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La crisi europea e la dinamica dei salari

02/11/2011

Nei paesi della periferia europea si pensa di uscire dalla crisi riducendo salari e tutele del lavoro e con sistemi di contrattazione a livello d’impresa. Non è questo che può rimettere in ordine i conti dell’economia, servono politiche di rilancio della domanda e istituzioni di contrattazione collettiva.

L’analisi di quanto è accaduto all’economia dell’Unione monetaria europea, sia prima che dopo la crisi, evidenzia quattro conclusioni sul ruolo della politica salariale nell’Unione:

  1. Un’appropriata determinazione dei salari è un fattore chiave per il buon funzionamento dell’Unione monetaria.
  2. La determinazione dei salari non rappresenta tuttavia la soluzione per tutti i problemi della zona euro.
  3. L’elevata decentralizzazione dei sistemi contrattuali non è la via da seguire per l’Europa.
  4. Per ottenere una crescita sostenibile, equilibrata ed inclusiva, l’Europa ha bisogno di una combinazione di politiche economiche fondate sulla cooperazione, con una politica della domanda coordinata ed efficace e con istituzioni di contrattazione collettiva.

     

Gli squilibri macroeconomici e i salari

La politica dei salari ha avuto un ruolo chiave nel dibattito sulla performance dell’Unione economica e monetaria, sia prima che durante la crisi. Politici e commentatori conservatori sostengono che l’“eccessiva” crescita dei salari nei paesi euro maggiormente colpiti dalla crisi – li chiamerò GIIPS: Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna – è stata una delle cause principali dei loro attuali problemi economici. La crescita troppo rapida dei salari – così si dice 1 – avrebbe danneggiato la competitività, rendendo impossibile l’uscita dalla crisi e il servizio del debito pubblico che a sua volta ne ha reso necessario il “salvataggio” da parte di quei paesi che hanno seguito politiche salariali “prudenti”. La soluzione, considerata evidente, sarebbe il taglio dei salari nei paesi GIIPS. Il modo appropriato per ottenerlo sarebbe la decentralizzazione della contrattazione salariale, in modo che i salari siano stabiliti a un livello vicino a quello di mercato, e quindi sensibile alle valutazioni di competitività.

Se confrontiamo l’evoluzione dei costi del lavoro per unità di prodotto (Clup) e gli squilibri dei conti correnti nell’area euro dal 1999 a oggi, la correlazione è evidente 2. I paesi con una crescita del Clup sopra la media hanno visto i loro conti correnti andare (ulteriormente) in deficit. I paesi con una crescita del Clup sotto la media hanno invece visto i loro conti correnti muoversi (ulteriormente) in surplus. Gli squilibri di conto corrente, se ampi e prolungati, sono estremamente destabilizzanti in un’Unione monetaria, come ha mostrato la crisi attuale.

Quest’evidenza è alla base della mia prima conclusione: un’appropriata determinazione dei salari è importante per il buon funzionamento dell’Unione monetaria. Ma questo in nessun modo porta a sostenere le politiche di taglio dei salari imposte ai paesi della periferia dell’Europa. E certamente non ci dice nulla riguardo i meriti dei vari sistemi di contrattazione collettiva.

Innanzi tutto, i paesi dell’Unione monetaria hanno registrato divergenze simmetriche dall’obiettivo di crescita annua del 2% del Clup, valore che dovrebbe essere di riferimento. Questo implica che una dinamica prolungata del Clup sotto il 2% è indesiderabile tanto quanto una crescita al di sopra di tale livello. Nel secondo caso si causa inflazione, nel primo deflazione. Il secondo caso va di pari passo con un deficit dei conti correnti. Nel primo caso invece, l’aumento dei salari sotto il livello di produttività migliora la competitività ed aumenta le esportazioni nette. Intuitivamente si tratta di una situazione positiva e molti esperti e politici la vedono in questo modo. Ma all’interno dei confini di un’unione monetaria questa situazione non può rappresentare una soluzione perseguibile da tutti i membri: è logicamente impossibile, le esportazioni nette di un paese sono le importazioni nette di un altro 3. Di conseguenza, le politiche di aggiustamento non dovrebbero venire da una parte sola, ovvero dai paesi in deficit, ma piuttosto dalla convergenza delle politiche dei paesi su entrambi i lati della distribuzione.

È importante inoltre evidenziare che la relazione tra crescita del Clup e conto corrente non è necessariamente una relazione di causalità. È perfettamente plausibile è che un terzo fattore abbia spinto contemporaneamente Clup e conti correnti in direzioni opposte, producendo questa correlazione. In sostanza, quello che è successo negli anni precedenti alla crisi è che i paesi periferici dell’Unione si sono trovati in un circolo vizioso, e i paesi del “centro” in un circolo virtuoso 4. Con l’Unione monetaria i paesi che avevano alti tassi di inflazione e alti tassi di interesse hanno beneficiato della brusca caduta del costo del credito, producendo – apparentemente – un circolo virtuoso: le economie con crescita rapida e alta inflazione hanno goduto di tassi di interesse reali relativamente bassi (il tasso comune della Banca Centrale Europea meno il loro tasso di inflazione) mentre i paesi con crescita lenta e bassa inflazione si sono trovati in un circolo vizioso (con tassi di interesse reali relativamente alti). I prezzi dei beni (in particolare della casa) sono cresciuti rapidamente nei paesi periferici grazie ai bassi tassi di interesse, creando effetti positivi di fiducia che hanno stimolato spese e prestiti. Si è registrata una crescita considerevole dell’occupazione e una caduta della disoccupazione; al contrario il mercato del lavoro tedesco nel periodo precedente alla crisi dell’Unione monetaria ha registrato performance estremamente deboli. Questa situazione ha alimentato la spirale salari nominali-prezzi – con salari e prezzi che si rincorrono verso l’alto – in alcuni paesi più velocemente che in altri. Nei paesi in deficit la rapida crescita dei prezzi e la forte domanda interna hanno diminuito le esportazioni ed alimentato le importazioni. Il contrario si è invece verificato in quei paesi che registravano un surplus. In Germania la domanda interna è rimasta essenzialmente stagnante, come del resto i salari reali – e la crescita economica è stata possibile solo grazie alle elevate esportazioni.

In conclusione la politica salariale è solamente uno dei fattori responsabili degli squilibri e, considerate le dinamiche dell’economia e i fallimenti del regime di governance economica, essa non potrebbe – nè ora, nè in futuro – risolvere da sola i problemi di competitività e di squilibrio dei conti correnti.

Le implicazioni per la politica salariale

L’analisi precedente suggerisce che la politica salariale può contribuire a eliminare o a correggere alcuni squilibri, ma soltanto all’interno di un quadro che contribuisca a tale scopo. Questa è la mia seconda conclusione: la determinazione dei salari non rappresenta la soluzione a tutti i problemi della zona euro. Tale quadro deve avere due elementi. Occorre in primo luogo un sistema di governance che contribuisca alla crescita equilibrata della domanda aggregata nell’Unione monetaria. Le politiche fiscali nazionali e le politiche di regolamentazione, in particolare nel settore finanziario, devono essere adottate in modo simmetrico, per mantenere le economie degli stati membri vicine ai rispettivi tassi di crescita potenziali che non alimentino l’inflazione; in modo simmetrico significa raffreddare la domanda nelle fasi di crescita e stimolarla in quelle di ristagno. Tutto questo richiede regole adeguate che incoraggino e, dove necessario, impongano tali comportamenti. Occorrerà poi promuovere strutture di contrattazione collettiva che traducano gli obiettivi macroeconomici in risultati per la dinamica dei salari. Come possiamo definire questi risultati?

Si potrebbe proporre questa “Regola aurea del salario”, da rispettare nell’evoluzione delle politiche macroeconomiche dell’Unione monetaria (si veda Watt 2007, 2010): partendo da una posizione in cui gli stati membri siano in “equilibrio”, la crescita dei salari nominali in ogni paese dovrebbe essere uguale al tasso di crescita della produttività di medio termine, più il tasso di inflazione indicato come obiettivo dalla Banca centrale.

In questo modo il salario reale crescerebbe in linea con la produttività, la quota dei salari sul reddito nazionale rimarrebbe costante e la dinamica dell’inflazione resterebbe vicina agli obiettivi di stabilità dei prezzi. Data questa condizione. la Banca centrale sarebbe obbligata, per il suo mandato secondario, a sostenere crescita e occupazione. A questo punto la regola aurea del salario può essere vista anche come condizione per raggiungere e mantenere il pieno impiego.

Partendo da una posizione di “disequilibrio” – come la situazione attuale – ci dovrebbe essere un “bonus” che aumenti i salari dei paesi con un surplus di conto corrente e più competitivi della media europea, e una riduzione dei salari per i paesi con deficit esterni e bassa competitività.

Infine, qual è il tipo di contrattazione collettiva appropriato per raggiungerequesti risultati? I sistemi di contrattazione collettiva sono estremamente complessi e non si prestano a classificazioni semplicistiche. Non è mia intenzione discutere qui la letteratura al riguardo 5 per mostrare quanto sia unilaterale l’approccio favorito dalle istituzioni europee, che basano le proprie raccomandazioni su pregiudizi o su concezioni errate di come funziona la determinazione dei salari.

Se la contrattazione salariale deve tener conto delle condizioni macroeconomiche, in particolare degli squilibri con l’estero, dev’esserci un certo grado di coordinamento e centralizzazione che sia di riferimento a coloro che devono fissare i salari. Un paese con decentralizzazione totale della contrattazione dei salari può solamente contare sulle politiche fiscali nazionali per controllare la domanda aggregata in modo che il “giusto” livello di salario sia il risultato di un ”adeguato” livello di disoccupazione, sulla base delle relazioni della curva di Phillips. Tuttavia sappiamo che la politica fiscale nazionale non è in grado di assicurare questo risultato. Per queste ragioni arrivo alla mia terza conclusione: un’elevata decentralizzazione dei sistemi contrattuali per la determinazione dei salari non è la via da seguire per l’Europa.

Che cosa serve all’ Europa

Se l’analisi precedente è corretta, si giunge quasi automaticamente alla mia quarta conclusione. Se l’Europa vuole raggiungere una crescita sostenibile, equilibrata e inclusiva, ha bisogno di un insieme di politiche economiche fondate sulla cooperazione, capaci di realizzare una politica della domanda coordinata ed efficace, con istituzioni di contrattazione collettiva.

L’area euro, in particolare, ha bisogno di una riforma della governance economica che comprenda:

  • un mix di politiche fiscali e monetarie che assicurino una crescita nominale del Pil stabile e equilibrata, sia a livello nazionale che a livello aggregato;
  • una sorveglianza simmetrica degli squilibri macroeconomici, attenta al contesto in cui si possono sviluppare;
  • una riforma del mercato dei prodotti per ridurre il potere di mercato delle imprese;
  • il sostegno alle istituzioni di contrattazione collettiva in modo da indirizzare la crescita dei salari in accordo con la “Regola aurea del salario”, rispettando il ruolo storico delle istituzioni nazionali e incoraggiando l’aggiustamento di quei sistemi che, in base alle evidenze disponibili, hanno un funzionamento inefficace;
  • il sostegno agli sforzi dei sindacati per un coordinamento delle politiche salariali a livello europeo e un attivo impegno dei sindacati europei in questo campo;
  • un rafforzamento del dialogo macroeconomico a livello europeo e nazionale per contribuire a monitorare e coordinare la dinamica della domanda e quella dei salari, in particolare nei casi di shock (Koll 2011);

Questo è quello di cui ha bisogno l’Europa. Non di un attacco alla contrattazione salariale e ai suoi protagonisti come avviene oggi, in particolare nei paesi che registrano un deficit, aggravato dagli effetti delle politiche di austerità. Questo approccio non funziona. Le politiche devono andare verso modelli cooperativi che realizzino l’insieme di interventi qui proposto.

Andrew Watt interverrà al seminario “L’Europa e la crisi” organizzato dall’Università di Urbino alla Facoltà di Economia, Via Saffi 42, giovedi 10 novembre 2011, ore 9-12.

Bibliografia

Allsopp, C. and A. Watt (2003) 'Trouble with EMU: Fiscal policy and its implications for inter-country adjustment and the wage-bargaining process', Transfer, European Review of Labour and Research, 10 (4), Winter 2003

De Grauwe (2011) The Governance of a Fragile Eurozone, CEPS Working Document, No. 346, May 2011, www.ceps.eu/ceps/download/5523/

Koll, W. and V. Hallwirth (2009) ‘Strengthening the Macroeconomic Dialogue to tackle economic imbalances within Europe’, A. Watt and A. Botsch (eds.) After the crisis: towards a sustainable growth model, ETUI, http://www.etui.org/content/download/2193/24269/file/FINAL-ETU032_LivretCrise_Int_BAT-31.pdf/

Theodoropoulou, S. and A. Watt (2011) ‘Macroeconomic developments and policy issues, ETUI (ed) Benchmarking Working Europe 2011, ETUI: Brussels 6-19, http://www.etui.org/content/download/2114/23501/file/Chap+1.pdf/

Traxler, F., S. Blaschke, and B. Kittel (2001) National labour relations in internationalized markets. A comparative study of institutions, change and performance, Oxford University Press

Watt, A (2007) 'The role of wage-setting in a growth strategy for Europe', P. Arestis, M. Baddeley and J. McCombie (eds.) Economic growth. New directions in theory and policy, Edward Elgar: 178-199

Watt, A (2010) ‘From End-of-Pipe Solutions towards a Golden Wage Rule to Prevent and Cure Imbalances in the Euro Area’, December 2010, http://www.social-europe.eu/2010/12/from-end-of-pipe-solutions-towards-a-golden-wage-rule-to-prevent-and-cure-imbalances-in-the-euro-area/

Watt, A. (2011) ‘Economic governance in Europe in the wake of the crisis: reform proposals and their alternatives’ Transfer Review of Research and Labour, 17(2): 255-261

 

1 Per una esposizione Alan Greenspan, Financial Times 7 Ottobre 2011 http://blogs.ft.com/the-a-list/2011/10/06/europe%E2%80%99s-crisis-is-all-about-the-north-south-split/

2 Il Clup, costo del lavoro per un’unità di prodotto è il totale dei costi del lavoro diviso per il valore del prodotto realizzato. Il tasso di variazione del Clup è dato dal ritmo di crescita del salario meno il tasso di crescita della produttività (entrambi espressi sia per lavoratore che per ora lavorata). Per il rapporto con gli squilibri di conto corrente vedere http://www.etui.org/content/download/2114/23501/file/Chap+1.pdf/ p. 10

3 Non significa che i paesi che esportano debbano ridurre la loro capacità di esportare, lavorare di meno o ridurre la produttività o altre sciocchezze di questo genere. Significa che le importazioni dovrebbero aumentare di pari passo con la capacità produttività e in particolare i salari con la crescita della produttività.

4 Vedere Allsopp and Watt 2003 per una prima formulazione; più recentemente Theodoropoulou and Watt 2011.

5 Un buon punto di partenza è Traxler, Blaschke and Kittel (2001)

 

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