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Le mafie: violenza fisica e reputazione “metafisica”
Dal Messico alla Sicilia, i fenomeni illegali vengono ricondotti alle mafie, che però hanno logiche, strumenti, meccanismi di regolamentazione diversi
Capire il radicamento delle mafie e la loro evoluzione in termini di influenza sulla società è sempre più necessario per combatterne il radicamento culturale e ridimensionarne il potere. Anche di questo si è parlato all'ultimo Salone dell'Editoria Sociale, che si è tenuto lo scorso mese a Roma, in un incontro sulla “geografia” delle mafie, in cui sono intervenuti tra gli altri Ugo Pipitone, docente di economia dello sviluppo al Centro de investigación y docencia económicas di Città del Messico, e Diego Gambetta, docente di sociologia all’Università di Oxford, per discutere del rapporto fra economia, società e mafia.
Ugo Pipitone ha dato l'idea del livello di violenza che affligge lo Stato messicano facendo ricorso ai numeri: i numeri di cui ha parlato sono molto lontani dalle realtà mafiose europee, sia in termini di vittime che di modalità di uso della violenza. Secondo un rinomato istituto norvegese, la soglia di 1.000 vittime di omicidio l’anno è quanto basta per dichiarare lo stato di “guerra civile”: solo negli ultimi 5 anni, in Messico sono state uccise più di 43.000 persone, di cui il 10% vittime civili. Negli ultimi 10 anni sono stati 74 i giornalisti uccisi, rei di aver denunciato la barbarie del paese. Secondo Pipitone, nessuno può considerarsi estraneo a questo fenomeno, neanche le classi sociali più deboli e povere, che diventano a loro modo risorse di una “guerra” che tiene in ostaggio un paese intero. Motore di questa spirale sanguinaria è l’assoluta mancanza di etica morale e di pietas, unita alla profonda collusione di interessi tra forze di polizia e narcotrafficanti. Da qui, la difficoltà delle categorie più deboli della società di sfuggire alle minacce subite, a fronte della mancanza di un interlocutore a cui rivolgersi. I maestri delle elementari nella provincia di Acapulco, ad esempio, sono diventati vittime di estorsioni e richieste di pagamento del pizzo. A causa dei bassi salari, i maestri non sono in grado di soddisfare le richieste di denaro, ma non possono neanche denunciare la loro condizione, perché la polizia in molti casi è complice-informatore dei narcos. Qualche mese fa una tra le più importanti testate giornalistiche messicane, a seguito dell’uccisione di due suoi giornalisti, titolava con riferimento ai narcos: “Diteci voi cosa dobbiamo scrivere".
Per Ugo Pipitone, la crescita del narcotraffico va attribuita all’assenza di istituzioni, che sono deboli o inefficaci. Il Messico è uno Stato federale, composto da 31 Stati, dove vige un forte regime di indipendenza tra governatori locali e nazionali. Prima del 2000, il sistema politico era regolato dal controllo del Presidente della Repubblica nei confronti dei governatori locali, e il Partido Revolucionario Institucional – Pri (“strano ossimoro”) – consentiva la corruzione, ma allo stesso tempo la limitava e controllava, svolgendo un ruolo di mediazione, mentre i cartelli regolamentavano il narcotraffico. La collusione dei poteri forti con i gruppi criminali assicurava in parte il rispetto nei confronti delle istituzioni. Nel 2000, la vittoria del Partido di Accion Nacional – Pan –, ha svegliato il paese dal torpore di diversi decenni di governo del PRI, ma allo stesso tempo ha fatto cadere quel sistema che regolava i rapporti tra Stato e narcos. I cartelli sono stati smantellati e il mercato della droga è diventato un obiettivo ambito, causando una violenta lotta tra bande, priva di regole. Oggi, il governo del Pan, per quanto valido, non può contare su istituzioni solide, e si dimostra incapace di qualsiasi riforma. Molti si dicono convinti che, alle prossime elezioni, tra nove mesi, il Pri tornerà al governo, perché in grado di scendere a patti con in narcos. Sarebbe una grande umiliazione per il popolo messicano, la dimostrazione della sua incapacità di cambiare lo stato delle cose. Secondo Ugo Pipitone, sono due i problemi centrali della realtà messicana: la politica che non dà segno di volersi assumere una responsabilità collettiva, e la corruzione della polizia e degli apparati statali giudiziari. Se il Prt dovesse tornare al potere, la collusione tra narcos e istituzioni si cristallizzerebbe.
Partendo dall’intervento di Ugo Pipitone, Diego Gambetta ha offerto la sua interpretazione del panorama criminale messicano, sottolineando come il vero problema sia l’assenza di un movimento mafioso. Come spiegarlo? La mafia è un elemento regolatore all’interno di una società dove una moltitudine soggetti cerca di accaparrarsi una risorsa, legale o illegale che sia. Nel panorama messicano, la crescita della violenza dipende dunque dal fatto che il mercato di una “risorsa” così remunerativa come la cocaina non disponga di un elemento regolatore, capace di distribuire in modo controllato i profitti ai vari attori del mercato. Senza un’entità in grado di porre delle regole e di farle rispettare, perché riconosciuta dalla comunità, la violenza indiscriminata diventa il modo per ottenere il controllo. Gambetta presenta delle statistiche per dimostrare questo principio. L’Italia è un paese poco violento: il tasso di omicidi in Sicilia due anni fa era di 2,1 ogni 100.000 abitanti, circa la metà del tasso di omicidi in Scozia. Nel periodo delle guerre di mafia ha raggiunto il tasso di 4 ogni 100.000 abitanti, mentre negli Stati Uniti si aggira intorno all'8. Dall’Ottocento in poi, in Sicilia l’uso della violenza è iniziato a scendere, perché il controllo del mercato veniva affidato a un attore terzo che deteneva il primato della violenza, riuscendo a regolare i rapporti economici. Il rispetto di questo soggetto terzo, la mafia, è dato dalla reputazione, che riduce l’effettivo ricorso alla violenza. La mafia è riuscita a creare nel tempo questa “reputazione”, un valore che ormai appartiene non più solo a un’entità fisica – all’individuo mafioso –, ma anche a un’entità meta-fisica, la Mafia, che resiste al tempo e alle generazioni e che gode di continuità.
Tale “reputazione” o capitale, risiede nelle aspettative di tutti coloro che credono sia vera. Per questo la mafia resiste nonostante i mafiosi vengano a mancare: la reputazione e le aspettative creano un capitale di intimidazione di cui può disporre chiunque appartenga a quella entità, come un’azienda che detiene un diritto di proprietà su un bene, a dispetto del ricambio degli amministratori delegati. Questo carattere “metafisico” rende la mafia diversa da tutti gli altri regolatori del mercato illegale (il mercato della droga, l’immigrazione clandestina, ecc.), perché gode di una reputazione che incute terrore, e, dunque, del potere di governare sugli altri. La mafia è detentrice di un marchio che solo gli affiliati hanno licenza di usare. E che continua a esistere solo se c’è qualcuno capace di convincerci di essere detentore di quel marchio: nel processo di creazione del fenomeno mafioso, le persone giocano un ruolo fondamentale, e con esse la fiducia, intesa come aspettativa.
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