registra invece importanti deficit di interscambio con i principali paesi asiatici.

Per altro verso, si può pensare che la principale ragione per cui la Cina ha, a suo tempo, legato strettamente lo yuan al dollaro stia nella ricerca della stabilità finanziaria piuttosto che nel perseguimento di politiche mercantilistiche.

Certamente la teoria economica suggerisce che i paesi con un rilevante surplus delle partite correnti hanno una moneta sottovalutata. Ma nella stessa situazione si trovano oggi anche altri paesi, quali la Germania e il Giappone. Il fatto che i riflettori siano puntati soltanto sulla Cina mostra che si usano due pesi e due misure.

Va anche ricordato che dal mese di agosto del 2008 la moneta cinese ha smesso di apprezzarsi lentamente ma costantemente nei confronti del dollaro per il fatto che quest’ultimo si è rafforzato in maniera significativa e lo yuan ha fatto fatica a stargli dietro; invece il renminbi si è apprezzato nei confronti dell’euro, del dollaro canadese e di quello australiano, nonché della moneta coreana. Complessivamente, così, come media ponderata, la valuta cinese si è rivalutata nel periodo del 10% nei confronti del resto del mondo (International Herald Tribune, 28 gennaio 2009). Il fatto che lo yuan cerchi di muoversi con il dollaro appare in relazione al fatto che la gran parte del suo commercio con l’estero è denominato in dollari e che la gran parte delle sue riserve valutarie sono di nuovo in dollari.

Alla fine, si può comunque pensare che la questione sia più politica che economica e che nessuna soluzione relativa a quale dovrebbe essere il “corretto” rapporto di cambio tra lo yuan e il dollaro possa arrivare a ottenere il consenso convinto di tutti gli economisti o di una rilevante maggioranza di essi. Gli Stati Uniti sembrano in realtà utilizzare la questione della moneta come un’arma per cercare di indebolire l’economia cinese e contemporaneamente anche per allontanare l’attenzione dalla loro discutibile politica fiscale e militare, che è all’origine del deficit del loro budget interno; essi cercano, come al solito, tanto più di fronte alla drammaticità della crisi, di scaricare gli squilibri che ne risultano sul resto del mondo. Ma questa volta il gioco appare molto difficile. La Cina, ad esempio, non è, da questo punto di vista, docile come in passato è stato il Giappone, che accettò, ad un certo punto, su pressioni americane, di rivalutare fortemente la sua moneta, contribuendo a mandare in crisi la propria economia per almeno una decina di anni.

Un commento finale

Con le prime mosse della nuova amministrazione e del parlamento sembra in effetti già conquistare la scena una minaccia che avevamo paventato in un precedente articolo apparso pochissime settimane fa su questo stesso sito, quello del protezionismo. Tutti sanno che il protezionismo e la politica di scaricare i problemi sui vicini hanno contribuito ad aggravare la crisi del ‘29. Quando gli Stati Uniti imposero nel 1930 la tariffa Smoot-Hawley, spinsero il resto del mondo a fare altrettanto e la crisi prese una piega molto più drammatica. Da questo punto di vista le attuali mosse statunitensi appaiono potenzialmente devastanti. “ Non ci sono dubbi sul fatto che se le previsioni del “buy american” inserite nel pacchetto di stimoli economici diventassero legge, questo equivarrebbe ad una dichiarazione di guerra economica al resto del mondo” (W. Butler, Financial Times, 1 febbraio 2009), non solo alla Cina. Ne seguirebbe probabilmente la catastrofe.

Il problema della Cina in questo momento non è quello del cambio, ma quello di avviare rapidamente ed in maniera efficace delle politiche volte allo stimolo del mercato interno e dei consumi delle famiglie (M. Wolf, The Financial Times, 30 gennaio 2009). Se i consumi interni cresceranno in misura rilevante rispetto al pil- obiettivo che può essere però raggiunto solo nell’arco di diversi anni-, il problema del surplus delle partite correnti si ridimensionerà in maniera sostanziale, ciò che darebbe fortemente desiderabile per il paese, per gli Stati Uniti e per il mondo.

In sostanza e guardando in un altro modo, una dimensione fondamentale della crisi in atto riguarda il sistema di relazioni tra paesi in deficit commerciale e finanziario, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna e paesi in surplus sui due fronti, quali la Cina, il Giappone, i paesi petroliferi, la Germania. Solo un accordo generale ed ordinato per ristabilire a livello mondiale condizioni di equilibrio su tali questioni, che eviti di concentrare l’attenzione sul tema dei cambi e senza partire da minacce ed ultimatum, con un compromesso che tenga peraltro anche conto delle esigenze dei paesi più poveri, può contribuire a far ripartire l’economia del mondo, in primis quella statunitense. Atteggiamenti aggressivi ed irresponsabili, quali quelli lasciati intravedere dalla nuova amministrazione e dal nuovo parlamento, minacciano di far precipitare la situazione. La questione è tanto più preoccupante in quanto anche il piano Obama da 825 miliardi di dollari, che dovrebbe servire a tamponare, se non ad arrestare, la crisi, appare sostanzialmente privo di ogni riferimento alla dimensione internazionale dei problemi in atto e mostra ancora una volta un’ America chiusa nel suo autismo, nonostante le dichiarazioni pubbliche contrarie. A suo tempo Roosevelt, per avviare i programmi di rilancio del paese, doveva convincere solo l’opinione pubblica domestica, mentre Obama deve oggi persuadere i mercati finanziari del mondo intero e i governi di almeno cinque o sei altri stati che devono decidere se e a quali condizioni finanziare i suoi piani. Ovviamente evitiamo di affrontare la questione delle possibili ritorsioni cinesi e di quello che potrebbe succedere dopo. In questo momento “un aumento delle tensioni cino-statunitensi è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno” (The Economist, 24 gennaio 2009). Siamo convinti che ne usciremmo molto danneggiati tutti, ma quasi certamente gli statunitensi più dei cinesi. Speriamo proprio che Obama, dopo le critiche alle decisioni del Senato e della Camera dei Rappresentanti, alla fine metta il veto alle clausole protezionistiche. Una sua recente conversazione telefonica con il presidente cinese offre qualche speranza.

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