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La primavera degli operai cinesi

06/07/2011

Nel Guandong gli operai della nuova generazione vogliono guadagnare di più con ritmi di lavoro più sopportabili. Industriali, sindacalisti e politici si trovano di fronte a problemi che non hanno mai affrontato

La buona notizia è che in Cina i salari stanno crescendo.

Dalla primavera del 2010 si succedono nel sud del paese, e non solo, ondate di scioperi spontanei, che normalmente si concludono con aumenti salariali consistenti. Nella ricca provincia costiera del Guangdong, tra Canton (in cinese: Guangzhou) e Shenzhen, nel cuore della “fabbrica del mondo” gli operai di molte imprese, sia multinazionali straniere che cinesi (private o pubbliche) hanno ottenuto nel corso del 2010 aumenti salariali dell’ordine del 30-40 per cento. Le imprese di Taiwan e di Hong Kong dichiarano aumenti medi del 14 per cento nelle loro filiali cinesi. Nelle principali città i salari minimi stabiliti per legge sono stati aumentati del 18 per cento. Il nuovo piano quinquennale prevede un aumento salariale medio del 15 per cento annuo.

Tra le cause di questa nuova tendenza, l’eccesso di domanda sull’offerta di lavoro, qualificato e non (c’è penuria di forza lavoro in tutta la regione), dopo due decenni di fortissima crescita industriale; l’arrivo sul mercato del lavoro dei giovani della “generazione dei figli unici”, più consapevoli e combattivi; e l’assottigliarsi dell’esercito di riserva dei migranti interni, perché anche molte province interne si sono industrializzate (è il caso, ad esempio, di Chong Quing, dove ha aperto il nuovo stabilimento Iveco, accanto a molti altri)

Abbiamo chiesto a Jean Ruffier, un sociologo francese con una lunga esperienza di indagine sul terreno a Canton, di scriverci un suo commento.

(nota introduttiva di Giovanni Balcet, 5.7.2011)

Se il sud della Cina e in particolare la provincia del Guangdong è diventato la fabbrica del mondo, questo si deve notoriamente all’esistenza di una manodopera operosa, obbediente e disponibile ad accettare senza recriminare bassi salari e cattive condizioni di lavoro. Negli ultimi vent’anni la crescita è stata ininterrotta ma i salari si sono mossi poco. Le statistiche ufficiali cinesi mostrano perfino una dinamica salariale inferiore a quella del Pil.

Da un anno a questa parte si sono moltiplicati i conflitti di lavoro, per cui i salari crescono. I giornali e i media hanno dato notizia di numerosi conflitti e scioperi nelle imprese di proprietà estera, soprattutto filiali di multinazionali di Taiwan e del Giappone, che si sono risolti con notevoli aumenti salariali. Il movimento in realtà era cominciato nelle imprese private cinesi, e ormai tende a estendersi anche alle imprese pubbliche. Il Centro franco–cinese di ricerca sulle organizzazioni dell’università Sun Yatsen a Canton ha condotto osservazioni sul campo, e ha promosso interviste e dibattiti nelle imprese, con sindacati, attivisti e rappresentanti dei poteri politici. Queste indagini lasciano intendere che gli scioperi si moltiplicheranno nei prossimi mesi e i costi salariali aumenteranno sensibilmente in questa parte della Cina. I poteri politici regionali e il sindacato unico esitano fra il sostegno agli scioperanti e la lotta contro gli stessi, e ciò rende la situazione molto incerta.

Gli scioperi sono infatti portati avanti direttamente dagli operai, che vedono come la lotta spesso paghi e imparano come condurre il conflitto nonostante il divieto di organizzarsi. Spesso violenti, i conflitti si rivolgono contro padroni cinesi che non sono abituati a negoziare né a consultarsi e tendono a reagire brutalmente aggravando le tensioni. Anche le imprese straniere devono adattarsi a una situazione nuova, ma sono più preparate a fronteggiarla. Potrebbero perfino trarre vantaggio da un’evoluzione che, aumentando i salari, facesse crescere i consumi, rendendo più vantaggiosa la localizzazione in Cina.

In numerose interviste sentiamo dire dagli operai cinesi che hanno scioperato o che si ripromettono di farlo. Questa è per noi una novità. Gli operai di oggi non rassomigliano per nulla a quelli di ieri, siamo ormai alla seconda generazione di operai di origine rurale. La seconda generazione è più istruita della precedente. Ha l’esperienza della prima generazione e soprattutto non ha conosciuto altra condizione che la crescita. La prima generazione di operai di origine rurale aveva conosciuto la guerra civile e periodi di carestia. La generazione attuale sa cosa è la miseria, ma si è raramente confrontata con la carestia e solo in casi eccezionali con la repressione. È una generazione che crede nel suo avvenire. Questi operai hanno abbandonato villaggi dove i giovani fuggono e dove regna una disoccupazione endemica. Il reddito medio dei contadini cinesi si situa ormai intorno ai 100 euro all’anno, quello degli operai è dieci volte superiore. Gli operai di origine rurale hanno pertanto sperimentato una vera promozione sociale.

La stampa straniera insiste molto sulle condizioni di lavoro che in Cina non sono di solito migliori di quelle degli altri paesi del terzo mondo. Queste condizioni di lavoro sono ovviamente vissute male, ma sono anche percepite come una fatalità e nel complesso non sono considerate degradanti. Gli orari si sono allungati a causa di una domanda di lavoro crescente. Sia gli operai che gli impiegati e i quadri hanno sperimentato una crescita dell’intensità dei ritmi di lavoro. Oggi sentiamo dire da molti cinesi che vogliono lavorare meno. Gli operai mettono sempre più spesso l’investimento nel lavoro in relazione con i guadagni che ottengono. Formulano spesso delle constatazioni disilluse: “In questi anni si è lavorato in maniera sempre più dura, e guardate chi si è arricchito – non certo noi!” Benché questi operai guadagnino più dei loro genitori, si trovano anche a vivere in un mondo più complicato. I salari degli operai cinesi non sono cresciuti al ritmo della crescita economica del paese. Rimangono salari da paesi del terzo mondo in una regione che raggiunge livelli del Pil per abitante dei paesi europei più modesti. Organizzare la propria vita da operaio diventa un rompicapo. I prezzi degli affitti sono cresciuti considerevolmente. Mentre la maggioranza degli urbanizzati possiede la propria abitazione, gli operai si rendono conto che non riusciranno mai ad acquistarne una.

Di fronte a degli operai che non hanno paura del conflitto c’è un potere molto più diviso sulla questione del rischio sociale. Le visioni, strategie e situazioni del potere centrale sono molto differenti da quelle dei poteri municipali o provinciali. La personalità dei quadri del Partito conta anch’essa molto. Entrare nel Partito è un’opportunità che non è offerta a tutti e richiede spesso molti sforzi. Ma le motivazioni di coloro che vi entrano sono molto diverse: alcuni si propongono di difendere delle opzioni, ideologiche o morali, laddove altri mirano piuttosto all’arricchimento personale. Il mondo dei poteri cinesi è attraversato da dibattiti molto vivi sulle politiche da mettere in atto.

Il potere centrale interviene abbastanza raramente sui conflitti di lavoro. Quando lo fa, è sempre a sfavore delle autorità locali, spesso in maniera brutale. Il suo obiettivo principale è di mantenere il potere ed è in base ad esso che valuterà se intervenire o no. Si è sempre opposto violentemente alla creazione di organizzazioni militanti autonome, al rischio di nuocere allo sviluppo economico. Il potere non nega la crescita del numero di conflitti sociali. Certo le statistiche dei conflitti sono fornite con il contagocce e non sono sempre del tutto affidabili, ma da due anni il potere rileva un aumento costante del numero dei conflitti e annuncia di attendersi l’insorgere di altri conflitti più rilevanti. Si può dire che è pronto a ogni eventualità.

L’esitazione del potere è particolarmente visibile quando si osservino da vicino i dirigenti sindacali. I responsabili sindacali del Guangdong sono molto divisi sul ruolo dei sindacati e sulla strategia da seguire di fronte ai conflitti. Il sindacato non rappresenta i salariati, li difende cercando per quanto possibile di migliorare la situazione operaia. Non è raro che il sindacato invii la polizia a picchiare gli scioperanti. Detto questo, il sindacato è percorso da dibattiti. Abbiamo personalmente partecipato a degli incontri tra sindacalisti cinesi e francesi, nel corso dei quali i primi chiedevano consiglio ai secondi in materia di comprensione dei salariati. Abbiamo anche potuto constatare che nel Guangdong il dibattito interno può spingersi più lontano. Si potrebbe parlare di una tendenza centralista che considera che in presenza di un conflitto di lavoro il ruolo del sindacato sia di mediare tra i padroni e i salariati, al fine di trovare il più rapidamente possibile una soluzione. Ci sono infine dei sindacalisti cantonesi che stimano di doversi schierare risolutamente dalla parte dei lavoratori contro i padroni. Questa posizione è più facile da sostenere quando il padrone è straniero. Così nel Guangdong abbiamo visto un sindacato intervenire in una fabbrica in sciopero per far eleggere dalla base i delegati di fabbrica, ai quali è stata delegata l’uscita dal conflitto. In quel caso il conflitto si è risolto con un aumento consistente e rapido dei salari. Non tutti i conflitti si risolvono così bene per i lavoratori. Capita, soprattutto in presenza di padroni privati cinesi, che gli operai non ottengano nulla.

Nessuno può dire quali forme assumeranno i conflitti futuri. Questo panorama degli attori, la determinazione e la mancanza di paura degli operai da un lato, il disorientamento padronale e l’indecisione delle autorità, dall’altro, fanno pensare che i conflitti si moltiplicheranno. Alcuni militanti o intellettuali immaginano perfino che potranno assumere la forma di uno sciopero generale a partire da conflitti locali che facciano da esca. La sola cosa che sembra sicura è che non si è ancora raggiunto il culmine del conflitto. C’è ancora margine per aumenti salariali. Tutti questi elementi fanno prevedere che i salari aumenteranno rapidamente nel sud della Cina. Ciò non influenzerà minimamente la presenza di imprese straniere. Certo, diventerà meno interessante la localizzazione in Cina per sfruttare i bassi salari, ma coloro che sono già localizzati ci rifletteranno prima di andarsene, in un momento in cui sta per verificarsi un aumento del potere d’acquisto locale. La primavera degli operai del sud della Cina è dunque cominciata.

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Globalizzazione e salari cinesi

Poiché sono pertinenti, riporto due (di alcuni) commenti sul tema della globalizzazione, nel blog di Piergiorgio Odifreddi su “Repubblica”, il primo di Valerio_38, il secondo mio:

• valerio_38 scrive:
6 luglio 2011 alle 20:21
@vincesko, post del 2 luglio 2011 alle 23:39 e del 6 luglio 2011 alle 16:35

Trovo un po’ ridicolo che io e te ci mettiamo a discutere dei “modi per dare soluzione” alla globalizzazione. Su questa questione è in atto una discussione che coinvolge governi, istituzioni internazionali, ambienti accademici, politici, sindacali, ecc.
Nel bailamme seguito allo scatenarsi della crisi finanziaria in atto, una cosa è ormai ben chiara: immaginare “soluzioni” è solo il primo passo (ed è già, di per sé, piuttosto impegnativo); ma mettere in campo il protagonista politico che dovrebbe “afferrare il volante” e dare la necessaria sterzata è un compito ancora più impegnativo.
Quanto al primo punto (immaginare soluzioni), è necessario prendere atto che la situazione di crisi che stiamo vivendo è frutto diretto delle politiche di liberalizzazione dei mercati degli ultimi 15 anni (trattati di libero scambio in ambito WTO) e delle politiche di deregulation del sistema finanziario globale sviluppate negli ultimi 25 anni.
Per effetto di quella apertura del “vaso di Pandora”, l’architettura dell’attuale sistema economico-finanziario è stato costruita senza alcun progetto consapevole.
E’ ben noto che nessun sistema di una certa complessità può essere stabile e controllabile se non è stato progettato per esserlo. Una intera branca dell’ingegneria (teoria dei sistemi, controlli automatici, teoria della regolazione, ecc.) è stata sviluppata proprio per identificare i criteri di progetto che assicurino la stabilità e la controllabilità dei sistemi fisici (reti elettriche e elettroniche, sistemi idraulici, energetici, chimici, ecc.). Nessun progettista di un qualunque sistema fisico complesso si sognerebbe di implementare un sistema senza avere esplorato con tecniche adeguate il comportamento del suo modello teorico. Invece l’architettura del sistema finanziario globale è stata costruita proprio così, affidando la sua archiettura alle forze spontanee (e anarchiche) del mercato.
In un quadro generale di questo tipo, le opzioni immaginabili sono sostanzialmente di tre tipi:
1. Il salasso portato fino alle estreme conseguenze (perché la crisi sarebbe colpa degli interventi politici sul mercato). Bisogna lasciare agire le dinamiche intrinseche del sistema economico-finanziario così com’è, confidando nel fatto che, come assicurano i dogmi del credo neoliberale, il sistema sia perfettamente in grado di autoregolarsi e di ottimizzare l’allocazione dei capitali se non venga perturbato da interferenze politiche. In altre parole: altre liberalizzazioni, altre privatizzazioni, altre deregolamentazioni (il caso Grecia e il modo in cui è attualmente gestito dall’UE e dalla BCE è un caso di scuola).
2. Non intervenire sulle cause della crisi, ma cercare di temperarne gli effetti. Questa è, da sempre, l’impostazione del riformismo pavido. Nel nostro caso ci si propone di lasciare inalterata l’architettura del sistema economico-finanziario (le cause) ma di apportare dei correttivi ai suoi effetti più evidenti e drammatici. Come sa chiunque abbia nozioni elementari del progetto di sistemi, si può riportare sotto controllo un generico sistema X instabile mediante sottosistemi di correzione, ma a tale scopo è essenziale conoscere il modello intrinseco del sistema X (in altre parole il sistema deve essere completamente conosciuto e descrivibile con un modello). Ma il modello astratto di un sistema costruito senza progetto (come l’attuale sistema economico-finanziario) è conoscibile solo mediante reverse engeneering di tipo “scatola nera”, inadeguato a fornire un modello intrinseco univoco.
3. Intervenire sulle cause. Questo presuppone, nel breve termine, la segmentazione del sistema esistente (a livello regionale e interrompendo le interazioni notoriamente più critiche, ad esempio separando banche commerciali dalle banche di investimento) per riportarlo sotto controllo (come propone Walden Bello) e, nel lungo termine, la sua riorganizzazione radicale secondo una nuova architettura economico-finanziaria che ne assicuri stabilità e controllabilità (un keynesismo adattato al nuovo millennio).
Ritengo che le prime due opzioni siano palliativi, che potranno soltanto trascinare a lungo la situazione di crisi per poi degenerare in regimi autoritari, come teme Luciano Gallino. La terza opzione è l’unica realistica dal punto di vista intellettuale, ma è pressoché priva di sostenitori sociali, dal momento che da decenni l’intero schieramento politico è stato pietrificato dalle sirene neoliberali.
Dunque, il nostro destino sembra ineluttabile: un regime autoritario prometterà di mettere fine al dominio distruttivo dei mercati, ma lo farà con mezzi fascisti. Come dice Luciano Gallino “vari segni inducono a supporre che molti esponenti del sistema finanziario mondiale non sarebbero turbati da questo esito”.
http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/2011/06/28/le-carte-in-tav-ola/comment-page-9/#comment-24515


@ Valerio_38 (20:21)

”Trovo un po’ ridicolo che io e te ci mettiamo a discutere dei “modi per dare soluzione” alla globalizzazione”.

Invece è proprio il nostro compito; di noi, intendo, che facciamo parte della rete e commentiamo in un blog. Beninteso, se anche tu come me persegui l’obiettivo di creare informazione corretta e controinformazione.

Chi, quale soggetto? Per fare che cosa?

Perché – l’ho già scritto - anc’hio come Walder Bello credo che il soggetto principale debba essere il popolo, in primo luogo il popolo del web, a farsi promotore di un’azione di raccolta, elaborazione, distribuzione delle informazioni, pungolo, controllo sulle istanze politiche e, tramite queste, sui soggetti economico-finanziari, per operare su un duplice piano: 1) far riprogettare l’intero sistema secondo principi socialdemocratici (terza opzione); 2) apprestare, nel frattempo, correttivi e misure adeguate per gestire al meglio la situazione (seconda opzione), che può diventare insostenibile ed esplosiva (dando la stura ed il pretesto a soluzioni fascistiche).

Soluzioni

Non mi arrischio a delineare soluzioni sistemiche e palingenetiche, ma è chiaro che occorre limitare da subito gli effetti perversi della globalizzazione nell’economia reale. Io, credo di averlo già detto, come fanno tantissimi altri, individuo tre fattori su cui intervenire: 1) la sottovalutazione dello yuan cinese (e del dollaro USA), che equivale a mettere un dazio sulle importazioni cinesi (o americane); 2) il dumping sociale, la cui gestione è politica (cioè in mano al partito comunista cinese); e 3) l’assenza di controlli qualitativi e normativi efficaci ed incisivi sulle merci cinesi o orientali o extra UE prodotte dalle nostre aziende delocalizzate, importate in UE.

Per quanto riguarda il punto 1), faccio due osservazioni: a) lessi tempo fa che la Cina ha riunito un gruppo di esperti internazionali, e ne tratta anche negli incontri bilaterali internazionali, per studiare le cause prima del declino e poi della dissoluzione dei vari imperi, incluso ovviamente quello romano, che si sono succeduti nella storia; b) ha fatto tesoro di un caso di studio molto più recente – il Giappone – che 25-30 anni fa accettò l’invito degli USA a rivalutare lo yen per riequilibrare gli scambi commerciali, e ne ha pagato a lungo poi le conseguenze negative. Questo per spiegare la renitenza della Cina a rivalutare lo yuan (o renminbi): difficilmente lo farà. Altrettanto si può dire per il punto 2), in ordine al quale giocheranno un ruolo, in via prioritaria, i lavoratori cinesi (che già hanno ottenuto significativi miglioramenti salariali); in via subordinata e complementare, i sindacati mondiali. Il punto 3) – la gestione dei prodotti importati, inclusi quelli delle imprese occidentali de-localizzate – secondo me costituisce la variabile controllabile su cui occorre ed è possibile intervenire con dei correttivi adeguati.

Infine, a livello nazionale, è fondamentale apprestare un mix di misure che, da un lato, aumentino le tutele di welfare, riformino il mercato del lavoro, varino un corposo piano di alloggi pubblici; dall’altro, trovino le risorse finanziarie, chiamando a contribuire secondo capacità di reddito e consistenza patrimoniale.

I numeri elettorali, se opportunamente spiegate e propagandate, sono dalla parte di queste misure; i partiti di centrosinistra non potranno non seguire (lo stanno già facendo).. Ma bisogna evitare di fare ammuina.
http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/2011/06/28/le-carte-in-tav-ola/comment-page-9/#comment-24520