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Perché i liberisti non fanno autocritica

27/01/2010

Sono quasi 400 pagine fitte, ma si divorano: How Markets Fail. The Logic of Economic Calamities (New York, Farrar, Straus and Giroux) è il più bel libro giornalistico che abbia letto sul collasso del sistema finanziario americano e sul suo affannoso salvataggio, sulle persone che ne portano la responsabilità, sugli interessi che le spingevano, e soprattutto sulle concezioni dell' economia e della società che esse condividevano. Tra queste persone c' erano dei malandrini, ma il grosso era composto da persone per bene, che al mattino si facevano la barba - tutti uomini, naturalmente - senza provare disgusto per la faccia che vedevano nello specchio: le idee di cui erano convinti facevano coincidere il loro interesse con il bene comune. Giornalisti economici come Cassidy sono rari anche in America: non giornalisti che sanno un po' di economia, ma economisti fatti e finiti che hanno scelto una carriera giornalistica per mettere a frutto le loro straordinarie doti narrative, la loro curiosità e la loro passione critica: leggere per credere. E lascio allora il libro alla lettura di chi ne sia interessato - ci ritornerò alla fine - per ragionare su un lavoro minore, un saggio che Cassidy ha scritto sull' ultimo numero del «New Yorker»: una «lettera da Chicago» in cui descrive le reazioni alla crisi da parte degli economisti ultra-liberali che popolano la famosa «scuola» che fu di George Stigler e Milton Friedman. Seguendo una pista già tracciata nel libro, Cassidy si prende alcuni giorni per intervistare alcuni tra i principali economisti di Chicago: John Cochrane, Eugene Fama, Gary Becker, James Heckman, Richard Thaler, Raghuram Rajan. L' artefice della rivoluzione teorica anti-keynesiana, Robert Lucas, è nel suo ufficio, ma rifiuta di farsi intervistare. Il pretesto per le interviste è naturalmente l' «apostasia» di Richard Posner, il celebre fondatore di un indirizzo scientifico - Law and Economics - che, trasmettendo le conclusioni ultra-liberali degli economisti al mondo del diritto e dell' interpretazione giudiziale, ha avuto enormi conseguenze pratiche. Apostasia? Se non bastava a qualificarlo come apostata il suo recente libro (A Failure of Capitalism), il lungo articolo da lui scritto per «New Republic» toglie ogni dubbio: Keynes aveva ragione e Chicago ha torto. Una tesi che ripete ed espande nell' intervista con Cassidy: Keynes capisce come funziona di fatto l' economia «anche se non mette tutti i puntini sulle i e tutti i trattini alle t». Gli economisti moderni, e quelli di Chicago in particolare, mettono i puntini e i trattini, ma il funzionamento di un' economia capitalistica non lo capiscono: sono troppo innamorati dei loro modelli formali e troppo creduli nel potere di autoregolazione dei mercati. L' ipotesi di mercati efficienti - secondo la quale i prezzi delle azioni e degli altri strumenti finanziari riflettono tutta l' informazione disponibile per poterli stabilire in modo razionale e accurato - nonché l' ipotesi delle aspettative razionali - secondo la quale tutti gli agenti sul mercato sono decisori iper-intelligenti e informati, che agiscono sulla base di un modello corretto e condiviso su come l' economia funziona - si sono dimostrate ipotesi fallaci. Ed essendo ampiamente condivise - è da metà degli anni 1970 che Chicago ha vinto sul mercato delle teorie economiche e, più ampiamente, su quello delle ideologie generali - esse hanno creato disastri. Si tratta solo del cedimento di un non-economista (Posner è un giurista) alle prime avversità? Questo è il giudizio di alcuni degli economisti intervistati, che si dispongono lungo la gamma dei falchi e delle colombe - degli irriducibili e di chi è disposto a rivedere le proprie convinzioni - che ci si poteva attendere. Irriducibili: avevamo e abbiamo pienamente ragione, i nostri modelli rappresentano correttamente il funzionamento dell' economia, sono altri, e soprattutto i politici, quelli che hanno sbagliato. Disposti a discutere: effettivamente c' è qualcosa nei nostri modelli che non funziona e dobbiamo riflettere seriamente. Senza buttare il bambino del mercato con l' acqua sporca del supercapitalismo, dobbiamo riconoscere che il sistema finanziario fornisce un bene pubblico e non può essere lasciato libero di operare, con controlli difettosi e manovrati da élite politiche e finanziarie inquinate da conflitti di interesse, alla ricerca del «massimo valore per gli azionisti». Non solo, alcuni di loro si spingono ad analisi largamente condivise a sinistra: che all' origine della crisi ci sono salari stagnanti, una colossale redistribuzione del reddito a favore dei ricchi, la scomparsa del risparmio delle famiglie, l' offerta di credito a costi stracciati e senza garanzie a famiglie impoverite. Chi siano i falchi e le colombe, gli irriducibili e chi si mette in discussione, conoscendo gli economisti intervistati non era difficile immaginarlo. Eugene Fama, il grande vecchio dell' economia finanziaria, il principale sostenitore della teoria dei mercati efficienti, non poteva che collocarsi tra gli irriducibili. La teoria resiste benissimo alla crisi: «I mercati finanziari sono stati una vittima della crisi, non la causa». Ma allora, qual è stata la causa? La causa, per Fama, sta nell' economia reale, che aveva cominciato a rallentare il suo ritmo prima del collasso del mercato ipotecario. Col rallentamento nella crescita dell' occupazione e dei redditi, molti debitori non sono stati in grado di pagare i ratei dei loro mutui, e le istituzioni finanziarie che avevano investito in questo segmento di mercato si sono trovate in difficoltà. Difficoltà cui hanno reagito riducendo il credito ad altri clienti. Così si è scatenata la reazione a catena, il credit crunch: insomma «non si è trattato di una crisi del credito, ma di una crisi economica». Ma che cosa ha scatenato questa crisi economica? Insiste Cassidy. E chi lo sa? Risponde Fama: ci sono sempre state crisi e recessioni, e ancora stiamo litigando sulle cause della più grave, la grande depressione degli anni Trenta. E poi io sono un esperto di finanza, non un macroeconomista, «and I don' t feel badly about that». Un bell' esempio di scaricabarile, che ovviamente le colombe (...tutto è relativo: sono pur sempre degli economisti liberisti duri e puri) non seguono: costoro «feel badly», soffrono per il fatto che la professione economica, e in particolare la corrente liberista, sembra uscir male dalla crisi. Era da tempo che Rajan, con i suoi colleghi Diamond e Kashyap (e il nostro Zingales), avvertiva che qualcosa non andava nel settore finanziario dell' economia americana. Insieme sostenevano che banche e istituzioni finanziarie sono più importanti e delicate che le imprese operanti nei settori delle merci e dei servizi non finanziari: per queste la deregolazione, la ricerca di valore per gli azionisti, possono funzionare; per quelle possono provocare disastri. Anche perché non di pura deregolazione si tratta, ma di regolazione affidata alle stesse banche private e a politici conniventi, in un contesto di macroscopico conflitto di interessi. Rajan sta lavorando a un libro che si intitolerà Fault Lines, «linee di rottura», in cui esplora l' intero contesto macroeconomico che ha condotto alla crisi, inclusa l' influenza del ristagno salariale e della polarizzazione dei redditi di cui dicevamo più sopra. Sarà interessante vedere quanto del vecchio spirito iper-liberista di Chicago sopravvive alla revisione che Rajan promette. Devo lasciare al lettore del «New Yorker» le altre interviste e affrettarmi a concludere. A concludere su un tema importante, cui lo stesso Cassidy accenna senza svilupparlo. È il grande tema di filosofia e sociologia della scienza associato al nome di Thomas Kuhn: come avvengono le rivoluzioni scientifiche? Quando e come viene scartata una grande teoria, un «paradigma», e ne viene abbracciata un' altra? Persino nelle scienze della natura, cui Kuhn limita la sua analisi, la cosa non è così facile come si potrebbe immaginare: in queste scienze i fatti sono duri, le misurazioni precise, la realtà osservata non cambia, e dunque, quando si crea un contrasto irrimediabile tra fatti e modello di spiegazione, il paradigma dovrebbe essere scartato e presto o tardi emergerne un altro. Già, ma è il contrasto veramente irrimediabile? Quand' è che si deve scartare il paradigma vecchio e quando invece sono sufficienti modificazioni e adattamenti ad hoc? Queste non sono domande cui è facile rispondere e la comunità scientifica si divide: molti, soprattutto i più vecchi, che hanno investito risorse intellettuali ingenti sul paradigma vigente, non possono o vogliono cambiare, cercano scuse e rappezzi, e lo stato di conflitto e incertezza può durare a lungo. Ci si può immaginare la situazione nelle scienze sociali cui l' economia appartiene (l' uso della matematica non fa di una scienza debole una scienza forte). In queste i fatti sono molli, le misurazioni imprecise, la «realtà» varia nel tempo e nei luoghi in cui è osservata: in queste scienze deboli le grandi teorie, i paradigmi, sono costruzioni ambigue, a metà tra un modello scientifico e una costruzione ideologica; i rappezzi, le giustificazioni, le scuse sono molto più facili e l' ingenua epistemologia positivistica sostenuta tanti anni fa da uno dei numi tutelari di Chicago, Milton Friedman - un semplice confronto tra le previsioni del modello e i «fatti» - è rifiutata da tutti gli epistemologi moderni. Una crisi, anche così grave come quella che stiamo attraversando, non sconfessa da sola le teorie dei mercati perfetti e delle aspettative razionali. E allora? Allora solo una forte pressione dell' opinione pubblica sulla comunità scientifica e, insieme, la presenza di un' alternativa teorica allettante possono indurre all' abbandono, o a una modifica radicale, del vecchio paradigma. Nessuna delle due è per ora in vista. L' alternativa teorica non è in vista, perché il vecchio paradigma ha investito molto sulla parsimonia, sull' eleganza e sulla formalizzazione dei propri modelli, virtù assai apprezzate dagli economisti, ma che esigono ipotesi di comportamento degli agenti economici molto semplici e contrastanti con quanto sappiamo dei loro effettivi processi di decisione. Qualsiasi nuovo paradigma, più realistico, sarebbe probabilmente più «sporco», più locale, più storico, e mal si presterebbe alle generalizzazioni che gran parte degli economisti neoclassici prediligono, non solo quelli di Chicago. E una forte pressione dell' opinione pubblica sulla comunità scientifica non è in vista se gli Stati Uniti - epicentro sia della crisi che del paradigma dominante - si rimettono in sesto e tornano a crescere, seppur moderatamente. Per quanto ritenga che il paradigma dominante, specie nella versione di Chicago, offra un' immagine inadeguata (...è un eufemismo) della dinamica dell' economia capitalistica, non mi spingo certo ad auspicare un peggioramento della crisi al fine di affrettarne la sostituzione con un paradigma più adeguato. Un messaggio finale? Non mi resta che tornare al libro e tradurre liberamente l' intero paragrafo con il quale Cassidy lo conclude. «Come il ricordo del settembre 2008 si allontana, il revisionismo e la miopia nei confronti dei potenziali disastri saranno atteggiamenti sempre più diffusi. Molti diranno che la Grande Stretta (the Great Crunch) non è stata dopotutto così dura e sottovaluteranno il ruolo dell' intervento dei governi, quello che invece ha impedito disastri assai peggiori. Riprenderanno vigore gli incentivi che spingono le banche ad assumere rischi eccessivi e il loro potere di influenzare la politica tornerà a crescere. Se questi interessi settoriali avranno successo nel bloccare un serio intervento di riforma, potremmo benissimo finire nel peggiore dei mondi possibili: un sistema finanziario dominato da un pugno di banche "troppo grandi per fallire", ma che possono assumere i rischi più estremi sapendo perfettamente che, se le cose vanno male, ci sarà il governo a salvarle con i soldi dei contribuenti. Si tratterebbe allora di un capitalismo di relazione (crony capitalism, capitalismo degli amichetti) alla grande, che si farebbe beffa degli ideali democratici che entrambi i grandi partiti affermano di sostenere. Prima che la volontà politica che sostiene le riforme si dilegui, è essenziale mettere Wall Street al suo posto, un posto importante ma circoscritto, e opporre alla teoria economica oggi dominante una teoria che tenga conto della realtà, di come i mercati effettivamente funzionano. Spero che questo libro possa avere un piccolo ruolo in questo grande compito».

Tratto da www.corriere.it