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Innovazione e ricerca, chi taglia e chi spende

10/02/2010

India e Cina scommettono su ricerca e high tech, mentre gli Stati Uniti faticano ad uscire dalla crisi e tagliano là dove un tempo si misurava il loro primato

“…la questione per l’Unione Europea e per gli Stati Uniti nel nuovo decennio non sarà più quella se dobbiamo collaborare con la Cina (nel campo scientifico), ma semmai cosa possiamo mettere sul tavolo per assicurarci che la Cina voglia collaborare con noi…” J. Adams
“…il pesce piccolo sta cominciando a mangiare quello grande…” J. Kynge
“…quando nel 2005 ho cominciato ad insegnare nel programma di engineering management alla Duke University, quasi tutti gli studenti cinesi del corso mi dicevano che pensavano di restare negli Stati Uniti dopo la laurea…oggi, quando parlo ai miei studenti cinesi, la gran parte di essi programmano di tornare a casa…” V. Wadhwa, The editors, 2010

Premessa

Sullo sviluppo economico della Cina e dell’ India sono largamente diffusi diversi luoghi comuni, o almeno delle mezze verità, anche in molta della pubblicistica più attenta. Per quanto riguarda, ad esempio, il primo paese, i temi sui quali è facile leggere giudizi sommari vanno dal ruolo del risparmio privato nel processo di sviluppo, a quello del peso reale delle esportazioni sullo stesso processo, a quello ancora della presunta capacità produttiva in eccesso del sistema industriale, al peso reale del settore dei servizi sul Pil, alla misura, infine; del livello tecnologico del paese. Su tutti questi punti gran parte delle analisi e dei ragionamenti che sono moneta corrente in questi anni non riescono, a nostro parere, a cogliere completamente una situazione che appare, tra l’altro, molto complessa. Si potrebbe dedicare a queste questioni una lunga analisi, ma in questa sede ci limiteremo ad esaminare soltanto l’ultimo tema in elenco, prendendo in conto su di esso anche la situazione indiana.
Dopo la seconda guerra mondiale, l’innovazione tecnologica ed organizzativa veniva originata la gran parte delle volte negli Stati Uniti e i risultanti prodotti erano successivamente distribuiti nel resto del mondo, seguendo peraltro un modello gerarchico temporalmente preciso. Almeno chi ha una certa età o ha studiato specificamente la questione, ricorderà in proposito, ad esempio, la teoria del ciclo di vita del prodotto di R. Vernon, che fotografava con precisione tale situazione. In seguito, a partire grosso modo dagli anni Settanta, anche l’Europa e il Giappone sono diventati delle fonti importanti di innovazione. Adesso, il movimento deve ormai includere anche la Cina e l’India. Per di più, la tendenza sembra ora andare in un’ulteriore direzione: l’innovazione comincia ad essere originata prevalentemente in Cina ed in India, per poi da lì dirigersi verso i paesi ricchi (Govindarijan, in Leahy, 2010).
A spingere in avanti tale processo, da una parte il grande peso dei laureati in materie tecniche esistenti nei due paesi, persone che chiedono soltanto di essere valorizzate, dall’altra le dimensioni crescenti e già molto importanti dei loro mercati interni, infine l’impegno sempre più forte in termini di risorse finanziarie sia dell’India che della Cina nel settore. Così, circa il 55% degli investimenti in ricerca e sviluppo delle imprese multinazionali andranno nei prossimi anni verso i due paesi, mentre per l’Italia non sembra essere prevista alcuna nuova iniziativa rilevante, anzi, come appare dalle notizie recenti, diversi centri di innovazione stranieri già esistenti stanno da noi chiudendo i battenti.
La Cina
A proposito del risveglio scientifico e tecnologico del paese, in Occidente era presente, sino a non molto tempo fa, un’opinione diffusa che, pur riconoscendo i grandi passi in avanti fatti in materia nell’ultimo periodo, stimava che la Cina fosse destinata a restare una potenza di medio livello tecnologico. Gli argomenti avanzati in proposito erano più d’uno. Intanto, quello secondo il quale l’abbondanza di forza lavoro a buon mercato avrebbe mantenuta bassa la pressione ad aumentare il know-how tecnologico, perché impiegare forza lavoro costava meno che introdurre nuovi macchinari; si teneva, inoltre, in considerazione la scarsa tutela della proprietà intellettuale nel paese, fattore che avrebbe dato scarsi incentivi agli scienziati per innovare, mentre si valutava infine anche il peso dell’esistenza di un grande gap tra la spesa per R&S in Cina e quella nei paesi sviluppati. In realtà, oggi, non sono più in molti a sostenere una simile tesi. Semmai, a leggere i titoli anche della pubblicistica specializzata, si ha l’impressione che il paese stia per diventare quello leader nel mondo a livello scientifico e tecnologico.
Già nel gennaio 2006 il presidente Hu Jintao dichiarava la volontà di passare da un’economia basata sulla produzione ad una basata sull’innovazione. E, in effetti, il nuovo piano di lungo termine per lo sviluppo della scienza e della tecnologia, varato nel 2006 e che copre un orizzonte che va sino al 2020, mira sostanzialmente a tale obiettivo. La spesa per R&S come percentuale sul Pil sta così crescendo rapidamente; passando dallo 0,7% del 1991 all’1,34 % del 2005 (cifre Ocse) e sviluppandosi ad un tasso annuale del 18%. Si può stimare che essa viaggi ormai intorno a poco meno del 2% sul pil, mentre nel 2020 il paese dovrebbe raggiungere il livello di almeno il 2,5%. Attualmente, la Cina è al terzo posto per l’ammontare complessivo della spesa nel settore, dopo Stati Uniti e Giappone. Va anche sottolineato il parallelo e l'ancora più sostenuto sviluppo delle Università. Nove anni fa la popolazione studentesca nel campo dell’educazione superiore raggiungeva i 5 milioni di unità, mentre oggi essa tocca i 27 milioni, il numero di gran lunga più alto tra tutti i paesi del mondo.
Un punto abbastanza controverso, sul quale il dibattito nei circoli del potere cinese dura da qualche anno, è quello relativo alla questione di quale debba essere il ruolo della collaborazione internazionale nel processo. A tale proposito, emerge una corrente più nazionalista ed un’altra, maggioritaria, più propensa, come già in passato, a rilevanti apporti stranieri. Un obiettivo ufficiale è, comunque, quello di ridurre la dipendenza del paese da tecnologie importate sino ad un massimo del 30% del totale per il 2020.
Le imprese multinazionali estere hanno contribuito all’aumento dei livelli tecnologici del paese in misura rilevante. Un numero crescente di tali aziende ha impiantato e continua ad impiantare in Cina dei centri di ricerca e sviluppo, anche in relazione ad un sistema di incentivi governativi, con priorità data ad alcune aree produttive e ad alcuni settori. La Cina ha accolto il primo centro di ricerca straniero nel 1993. Già alla fine del 2005 ne contava ormai 700. Questo, nell’ambito di un più generale rilevante processo di delocalizzazione delle attività di R&S delle multinazionali verso i paesi emergenti, o meglio, verso alcuni di essi. Le conseguenze sul tessuto imprenditoriale cinese di questi investimenti esteri sono più di diffusione indiretta che diretta, principalmente attraverso tre vie: le commesse a monte e a valle ottenute dalle imprese locali, la formazione dei quadri e dei tecnici locali nelle imprese multinazionali e, infine, l’effetto d’esempio e di concorrenza con le imprese cinesi.
Secondo una ricerca svolta di recente per il Financial Times dalla Thomson Reuters (Cookson, 2010), che ha analizzato i lavori scientifici pubblicati in più di 10.000 riviste di tutto il mondo negli ultimi 30 anni, la Cina è ormai il secondo produttore di sapere scientifico e potrebbe superare gli Stati Uniti entro il 2020 se continuerà a sviluppare le sue attività nel settore ai ritmi attuali. Tra l’altro, il paese ha registrato il più elevato tasso di sviluppo mondiale nelle attività di ricerca scientifica negli ultimi trenta anni, aumentando la sua produzione nel periodo di 64 volte. La Cina appare soprattutto forte in alcuni settori, ma sta diversificando abbastanza rapidamente il suo impegno.
Sarebbero diversi i fattori che stanno spingendo in avanti il fenomeno: intanto i grandi investimenti pubblici nel settore, poi il flusso organizzato delle conoscenze dalla scienza di base alle applicazioni commerciali, infine il metodo molto efficiente con cui il paese cerca di utilizzare l’esperienza dei cinesi della diaspora riuscendo, tra l’altro, a reclutarlne in grande numero (Cookson, 2010).
Per quanto riguarda la qualità dello sforzo, oltre che la quantità, anch’essa, partendo da una base non eccelsa, sta migliorando: la crescente collaborazione con i ricercatori di altri paesi lo testimonia. Al di là dei rilevanti rapporti in essere oggi con gli Stati Uniti e l’Europa, si intravede l’emergere di un network Asia-Pacifico, che può anche tendere ad appoggiarsi sempre di meno, con il tempo, alle istituzioni europee e statunitensi, che hanno sino ad oggi guidato il mondo della scienza.
Non mancano comunque i problemi, che sembrano andare da una forte burocratizzazione e gerarchizzazione del settore scientifico del paese, con una stretto controllo statale, alle diffuse frodi accademiche in un ambiente in cui l’ottenimento di risultati tangibili appare vitale per ottenere onori ed avanzamenti di carriera, alla debolezza relativa, in certi settori, della ricerca di base rispetto a quella applicata (The editors, 2010).
L’India
Anche questo Paese sta facendo molto nel settore dell’innovazione. Intanto, l’India produce oggi circa 600.000 ingegneri all’anno e, seppure il livello della spesa per ricerca e sviluppo è ancora abbastanza basso - siamo intorno allo 0,7% nel 2007 (Leahy,2010), esso sta crescendo in maniera rilevante.
L’India sembra tra l’altro specializzarsi, ancor più della Cina, su prodotti e servizi a elevato livello tecnologico, ma a basso costo, adatti al mercato locale - si parla a questo proposito di frugal engineering -, ma che poi tendono ad essere esportati verso i paesi sviluppati, oltre che verso quelli del terzo mondo. Una serie di settori industriali sono in corso di ristrutturazione proprio prendendo in considerazione questo modello il quale, non solo comporta costi di produzione molto bassi, ma assicura anche enormi volumi produttivi, certamente bassi margini ma, comunque, un'elevata generazione di flussi di cassa (Leahy, 2010).
La ricerca indiana sta scalando i gradini, tra l’altro, in settori quali le biotecnologie, i farmaci, il software, l’elettronica, oltre all’auto e all’aerospazio. Oggi il paese controlla all’incirca il 50% del mercato mondiale relativo all’outsourcing nei settori dell’IT e dei business service, fatturando 60 miliardi di dollari in tali attività, contro soltanto i 4 miliardi nel 1998 (Lemont, 2010). Il comparto si sta espandendo, anche con insediamenti produttivi, in Cina, Stati Uniti, Filippine e ha una posizione di eccellenza tecnologica difficile da eguagliare.
Ad oggi, più di duecento multinazionali straniere possiedono centri di ricerca e sviluppo in India. All’inizio, queste unità erano semplicemente di supporto ai centri di ricerca collocati lontano, presso la sede centrale delle imprese. Ma in anni recenti esse sono via via incaricate dello sviluppo di prodotti interamente nuovi, che saranno poi distribuiti anche sul mercato mondiale. Così, il numero dei brevetti concessi negli Stati Uniti per innovazioni sviluppate in India dalle unità di ricerca delle società straniere è passato da 50 all’anno prima del 2000 a 300 nel 2007, mentre il numero dei brevetti richiesti in India dalle imprese, nazionali ed estere, è passato da circa 10.600 nel periodo 2001-2002 a 35.000 nel 2007-2008 (Leahy, 2010).
Conclusioni
Quello della crescita rapida dell’innovazione scientifica e tecnologica nei due paesi appare un fenomeno che può suscitare meraviglia anche all’interno di un tendenza allo sviluppo dell’economia che vi appare già molto forte, sia pure considerando le tante contraddizioni e i tanti problemi sociali che persistono.
Il paragone con la situazione italiana appare a tal proposito certamente deprimente, per noi. Assistiamo nel nostro paese a una serie di continui tagli ai livelli di spesa nella ricerca e nell’istruzione, primaria, secondaria ed universitaria mentre, senza nemmeno allontanarci troppo, apprendiamo in queste settimane che in Francia è stata avviata una grande emissione obbligazionaria pubblica, dell’importo di 35 miliardi di euro, che sarà interamente dedicata proprio ad aumentare i finanziamenti a questi settori.
Il problema del come collegarsi meglio, a livello europeo, ai processi che si vanno registrando nei due paesi asiatici, ma anche, in misura sempre più importante, in Brasile, appare in ogni caso un argomento degno di approfondite riflessioni e di rapide decisioni.
Intanto negli Stati Uniti l’amministrazione Obama ha presentato il budget per il prossimo anno finanziario che cancella gli stanziamenti per lo sbarco sulla luna nel 2020, mentre Cina ed India stanno invece portando avanti con decisione i loro piani per lo spazio. Tra l’altro, i programmi della Nasa hanno sempre prodotto in passato rilevanti e benefiche ricadute tecnologiche verso altri settori. Quello di Obama potrebbe essere un segno importante, anche a livello simbolico, del tendenziale declino del paese (Caldwell, 2010).

Testi citati nell’articolo

- Adams J., Get ready for China’s domination of science, New Scientist, n. 2472, 6 gennaio 2010
- Caldwell C., One step back for mankind, www.ft.com, 5 febbraio 2010
- Cookson C., China leads world in growth of scientific research, The Financial Times, 26 gennaio 2006
- Kynge J., China outsourcing boomerangs on brands, www.ft.com, 4 dicembre 2009
- Lamont J., India mines riches as west’s back office, The Financial Times, 30 dicembre 209
- Leahy J., India: a nation develops, www.ft.com, 16 gennaio 2010
- The editors (a cura di), Will China achieve science supremacy?, www.nytimes.com, 18 gennaio 2010

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