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Lo spettro del debito si aggira per gli stati

01/06/2010

L'austerità porta recessione. Ma con debiti eccessivi i governi si consegnano alla finanza. Tocca alla politica scegliere come e quando ridurre il deficit

“…la possibilità per uno stato di contrarre dei prestiti è un bene, un bene incontestabile…”

(P. Leroy-Beaulieu, professore al College de France, 1877)

“…gli stati sono i principali clienti, molto assidui, di questo immenso lupanare…; sono gli abominevoli mercati che, da una ventina d’anni, pagano i salari dei professori e delle infermiere…” (P.-A. Delhommais)

“…(il mercato finanziario) esige sempre di più dai governi, lasciando loro ormai come possibilità soltanto quella di uccidere la loro economia o di mancare gli obiettivi prefissati…” (P. Artus)

“…l’obiettivo comune è tagliare la spesa pubblica…” (S. Berlusconi)

“…deve essere ristabilito il primato della politica sui mercati…” (Angela Merkel)

E’ certamente dalla destra politica, nonché da Wall Street e dalla City, che vengono solitamente gli attacchi ai deficit pubblici degli stati, ritenuti sempre eccessivi, anche se abbiamo assistito relativamente di recente al fenomeno di un governo democratico statunitense che mette il bilancio in equilibrio e a quello invece dei precedenti e successivi governi repubblicani che lo squilibrano.

Ora i conservatori sono all’attacco. La stampa, i manager di Wall Street, i politici neo-liberisti annunciano che è il governo il vero “sub-prime”, che lo stato è un gigantesco “schema Ponzi-Madoff” e così via.

Escono degli studi, nei quali appare a volte difficile distinguere la verità dalle possibilità e dalle ipotesi, che mostrano come la tendenza dei deficit pubblici dei vari stati, nei prossimi decenni, in mancanza di interventi correttivi, sia quella ad una loro crescita incontrollata.

Guida la carica l’autorevole storico inglese Niall Ferguson, con vari articoli comparsi di recente sulla stampa anglosassone, che seminano in particolare un allarme elevato sul deficit pubblico statunitense e sulla tenuta dell’euro; sono inoltre stati pubblicati di recente almeno due scritti di tipo scientifico in tema di deficit pubblici, il primo un volume di Reinardt e Rogoff, il secondo un breve saggio di Cecchetti, Mohanty, Zampolli, ambedue molto documentati, che hanno avuto una vasta risonanza e che comunque hanno contribuito a seminare il panico in giro. Nel frattempo gli zelanti burocrati di Bruxelles suonano da tempo l’allarme sui deficit eccessivi e moltiplicano le ingiunzioni ai vari stati perché tengano a bada i loro bilanci; si uniscono con forza al coro anche l’Ocse - che, tra l’altro, da quando esiste non ha quasi mai azzeccato una previsione – e il Fondo Monetario Internazionale.

In Gran Bretagna il nuovo governo vuole tagliare da subito la spesa pubblica, mentre negli Stati Uniti c’è da tempo un sordo agitarsi dei repubblicani per ridurre un deficit giudicato come eccessivo; peraltro, essi non dicono dove si dovrebbe tagliare –per la verità non lo sanno, perché la grande parte delle spese vanno in direzione di programmi che sono molto popolari nel paese, come osservato tempo fa da P. Krugman-, ma l’importante è seminare l’allarme; la loro pressione ha, tra l’altro, spinto Obama a insediare una commissione per i tagli alla spesa che dovrebbe rendere il suo verdetto in merito entro la fine dell’anno.

La crisi greca ha ora spinto in direzione dell’intervento sui bilanci pubblici e parallelamente della flessibilità salariale in diversi paesi del nostro continente. Ma la crisi europea non è tanto o solo fiscale e non vi si può rimediare semplicemente riducendo direttamente i deficit pubblici. Il principale problema europeo resta, non solo a nostro parere, quello della scarsa crescita; senza sviluppo i conti pubblici non si risanano. Si può cercare sino ad un certo punto di fare dei nuovi debiti per ripagare quelli vecchi, ma nel lungo termine solo le risorse generate dall’economia reale possono permettere di governare il problema.

Tagliare i deficit pubblici senza che l’economia sia veramente ripartita e peraltro senza neanche un sistema bancario in grado di sostenere adeguatamente le imprese, appare una strada quasi sicura verso la stagnazione o anche la recessione.

Si potrebbe dire che le banche non amano i deficit budgetari anche perché essi sono una via allo sviluppo economico che è alternativa a quella dei finanziamenti bancari (Galbraith, 2010); inoltre, di questi tempi, sviluppare l’isteria anti-deficit può distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dalla possibile ristrutturazione di un sistema bancario che non funziona, ridotto ad essere “un cartello gestito da una plutocrazia incompetente” (Galbraith, 2010). Per Wall Street agitare lo spettro dei deficit pubblici serve perfettamente, tra l’altro, ad aumentare la volatilità dei mercati, ciò che permette di ottenere facili guadagni speculativi. Inoltre, su di un altro fronte, contenere l’indebitamento pubblico significa contenere il ruolo dello stato (Bagnai, 2010), ciò che può rappresentare per molti un risultato politico allettante.

In realtà, può essere certamente naturale che i deficit pubblici aumentino da un anno all’altro, almeno entro certi limiti. In ogni caso c’è deficit e deficit, c’è un tipo di deficit buono e un tipo cattivo. Molto dipende da quello che ci si fa con i soldi presi a prestito: ci sono debiti fatti per spingere in avanti i processi di sviluppo, basati ad esempio su adeguate politiche di spinta all’innovazione e all’educazione e debiti fatti invece per alimentare le clientele, favorire i ceti privilegiati, pagare altri debiti.

Più in generale, le variabili da cui dipende la sostenibilità del deficit pubblico in un certo paese sono molte: la fiducia che ispira lo stesso paese, l’andamento del tasso di sviluppo generale dell’economia, quello dei tassi di interesse e la dinamica del risparmio interno, le tendenze demografiche, il livello del surplus primario di bilancio, il grado di copertura delle spese attraverso le imposte, la capacità di prestito nella propria moneta e nel proprio paese, la volontà/capacità dei governi ad aumentare le tasse e a ridurre le spese, in particolare in certe direzioni, la situazione dei mercati finanziari, la possibilità di monetizzare i deficit, ecc..

In altri termini, la stessa necessità di una riduzione del debito e le sue eventuali modalità non sono un problema tecnico o solamente tecnico, ma di scelte politiche.

D’altro canto, tutto questo premesso, non si può non constatare che i deficit pubblici non cessano di aumentare a ritmi molto sostenuti nei paesi occidentali; come ha affermato di recente un autorevole banchiere tedesco è sempre più marcata una divisione mondiale dei ruoli, al nord i debiti, al sud la crescita. Il debito pubblico a livello globale si eleva oggi a 35.000 miliardi di dollari. Esso è triplicato in venti anni. Con l’eccezione dei tempi di guerra, le finanze pubbliche nella maggioranza dei paesi sviluppati sono in uno stato peggiore che in qualsiasi periodo di tempo dalla rivoluzione industriale ad oggi, come ci ricorda W. Buiter (Schwartz, Dash, 2010).

Un elevato deficit pubblico comporta tra l’altro almeno quattro inconvenienti di peso. Il primo è quello di consegnarsi progressivamente nelle mani dei mercati finanziari, come afferma a questo proposito ad esempio P. A. Delhommais (Delhommais, 2010) : negli ultimi decenni il potere dei mercati sugli stati è aumentato allo stesso ritmo con cui è aumentato l’indebitamento di questi ultimi. Il secondo fa riferimento al fatto che di solito i deficit elevati frenano o annullano i tassi di crescita dell’economia. Il terzo è relativo alla questione che in ogni caso, quando i governi intervengono in una situazione di difficoltà, di solito riducono l’importo degli interventi destinabile alle spese sociali, parallelamente all’ aumento di quello degli interessi passivi. Il quarto, infine, è quello che più debiti si fanno, più appare difficile trovare qualcuno che ci presti degli altri soldi per andare avanti, o che ce li presti a tassi di interesse moderati.

Un caso particolare è certamente rappresentato dal Giappone, paese in cui il rapporto deficit/pil ha ormai raggiunto almeno il 200%, ma che continua a trovare facilmente credito e a pagare tassi di interesse molto bassi. Tutto bene dunque? Certamente no, perché mentre è vero che il deficit è finanziato pressoché totalmente con il risparmio interno, in un mercato in cui i tassi di interesse sullo yen sono in generale molto bassi, è facile prevedere che fra qualche anno tale fonte non sarà più sufficiente a coprire i nuovi debiti e che il paese si troverà davanti a delle scelte potenzialmente drammatiche.

Di fronte all’offensiva politica della destra bisogna in ogni caso combattere quella che in Europa si va caratterizzando come una politica di austerità troppo rapida, troppo drastica, con una qualità degli interventi che non va molto nella giusta direzione. Bisogna sottolineare, tra l’altro, che per essere accettabile il rigore nei conti pubblici deve essere equo e compatibile con lo sviluppo.

Intanto una riduzione significativa delle spese è possibile senza attentare alla qualità dei servizi pubblici, ciò che richiede peraltro di riformare lo stato e i servizi sociali (Attali, 2010); si pensi soltanto da noi al livello della spesa sanitaria in alcune regioni, o alle spese previste per alcune opere pubbliche faraoniche, o per il settore militare.

Appare anche necessario un aumento nel livello delle entrate, ciò che richiede delle scelte politiche nette. E’ evidente come da noi, oltre che combattere efficacemente l’evasione, bisognerebbe intervenire sulla tassazione delle rendite e dei patrimoni. Più in generale, bisogna pensare ad una riforma fiscale che allinei la tassazione dei redditi da capitale con quelli del lavoro.

Su questi fronti si vedano le proposte avanzate di recente dalla campagna “Sbilanciamoci!” (old.sbilanciamoci.org), già ricordate da un articolo di R. Carlini su questo stesso sito.

 

Testi citati nell’articolo

-Artus P., Les marchés sont, pour une fois, raisonnables, Le Monde, 16-17 maggio 2010

-Attali J., Tous ruinés dans dix ans? Dette publique: la dernière chance, Fayard, Parigi, 2010

-Bagnai A., Se cade anche il muro dell’euro, old.sbilanciamoci.info, 12 maggio 2010

-Delhommais P.-A., Merci les marchés et vive la rigueur, Le Monde, 16-17 maggio 2010

-Galbraith J. K., In defense of deficits, The Nation, 22 marzo 2010

-Schwartz N. D., Dash E., Fears intensify that euro crisis could snowball, www.nyt.com, 16 maggio 2010


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Il prof. Bagnai, i cui interventi sul sito di sbilanciamoci mi sembrano di molto interesse, ha fatto una serie di osservazioni al mio articolo e ai concetti espressi dagli autori da me citati a cui cerco di rispondere con queste note. Farò anche un breve commento agli altri due interventi riportati sul sito.
-a proposito di autori: P. A. Delhommais è un economista francese abbastanza conosciuto, almeno nel suo paese, tanto che tiene un’importante e apprezzata rubrica di economia sul quotidiano Le Monde; io penso, peraltro, che si può ovviamente essere in disaccordo con le opinioni di qualcuno, ma non mi sembra necessario che le persone possano esprimere le loro idee soltanto se si tratta di protagonisti noti, cosa che peraltro Bagnai in qualche modo riconosce. Per quanto riguarda W. Buiter, io non so bene quale età egli abbia raggiunto oggi, ma mi sembra che non sia molto produttivo sottolineare che forse le sue opinioni siano dettate dall’età che avanza, anche se riconosco che forse anch’io, nella foga di qualche polemica, mi posso abbandonare ad argomenti polemici simili. Più in generale, penso che bisogna affrontare con umiltà temi tanto delicati e sui quali non sembra esserci, almeno a mio parere, una verità consolidata;
- Bagnai afferma che bisognerebbe fare molte qualificazioni all’affermazione che i deficit pubblici elevati frenano o annullano i tassi di crescita dell’economia, ma in realtà nel mio testo sono in effetti indicate una dozzina di variabili diverse da cui può dipendere la sostenibilità dei deficit stessi;
- seguo con attenzione gli interventi del prof. Bagnai e quindi sulla questione generale dei deficit io ho in realtà letto a suo tempo anche il suo secondo articolo su “sbilanciamoci” cui egli fa riferimento, come ho letto anche della altre opinioni che vanno più o meno nella stessa direzione, tra cui l’interessante articolo di J. K. Galbraith su “The Nation” –In defense of deficits- del 22 marzo, che appare almeno in parte presentare delle posizioni simili a quelle di Bagnai, in una forma forse più radicale. Ma ho passato in rassegna in proposito anche degli altri testi che presentano delle opinioni molto differenti. Sono così rimasto molto colpito dalle analisi di C. M. Reinardt e K. S. Rogoff ( si veda il loro testo This time is different: eight centuries of financial folly, Princeton University Press, 2009), che traggono conclusioni abbastanza radicali dall’analisi storica, mentre ho anche visto il contributo di S. Cecchetti, M. S. Mohanty, F. Zampolli (The future of public debt: prospects and implications, Bank for International Settlements, febbraio 2010), che individuano prospettive abbastanza terrificanti per il futuro, anche se sappiamo che ovviamente si tratta di esercizi che potrebbero essere poi facilmente smentiti dagli eventi. Infine, voglio citare anche N. Ferguson, le cui idee sul ruolo dello stato e sulla crisi io personalmente peraltro non condivido molto, ma che in una sua recente conferenza presso il Peterson Institute for International Economics ( e il cui testo è reperibile sul sito dell’istituto) ci ricorda come negli ultimi secoli ci sia stato un solo esempio di un paese che sia riuscito a liberarsi dal peso di un eccessivo indebitamento sul pil senza ricorrere al default o all’inflazione; si tratta del caso dell’Inghilterra dopo il 1815; lo studioso sottolinea che il miracolo è potuto peraltro accadere soltanto per l’esistenza di condizioni molto particolari e difficilmente ripetibili.
Alla fine devo confessare di trovarmi più d’accordo con le conclusioni di questi ultimi tre scritti e penso che la situazione attuale del debito pubblico dei paesi occidentali sia in prospettiva molto preoccupante, in presenza anche di bassi livelli di sviluppo economico;
-Ora, anch’io penso che in generale il debito con l’interno sia preferibile a quello con estero, ma sono più d’accordo con il prof. N. Mario Nuti che in una nota al suo stesso articolo sopra citato sottolinea che alla fine, oltre certi limiti, quello che importa veramente è il debito totale, nazionale od estero che sia. Anche i cittadini del paese possono all’improvviso cambiare opinione e comunque quando il debito aumenta si fa sempre più fatica a farsi prestare degli altri soldi, all’interno ed all’estero;
-certo che anche un elevato debito privato consegna un paese nelle mani della finanza, io non lo ho certo negato; tra l’altro, ho seguito nel tempo con preoccupazione la deriva della teoria finanziaria applicabile alle imprese, finanziarie e non, che dapprima con Modigliani e Miller e i loro teoremi (che pure presentano un’analisi scientificamente rigorosa sul tema), poi con la teoria dell’agenzia, infine con la cosiddetta scuola del valore, ha tanto contribuito a liberare il mondo anglosassone dai precedenti tabù sul debito e allo scatenarsi dell’indebitamento degli operatori economici. Ma penso, per le ragioni che ho cercato di esporre, che la schiavitù verso i mercati sia una conseguenza importante anche di un elevato debito pubblico. Il prof. Bagnai cita la Tailandia e i paesi asiatici con la crisi degli anni novanta, ma vorrei sottolineare che i vari stati della regione hanno imparato da allora a fare in generale pochi debiti e mi sembra che essi siano molto contenti della linea a suo tempo adottata;
-per quanto riguarda il fatto che i paesi europei che sono usciti meglio dalla crisi sono quelli che hanno incrementato di più il debito pubblico, vorrei ricordare che essi partivano in generale da livelli molto bassi dello stesso e sottolineo comunque, per evitare equivoci, che essi hanno fatto bene a varare programmi di intervento contro la crisi; vorrei sottolineare inoltre che l’Italia e il Giappone, che sono i paesi che presentano il più alto livello di debito pubblico tra i paesi sviluppati, sono anche quelli che negli ultimi dieci anni sono cresciuti di meno;
-a proposito in specifico del Giappone, faccio riferimento ad esempio ad un’analisi di Ph. Mesmer, apparsa su www.lemonde.com, del 15 febbraio e che sottolinea come già oggi il 20% del bilancio pubblico del paese sia dedicato al pagamento degli interessi sul debito e come il livello dello stesso debito dovrebbe raggiungere quello del risparmio interno entro 5-10 anni, che non mi sembra per la verità una prospettiva temporalmente molto remota; a questo si aggiunga che i governi di quel paese, peraltro sempre deboli ed in difficoltà, stanno pensando da tempo di arrivare ad utilizzare almeno una parte di tali risparmi anche in altre direzioni. Naturalmente, anche in questo caso il futuro è in parte aperto, ma mi sembra che, alla fine, ci sono dei problemi importanti in vista;
- riconosco che nell’ultima parte dell’articolo sono stato un po’ sommario, ma i pur corretti standard di spazio sempre più rigidi della redazione per quanto riguarda la lunghezza dei testi hanno contribuito in qualche modo a non farmi essere più dettagliato nelle mie enunciazioni. Comunque, ho fatto riferimento nel testo alla “controfinanziaria” di sbilanciamoci.org, che mi sembra rappresentare un tentativo importante, pur con i limiti dettati dalla fretta di rispondere immediatamente al documento di Tremonti, di coniugare un certo freno all’indebitamento con il tentativo di contribuire a far ripartire lo sviluppo. Ci sarebbe molto da discutere sulla spesa militare, ma mi accorgo che sono stato già molto lungo. Vorrei solo sottolineare che mi sembra che quella greca, pur importante, non abbia contribuito in maniera determinante alla crisi del paese;
-in relazione all’intervento di C Bellavita, vorrei solo precisare che in realtà, adottando il criterio della parità dei poteri di acquisto, il pil cinese avrebbe superato quello del Giappone già da diversi anni, mentre con il criterio dei prezzi di mercato lo dovrebbe fare nel 2010;
-per quanto riguarda infine l’intervento di Ale111, naturalmente e fondamentalmente siamo di opinioni differenti.

Ripresa o riduzione del debito?

è più importante la ripresa economica o la riduzione del debito pubblico? Se non c'è ripresa, per quanto si taglino le spese le entrate non aumentano. Il giappone , che segue questa politica da 20 anni, da bravo soldatino del FMI, ha l'ecnomia stagnante, verrà presto scavalcato dall Cina e il suo debito è arrivato al 200% del PIL
Leggere l'economista indiana Jayati Gosh su Internazionale in edicola.n.848

Il lavaggio del cervello...

Sono un po' perplesso anch'io, ma non per il problema delle rendite: non avendone non posso pronunciarmi con cognizione di causa. Mi rendono perplesse alcune affermazioni, sulle quali non ho tempo di diffondermi (ma mi sarete grati della brevità), e anche la difficoltà di tirare una sintesi da esse: non si capisce bene il saldo quale sia...

Intanto ringrazio l'autore per l'attenzione che dedica al mio contributo sulla crisi dell'euro. Vedo però che ignora totalmente un altro contributo su sbilanciamoci, quello in cui chiarisco che il problema di tanti paesi (di fatto, di TUTTI i paesi) che sono incappati in una crisi finanziaria dalla Tailandia ad oggi non è il debito pubblico, ma quello estero. Mi permetto sommessamente di rinviare a quel contributo per fugare tanti equivoci. Aggiungo che non è un contributo molto originale. Gli economisti postkeynesiani hanno chiaro questo problema da almeno un decennio (posso citare).

Poi, mi sembra contestabile l'affermazione che "di solito i deficit elevati frenano o annullano i tassi di crescita dell’economia". Bisognerebbe fare molte qualificazioni. Ad esempio, come ho DOCUMENTATO altrove su questo forum, i paesi europei che sono usciti meglio dalla crisi sono quelli che hanno incrementato maggiormente il loro deficit. Certo, bisognerà vedere cosa succederà dopo. Spero di esserci per vederlo, perché alla fine la cosa più giusta sul lungo periodo rimane quella che ha detto Keynes (saremo tutti morti). Nel breve cosa fare lo sanno tutti, inclusi gli economisti "neoclassici". Magari il problema è che se sei repubblicano anziché democratico preferisci spendere per le armi anziché per la sanità, ma spendi, e come se spendi, se c'è una recessione...

Mi sembra anche un po' contestabile augurare sventura al Giappone. Lo fanno i funzionari della BCE, lasciamolo fare a loro (posso essere più tecnico, a richiesta).

Mi sembra anche contestabile ragionare come se le spese militari o quelle per opere pubbliche non avessero un moltiplicatore, o come se non lo avesse l'aumento del tasso di imposizione effettiva determinato dalla lotta all'evasione. Moltiplicatori diversi per dimensioni, segno e contenuto etico, ma sempre moltiplicatori. Se siamo economisti non possiamo enunciare nessun sogno senza valutarne l'impatto macroeconomico. Altrimenti facciamo i politici: la sinistra di un certo ricambio avrebbe bisogno (se ne è accorto anche l'amico Sergio Cesaratto questa settimana)!

Mi sembra anche che non sia un gran genio dell'economia il tedesco che parla di divisione dei ruoli (debito a Nord, crescita a Sud). Cosa vuole dimostrare? A Sud (ma in quale Sud?) c'è fisiologicamente più crescita, nella misura (contestabile, ovviamente) in cui valgono le previsioni dei modelli standard di crescita, e al Nord c'è fisiologicamente più debito perché ci sono mercati finanziari più sviluppati. Se vogliamo dimostrare che invece qui c'è una patologia, allora dobbiamo aggiungere qualche informazione in più. Certo, patologie ci sono. Una è connessa all'asimmetria del sistema monetario internazionale, basato sul dollaro. Ma di questo i banchieri vogliono parlarci? Lasciamo che i banchieri facciano i banchieri. Loro sanno perché dicono quello che dicono, e noi dovremmo sapere perché non starli a sentire.

A questo proposito mi sembra molto contestabile l'affermazione secondo la quale il debito pubblico consegna un paese nelle mani della finanza. E perché, quello privato no? Negli Stati Uniti non mi sembra che sia fallito il governo: sono fallite le famiglie, fino a prova contraria. Non so chi sia Delhommais (credo lo sappiano in pochi, in effetti), ma sicuramente è una persona affetta da quella simpatica distorsione ideologica di cui parlo altrove (ma siccome nessuno sa chi sono io, evidentemente dirlo non è servito a molto!). Avviso al lettore: anche se lo ha detto B., il fatto che la salute finanziaria di un paese dipende anche dal suo debito privato resta vero. Se poi essere di sinistra significa fare come il colonnello Buttiglione, che era quello che non si arrendeva mai, nemmeno di fronte all'evidenza, allora accomodatevi, c'è posto...

Mi sembra anche molto divertente l'osservazione di Buiter, autore che conosco bene essendomi occupato un po' di debito pubblico ed estero, secondo cui "con l’eccezione dei tempi di guerra, le finanze pubbliche nella maggioranza dei paesi sviluppati sono in uno stato peggiore che in qualsiasi periodo di tempo", Ah sì? Perché oggi siamo in tempo di pace? Mi sembra molto strano che Willem Buiter non si sia accorto del fatto che le finanza pubbliche americane sono peggiorate in gran parte per problematiche legate alla cosiddetta esportazione della democrazia (e in parte, certo, per - altri - favori fatti ai ricchi). E del resto, se proprio ne dobbiamo parlare, una parte significativa del debito estero greco è legato all'acquisto di armi dalla Germania (devono difendersi dai turchi, pare...), ma di questo nessuno parla (parlano di pensioni, di piscine, ecc.). Forse il buon Buiter, che ormai ha un'età, vuole dirci che non ci sono più guerre in Europa. Eh sì, lo sappiamo: le abbiamo evitate in un modo inconsueto, ma a dire il vero molto efficace: consegnandoci mani e piedi legati al potenziale vincitore. Ma siamo sicuri che Buiter sia così tanto rincorbellito?

P.S.: strano poi voler ridurre le spese militari e preoccuparsi del fatto che il debito è insolitamente alto... per un periodo di pace! Un vero economista direbbe che queste due affermazioni sono "inconsistenti" (in italiano: incoerenti). Ma insomma, la televisione in casa ce l'abbiamo tutti, no? Quello che si vede fra le 19 e le 21 non è un film (o se lo è, pare che le comparse non siano molto contente delle condizioni offerte loro dalla produzione). La guerra c'è. Ed è anche per quello che c'è il debito. O magari le cose stanno esattamente in modo inverso (vedi sopra alla voce " se sei un repubblicano e c'è la recessione..."). Ma comunque sotto questo rispetto mi sembra che il mondo stia andando come è sempre andato e come sempre andrà...

Tassare le rendite? Equivale a tassare il risparmio delle famiglie.

L'articolo mi lascia piuttosto perplesso. In particolare la proposta di tassare i patrimoni. Queste sono proposte che piacciono molto alla sinistra socialista e comunista. Ma nella pratica Visco finisce per tassare il risparmio di chi lavora e produce. Chi effettivamente possiede patrimoni vive in Svizzera (dove queste tasse non esistono) o non ha difficoltà nel creare veicoli societari che lo schermino completamente da questo tipo di imposizione fiscale. E guardate che questo non avviene solo qui: i veri possessori di ricchezza fanno nella maggior parte così in Francia,in Germania, in Gran Bretagna e via dicendo. Parlare di tassazione dei patrimoni o delle rendite è una bella immagine populistica e retorica che serve ai politici per alzare le tasse senza avere troppi problemi. Le sinistre e i socialisti con questo vanno a nozze. Molto più difficile giustificare quest'atteggiamento per dei liberali. A mio parere patrimoniali ed espropri mascherati non si accordano propriamente a una visione liberale della società. Per assurdo uno dei non tantissimi motivi per cui apprezzo Berlusconi e Tremonti è proprio il rispetto dimostrato da questi ultimi nei confronti del risparmio delle persone. La strada maestra per ridurre il debito è quella di tagliare la spesa pubblica, non certo quella di opprimere i cittadini con maggiori tasse.