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Editoriale

La trappola della conservazione

07/12/2011

Se per salvare l'Italia e l'Europa si assumono approcci "rigorosi" come quelli impliciti nella manovra del governo Monti, gli effetti – peraltro già sperimentati – saranno socialmente iniqui ed economicamente controproducenti. E la sinistra, ammaliata da opposte sirene, rischia di uscirne a pezzi

Quella decisa domenica 4 dicembre è la quarta manovra finanziaria effettuata in Italia in pochi mesi. Il suo ammontare di 30 miliardi è superiore alle attese perché proprio quelle estive avevano diminuito le aspettative di crescita per i prossimi due anni cosicché l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 ha richiesto un intervento di entità maggiore. Ma non è difficile anticipare che l'ulteriore effetto depressivo di quest'ultima manovra, che prevede poco per la crescita farà sì che per raggiungere quell'obiettivo saranno necessarie ulteriori misure restrittive. E via di questo passo si accentuerà la spirale recessiva che ben conoscono gli studiosi della grande crisi degli anni '30. Per l'equità, il governo Monti si affida essenzialmente al dispiacere per i tagli previdenziali e alla rinuncia personale del compenso del suo presidente (peraltro compensata da altre scelte di segno opposto).

La manovra del governo Monti e la sue maggiori dimensioni sono state dunque dettate dall'obiettivo del pareggio di bilancio imposto dall'Unione Europea. Tuttavia, secondo Monti, l'Italia non avrebbe subito nessuna imposizione (trattandosi di obiettivi da noi condivisi); questa manovra si giustificherebbe in primo luogo per salvare il nostro paese ("chiamatela manovra salva Italia") e se non fosse stata fatta, ci saremmo assunti la responsabilità ("infamante") di distruggere l'euro e l'Unione Europea. In una dichiarazione successiva Monti ha anche aggiunto che occorre rafforzare il mercato unico europeo. Quest'ultimo, la moneta comune e il rigore dei bilanci nazionali rappresentano gli assi portanti del processo unitario europeo come è stato concepito e condotto finora in coerenza ad una visione economica e dell'Europa che Monti condivide.

Queste valutazioni non sono ispirate da pedanteria critica verso l'operato del presidente Monti; d'altra parte, la persona non la giustificherebbe e le circostanze la renderebbero poco opportuna. Anzi, va dato atto al nuovo governo di alcuni segnali che vanno verso il tanto atteso cambiamento di stile rispetto all'ultimo governo (ma non tutti: vedi la decisione di andare a "Porta a porta").

Ciò chiarito, è necessario capire cosa ci si possa attendere da questo governo e come la sinistra possa rapportarsi alla situazione economica e politica che va determinandosi in rapida evoluzione.

Un punto significativo da tener presente è che l'analisi della crisi in cui siamo immersi fornisce indicazioni diverse sul che fare, in Europa e in Italia, rispetto a quanto Monti considera giusto fare.

Se in Europa la crisi si avverte con particolare virulenza non è certo perché le sue cause, reali e finanziarie, siano da noi più virulente; tutt'altro. Oramai è largamente riconosciuto che il problema dell'Unione Europea sta nelle modalità con le quali è stata costruita, cioè affidando il processo unitario solo alla moneta comune e al mercato unico e non anche alla creazione delle sue istituzioni democratiche e alla loro interazione economica con i mercati interni e internazionali.

La crisi globale, dunque non solo europea, si fonda sulla progressiva incapacità dei mercati lasciati a se stessi - cioè "liberati" dall'interazione con le istituzioni collettive - di generare gli equilibri dei rapporti produttivi e distributivi idonei ad ottenere non solo equità e coesione sociale, ma anche una dinamica qualitativa e quantitativa della domanda effettiva coerente a quella della capacità d'offerta, così da assicurare un trend stabile della crescita economica compatibile con equilibri sociali ed ecologici democraticamente condivisi e tra loro compatibili.

Nella visione economica ancora dominante, la crisi globale viene essenzialmente riferita agli squilibri finanziari, che pure sono rilevantissimi in sé e per le conseguenze che generano. Da ciò discende, specialmente nell'Unione Europea, il convinto perseguimento del "rigore" finanziario (ma essenzialmente per i bilanci pubblici) che pure avrebbe una sua ragion d'essere quando opportunamente applicato. Tuttavia, quando tale "rigore" prescinde dalla qualità della spesa e delle entrate, dai ceti sociali cui esse fanno riferimento, e quando viene applicato estendendo alla macroeconomia la logica ragionieristica valida per i bilanci aziendali, diventa una trappola di segno conservatore perché subordina ad un criterio apparentemente neutro, ma concretamente discriminante, gli equilibri sociali, l'equità distributiva e la democraticità delle scelte economiche complessive relative a cosa e come si produce e si consuma.

L'ostacolo prioritario al superamento di questa crisi epocale viene dunque dalla persistente influenza degli interessi e della visione economica che l'hanno determinata progressivamente nell'ultimi trentennio e dalla indisponibilità ideologica a riconoscere ed affrontare le sue cause strutturali. Questo ostacolo, ampliato dalle idiosincrasie nazionali e nazionalistiche presenti in Europa, sta determinando la particolare situazione critica dell'economia europea e del suo progetto unitario e la conseguente interazione negativa con la crisi globale.

E tuttavia, le politiche non sono frutto del destino cinico e baro, ma delle scelte che concretamente vengono assunte. Ad esempio, è cognizione comune che ogni avanzo commerciale presuppone un disavanzo e pensare di estendere all'intera Unione la condizione di avanzo tedesca non è "rigoroso" ma logicamente incompatibile cosicché, se così s'intende il rigore, è inevitabile l'attuale deriva della situazione economica e del progetto unitario in Europa. D'altra parte, per fare un altro esempio, la colossale evasione fiscale che viene tollerata in Italia contribuisce significativamente al nostro debito e agli squilibri che ne derivano anche in ambito europeo (e contribuisce anche all'acquisto delle macchie di lusso tedesche e a generare l'avanzo commerciale della Germania).

Se per salvare l'Italia e l'Europa si assumono approcci "rigorosi" come quelli impliciti nella manovra del governo Monti, gli effetti – peraltro già sperimentati – saranno socialmente iniqui ed economicamente controproducenti. Tuttavia, Monti si mostra convinto della validità di quella visione (non a caso non la considera un vincolo imposto).

In questo contesto, europeo e italiano, la sinistra viene a trovarsi su un crinale sempre più angusto e pericoloso. Potenzialmente, l'analisi della crisi suggerisce politiche – come rivalutare il ruolo delle istituzioni e migliorare la distribuzione del reddito – che le sono particolarmente congeniali. Tuttavia, nell'immediato occorre fare comunque i conti con le emergenze poste dalla crisi e non può sfuggire che un paese come l'Italia – la cui reputazione internazionale è stata compromessa dal berlusconismo (che non riguarda solo Berlusconi), la cui economia ha problemi strutturali – incontra particolari difficoltà nel rappresentare il proprio punto di vista. Peraltro, qualunque paese europeo avrebbe difficoltà a perseguire una politica, per quanto "giusta", che risultasse "incoerente" con quella prevalente a livello europeo; per questo è fondamentale costruire l'Europa federale e cercare di cambiare le politiche comunitarie. A livello nazionale, la sinistra deve fare i conti con il fatto che il governo Monti rappresenta comunque un mutamento della situazione politica nazionale, che è percepito come "serio" e urgente ( "salva Italia" ) da una opinione pubblica anch'essa nel guado tra la necessità avvertita di "cambiare" ( ma è confusa e dunque aperta a tutte le possibilità) e l'eredità del senso comune maturato in trent'anni di neoliberismo che, per di più, negli ultimi venti è stato declinato dal berlusconismo.

L'emergenza comunque imposta dalla crisi e dalla sua gestione "rigorosa" in sede comunitaria e la "novità" del governo Monti stanno accentuando il rischio di logoramento della sinistra già innescato dai suoi ritardi d'analisi e dalla sua oramai tradizionale polarizzazione tra una componente che fa crescente fatica a guardare oltre le ricette convenzionali della tradizionale visione economica che molto ha contribuito alla crisi globale e una componente che da decenni continua a lasciarsi ammaliare dalle sirene immaginifiche della deresponsabilizzazione nei confronti delle istituzioni pubbliche le quali, invece, andrebbero sostenute proprio per rafforzare le scelte democratiche rispetto a quelle dei mercati (peraltro, che senso hanno le rituali generiche litanie anti-mercato se poi, auspicando il default, si propone d'indebolire lo stato e la sua credibilità sul piano economico dove, appunto, dovrebbe arginare e compensare i fallimenti economici, sociali ed ecologici del mercato stesso?).

Entrambe queste componenti, anche perché indebolite dalla loro divisione, paradossalmente convergono nel determinare un esito controproducente della crisi. Gli effetti negativi si scaricheranno in primo luogo su coloro (la maggioranza della popolazione) che hanno già pagato le cause e le conseguenze della crisi, e dunque hanno tutto il diritto di essere indignati, specialmente verso chi cerca di strumentalizzarli usandoli come il peperoncino nelle minestre riscaldate; ma le conseguenze ricadranno sul paese nel suo insieme, che infatti è sempre più disilluso verso la politica siffatta, senza tante distinzioni, con ciò aprendo le porte ad esiti anche regressivi della crisi.

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