Home / Sezioni / globi / Bassi salari, la “regola di piombo” della Bce

facebook-link twitter-link

Newsletter

Registrati alla newsletter di sbilanciamoci.info

Sezioni

Ultimi articoli nella sezione

08/12/2015
COP21, secondo round
di Lorenzo Ciccarese
03/12/2015
Lavoro, la fotografia impietosa dell'Istat
di Marta Fana
01/12/2015
La crisi dell’università italiana
di Francesco Sinopoli
01/12/2015
Parigi, una guerra a pezzi
di Emilio Molinari
01/12/2015
Non ho l'età
di Loris Campetti
30/11/2015
La sfida del clima
di Gianni Silvestrini
30/11/2015
Il governo Renzi "salva" quattro istituti di credito
di Vincenzo Comito

Bassi salari, la “regola di piombo” della Bce

02/04/2013

La “regola di piombo” della Bce è che i salari nominali crescano meno della produttività reale del lavoro. Ciò significa svalutazioni competitive interne, meno reddito, più disuguaglianze

Ritorniamo a commentare la tesi presentata da Mario Draghi, governatore della Bce, all’ultimo Consiglio europeo del 14-15 marzo 2013, su cui ci siamo intrattenuti pochi giorni fa in merito al falso trade-off tra produttività del lavoro e flessibilità del lavoro (contrattazione sul salario e regolamentazioni del mercato del lavoro) [1].

Lo dobbiamo fare in quanto, fatte salve rare eccezioni (Andrew Watt sul Social Europe Journal [2] e Andrea Baranes su Sbilanciamoci.info [3]), pochi hanno commentato e valutato le implicazioni distributive del reddito che quelle tesi sottintendono. Come Andrew Watt ha fatto osservare nel suo secondo intervento sul Social Europe Journal (www.social-europe.eu/2013/03/more-on-wage-policy-a-la-draghi-share-and-share-alike/), la “svista” del Governatore rende esplicito il pensiero della Banca centrale europea. Comparare l’andamento delle retribuzioni nominali con quello della produttività reale del lavoro, distinguendo tra Paesi “virtuosi” e Paesi “viziosi” è più che un esercizio contabile errato. Esso esplicita un indirizzo di politica economica ben definito, quando si afferma che le retribuzioni nominali del lavoro hanno ecceduto la crescita della produttività nei Paesi viziosi, e da lì vengono i loro mali, mentre i Paesi virtuosi si son ben guardati dal fare tale errore e hanno governato la dinamica delle retribuzioni nominali, mantenendola al di sotto della produttività del lavoro. Da questo segue una ricetta politica: la cura del male sarebbe quella di spostare la determinazione delle retribuzioni a livello d’impresa, e lì far crescere i valori nominali entro la soglia massima stabilita dalla crescita della produttività reale dei lavoratori, così che questi siano pagati in linea con i loro meriti e sforzi produttivi.

Noi chiamiamo questa ricetta, la “regola di piombo” delle retribuzioni, contrapposta alla “regola d’oro” che lega il salario reale alla produttività reale. E spieghiamo perché.

1. Salari nominali e produttività reale

Partiamo dai dati Oecd (http://stats.oecd.org/Index.aspx?DatasetCode=EPL_OV#), esaminando un periodo che ha inizio 5 anni prima l’introduzione dell’euro, dal 1995 al 2011. Consideriamo i tassi di crescita delle retribuzioni nominali del lavoro in relazione a quelli della produttività del lavoro. Lo facciamo per un insieme ampio di Paesi europei (sulla base dei dati disponibili), facenti parte della Eurozona ed esterni a questa, a cui aggiungiamo alcuni Paesi di ormai antica industrializzazione, quali Stati Uniti, Giappone, Canada.

Il grafico 1 illustra, in termini più generali, il fatto stilizzato richiamato da Mario Draghi: salve rare eccezioni la dinamica del salario nominale ha ecceduto quella della produttività del lavoro, invece di stare in linea con questa. Fanno eccezione ben pochi Paesi che si collocano vicino o sotto la bisettrice: Giappone e Germania in particolare (indicati nel grafico), che comunque non brillano quanto a produttività (altri fanno meglio di questi): il Giappone evidenzia una crescita della produttività oraria sotto l’1% annuo, e la Germania sopra di poco l’1,5% annuo, inferiore ad Irlanda, Svezia, Stati Uniti e Grecia (grafico 2).

Da questo deriva l’andamento del costo nominale del lavoro per unità di prodotto (Grafico 3), che è il rapporto tra crescita delle retribuzioni nominali e produttività del lavoro. I Paesi virtuosi sono pochi: ai due indicati in precedenza, Giappone e Germania, si aggiungono Austria ed anche Svezia, che è fuori dall’Euro. Mentre all’opposto si distinguono i Paesi molto “viziosi”: Grecia (di cui molto sappiamo) e Norvegia (che ricordiamo sta fuori dall’Unione Europea oltre che dall’Euro).

In mezzo ci sono, con gradi diversi di “vizio”, molti Paesi, dalla Francia al Portogallo. Alcuni sono nell’Euro, altri sono fuori, altri ancora fuori dall’Europa. Quelli della zona euro sono particolarmente viziosi in quanto, benché la loro competitività non la possano più giocare sulla svalutazione della moneta, rimangono fuori dalla “regola di piombo”, per cui perdono progressivamente competitività: Spagna, Irlanda, Italia, Olanda, Belgio, oltre a Portogallo e Francia. L’Italia sta nel mezzo, tra i “viziosi”, penalizzata dalla produttività (ultima nella lista) più che dalle retribuzioni nominali (sotto la media). Sono soprattutto questi i Paesi che si devono aggiustare, per rientrare entro la “regola di piombo”.

Graf.1 - Salario nominale orario (w) e produttività del lavoro (π), tassi medi annuali di crescita, 1995-2011

Graf.2 - Produttività del lavoro (π) e salario nominale orario (w), tassi medi annuali di crescita, 1995-2011

Graf.3 – Costo nominale unitario del lavoro, tassi medi annuali di crescita, 1995-2011

2. Salari reali e produttività reale

Se guardiamo alla “regola d’oro” abbiamo una differente rappresentazione. La regola d’oro suggerisce che siano le retribuzioni reali del lavoro a dover tenere il passo della produttività fisica del lavoro. In tal caso le quote distributive rimarrebbero invariate. Risultato questo difficile da realizzare, in economia aperta, in particolare sotto i vincoli della moneta unica che non consente svalutazioni monetarie tra Paesi aderenti. Il grafico 4 illustra la situazione per gli stessi Paesi nello stesso periodo. Fatte rare eccezioni (Norvegia, Gran Bretagna, Danimarca), tutti i Paesi passano da sopra a sotto la bisettrice, indicando che il salario reale è cresciuto meno della produttività del lavoro.

Questo non allineamento del salario reale alla produttività è ciò che conduce al cambiamento della quota distributiva del lavoro sul reddito. Il grafico 5 mostra chi perde e chi guadagna. Tutti i Paesi perdono (o meglio i lavoratori di tutti i Paesi), fatta eccezione per la Norvegia che, fuori dall’Euro e fuori dall’Unione Europea, si può permettere salari nominali che crescono ben più della produttività, ma anche salari reali che crescono ben più della produttività, con una dinamica dei prezzi in linea con quella degli altri paesi (2% su base annua, non molto diverso dall’1,9% indicato dalla Bce per i Paesi dell’area euro). Si noti che peggio del Giappone (caratterizzato da dinamica negativa delle retribuzioni) fa solo la Germania, prima tra i Paesi dell’Eurozona ad evidenziare una dinamica della quota distributiva a sfavore del lavoro, con un gap di più di 1 punto percentuale su base annua tra retribuzioni reali e produttività, che porta ad una significativa diminuzione della quota del lavoro sul reddito. Si noti anche la Francia che da Paese “vizioso” con salari nominali in ampio eccesso rispetto alla produttività, in termini reali evidenzia un gap distributivo nullo. Questo è lo scenario effettivo nel periodo 1995-2011.

Graf.4 - Salario reale orario (w/p) e produttività del lavoro (π), tassi medi annuali di crescita, 1995-2011

Graf.5 – Gap tra crescita del salario reale orario e produttività del lavoro, tassi medi annuali, 1995-2011: scenario effettivo

3. Salari reali e produttività reale secondo la “regola di piombo”: un esercizio

Ma torniamo ora alla “regola di piombo” richiesta dalla Bce. E chiediamoci, con valore di semplice esercizio ex post, quale sarebbe stato il gap tra salario reale e produttività se tutti i Paesi avessero seguito la ricetta della Bce, di far crescere le retribuzioni nominali in linea con la crescita della produttività reale di ciascun Paese. Il grafico 6 fornisce la risposta. Solo il Giappone si sarebbe salvato dalla “regola di piombo”, quel Giappone che evidenzia una crescita molto bassa della produttività nel periodo, ed un tasso di inflazione pari a zero. Per tutti gli altri Paesi il gap tra retribuzioni reali e produttività si sarebbe allargato (in proporzione della inflazione interna), determinando un crollo generalizzato della quota del lavoro sul reddito. Come dire, una svalutazione competitiva interna per la quale tutti (i lavoratori) ci avrebbero perso, alcuni più di altri, ma nel complesso penalizzando il lavoro ovunque, a favore del capitale. Chiamiamo questo lo scenario di svalutazione del lavoro della “regola di piombo” Bce.

A questo esercizio si potrebbe obiettare che sarebbe proprio la dinamica dei salari frenata dalla “regola di piombo” a consentire di ridurre la crescita dei prezzi e quindi l’inflazione, spingendo così i salari stessi a recuperare potere d’acquisto. Osservazione corretta, se solo si aggiungesse che si dovrebbero avere mercati concorrenziali affinché la frenata salariale si traducesse in diminuzione dei prezzi, e non in aumento dei margini di profitto; ma è proprio ciò che non prevede il modello teorico di riferimento di determinazione dei salari e dei prezzi in concorrenza imperfetta, che indica come tale meccanismo di riequilibrio non sia affatto scontato. In secondo luogo, non dimentichiamo che le condizioni di domanda di beni sono pure rilevanti, per cui essendo i salari anche una delle componenti cardine che spiegano la domanda interna, una loro frenata se non contrazione, ovvero la loro scarsa dinamica, pone un vincolo alla stessa crescita della produttività che non è affatto un parametro tecnico, ma dipende da quanto il reddito reale cresce rispetto al volume di occupazione [4]. Non rimarrebbe allora che affidarsi alla componente estera della domanda, se non fosse che qui il rischio è che si prospetti un gioco a somma zero tra le politiche di svalutazione competitiva dei salari. In altri termini, il rischio è che la “regola di piombo” della Bce freni così tanto i salari da avere effetti negativi sulla domanda interna, e quindi sulla produttività stessa, alimentando quel circolo vizioso al ribasso tra salari e produttività che è un effetto collaterale della regola stessa. Una sorta di cura peggiore del male.

Graf.6 – Gap tra crescita del salario reale orario e produttività del lavoro, se i salari nominali fossero cresciuti in proporzione al tasso di crescita della produttività, tassi medi annuali, 1995-2011: scenario ipotetico regola Bce

In verità, l’adozione della “regola di piombo”, se confrontata con lo scenario effettivo, non rende i Paesi (ed i lavoratori) tutti ugualmente colpiti dalla adozione di tale regola Bce. Infatti, se confrontiamo gli scostamenti dei gap tra salari reali e produttività nei due scenari, quello effettivo e quello ipotetico “regola di piombo” Bce (Grafico 7), vediamo senza sorprenderci che solo la Germania si distingue da tutti gli altri, evidenziando uno scostamento minimo tra i due gap, effettivo ed ipotetico. In altri termini, potremmo dire che la Germania, unico tra i Paesi esaminati, ed unico tra i Paesi della zona euro, ha già adottato la “regola di piombo” della Bce, conseguendo il risultato che gli altri Paesi devono invece conseguire. Potremmo anche pensare che la regola di piombo della Bce è concepita ex post come “regola germanica” della svalutazione del lavoro.

Facciamo anche osservare che essa non sembra basarsi più di tanto su una incredibile crescita della produttività del lavoro, che dal 1995 non differisce poi più di tanto da quella della media dei Paesi considerati (1,62 vs. 1,40), quanto su un contenimento delle retribuzioni nominali (1,92 vs. 3,25) e soprattutto reali (0,41 vs. 1,14), che ha consentito alla Germania di contenere l’inflazione ben sotto il 2% (1,5% circa), come da regola Bce, e di realizzare surplus commerciali crescenti mediante l’accresciuta competitività di prezzo dei propri prodotti.

Non vi è dubbio che la Germania abbia conseguito tale performance in virtù di una crescita della produttività spiegata dalle politiche di innovazione e formazione tipici del suo modello di capitalismo, in cui le relazioni industriali partecipative costituiscono un asse portante. Al contempo è evidente come le stesse relazioni industriali abbiano consentito di realizzare dagli anni novanta un contenimento dei salari unico nell’area dell’euro, e che questa svalutazione interna salariale sia associata ad un valore del marco ombra a tutto vantaggio di questo Paese, come attestano i differenziali nei tassi di interesse della zona euro. Il coniugare politica dell’innovazione con contenimento salariale è stata la chiave del successo germanico, in presenza di un euro debole per loro, e troppo forte per altri.

Graf.7 – Gap tra crescita del salario reale orario e produttività del lavoro: scostamento tra scenario ipotetico Bce e scenario effettivo, tassi medi annuali, 1995-2011

4. Conclusioni

In conclusione, la “regola di piombo” della Bce sembra più una regola ex post fissata quando “i buoi sono usciti dal recinto”. Ora viene riproposta per indicare che la via maestra da seguire per i Paesi “viziosi” (il cui numero cresce ogni mese, dopo Cipro, la Slovenia, oppure ancora l’Italia, tra i PIIGS, e perché non anche la Francia e pure l’Olanda) è quella della svalutazione competitiva interna basata sul contenimento delle retribuzioni nominali e reali del lavoro, sulla maggiore flessibilità del mercato del lavoro, e sulla riduzione della quota del lavoro sul reddito. Non sono novità. Sono anni che vengono non solo proposte ma soprattutto realizzate queste ricette, con esiti che tutti noi conosciamo: minore crescita, maggiore disoccupazione, maggiori disuguaglianze, il tutto condito più di recente dalla salsa indigesta dell’”austerità espansiva”.

Forse sarebbe stato meglio adottare la “regola d’oro” per tutti ex ante, una regola che non consentisse di agire con svalutazioni competitive salariali interne, puntando invece tutti assieme su politiche di crescita e piena occupazione centrati su quei temi che pure non erano certo estranei all’Agenda della Unione europea, l’Agenda di Lisbona con la quale si indicavano le priorità strategiche: economia della conoscenza e crescita sostenibile. Quelli erano tempi in cui sarebbero dovuti prevalere gli Stati Uniti d’Europa, mentre invece hanno prevalso gli Stati disuniti intergovernativi d’Europa, che si sono (dis)integrati negli anni dell’euro.

[1] Paolo Pini, Togliere tutele al lavoro non aiuta la produttività (old.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Togliere-tutele-al-lavoro-non-aiuta-la-produttivita-17530).

[2] Andrew Watt, Mario Draghi’s Economic Ideology Revealed? (www.social-europe.eu/2013/03/mario-draghis-economic-ideology-revealed/?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+sociag-europe%2FwmyH+%28Social+Europe+Journal%29).

[3] Andrea Baranes, Se la Troika ascoltasse la Troika (old.sbilanciamoci.info/Sezioni/capitali/Se-la-Troika-ascoltasse-la-Troika-17517).

[4] Sappiamo però che questa deriva “keynesiana” alla questione non rientra tra le condizioni contemplate dal modello.

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info? Clicca qui

Commenti

Manca la logica conclusione - 2

cambiare opinione è sempre una cosa buona, se rappresenta evoluzione
nel caso di napolitano forse questo non è il caso, vi sono sempre eccezioni, .. ehehe

lei potrebbe cambiare opinione ....?
suggerisco l'articolo di oggi pubblicato dalla spinelli su repubblica, è interessante ed istruttivo
non saro' certo io a convincere lei, ma forse lei a convincere me
o forse barbara spinelli convince lei che l'europa è il nostro terreno comune di confronto
senza l'euro dira lei, con l'euro, dico (per ora) io

saluti

Manca la logica conclusione - 2

Gentile prof. Pini, La ringrazio innanzitutto per la risposta che ha voluto dare ad un lettore, pratica non molto seguita in questo sito. La ringrazio anche per il modo accorato con cui ha sostenuto la tesi che bisogna cambiare le politiche europee, tesi che purtroppo non condivido affatto. Sa che la Baviera ha avviato una sorta di contenzioso con lo stato federale perchè ritiene che i soldi delle tasse che vi versa siano sprecati per sostenere i fannulloni dell'ex Germania dell'Est? E Lei pensa che sia mai possibile ad un politico tedesco convincere gli elettori alemanni di sostenere i fannulloni dell'Europa meridionale? Dia ogni tanto un'occhiata al sito "vocidallagermania" e vedrà cosa pensa il tedesco "medio" dei "maiali" del sud: si metterà le mani nei capelli!
Mi è capitato di leggere recentemente uno scritto di J. Meade del 1957 (1957!!) relativo all'appena costituita comunità economica europea: sono rimasto sbalordito dalla capacità "profetica" di quello scritto, dove sono raccontati in maniera dettagliata gli scenari che purtroppo oggi ben conosciamo. Già allora Meade riteneva che gli squilibri commerciali potessero essere risolti solo imponendo una compensazione tra debiti e crediti dei futuri membri della CEE che avrebbe comportato per la Germania un'inflazione più alta ed una rivalutazione del marco.
Se, professore, ritiene immorale svalutare, allora rivalutare dovrebbe essere altamente morale: perchè nessuno lo fa se non costretto (Germania inclusa)? Ribadisco: il mercato dei cambi è un mercato come gli altri e la politica dei cambi è uno degli strumenti a disposizione di uno stato per fare politica economica, non è il Moloch.
Le suggerisco una lettura a mio modesto avviso molto istruttiva: l'intervento dell'allora capogruppo del PCI alla Camera Napolitano che annunciava il voto contrario del partito (fine 1978, e fine dell'esperienza della solidarietà nazionale) all'ingresso dell'Italia nello SME. Pure quello è uno scritto oserei dire profetico, che annunciava la catastrofe attuale. Ma evidentemente le persone cambiano...

Manca la logica conclusione

grazie per il commento, a cui non ho fortissime obiezioni

la questione pero' è che io non credo che la via della svalutazione sia l'alternativa credibile al cappio della moneta unica
non lo è mai stata secondo me anche prima dell'euro, nel senso che è stata utilizzata come strada di risoluzione provvisoria alle crisi (produttive) italiane
ed infatti i problemi del paese, dalle basse retribuzioni alla bassa produttività, hanno origine ben prima della introduzione dell'euro
ad esempio il declino della produttività in italia non parte dal 2000, ma dal decennio precedente
come peraltro quello del debito pubblico

ecco perchè occorre credere in una europa diversa che faccia politiche diverse, ed in questa europa avere una italia che segua un percorso pure differente dagli ultimi venti anni
in sbilanciamoci, ho cercato di precisare cosa sarebbe importante fare per questa europa che è da cambiare
e sbilanciamoci ha con molte voci anche diverse indicato una rotta alternativa a quella attuale
e non è una rotta, almeno sino ad ora, centrata sulla uscita dall'euro

ma questa è una mia idea personale

Manca la logica conclusione

A parte i commenti di chi non sa far altro che perder tempo a digitare sulle tastiere invece di usare le mani per cose più produttive, l'articolo del prof. Pini è, come al solito, esemplare per lucidità e chiarezza. Ed anche coraggioso, perchè ha finalmente messo nero su bianco anche su un sito mainstream come questo (nonostante le apparenze) che la Germania ha fatto svalutazione competitiva "interna" riducendo i salari reali di almeno il 6% ed ha adottato una politica di beggar-thy-neighbour, che tradurrei con un'espressione più colorita...
E tuttavia manca la conclusione logica all'articolo: se il "vincolo esterno" impone di svalutare i salari al posto della valuta, con quel che ne consegue in termini di redistribuzione del reddito a vantaggio delle classi dominanti, se non vogliamo più svalutare i salari ma far liberamente funzionare il mercato dei cambi (che, chissà perchè, i liberisti de noantri è l'unico mercato che non vogliono far funzionare) dobbiamo lasciare l'euro.
Perchè è così difficile ammetterlo? Qualcuno pensa davvero che la Germania, senza pistola puntata alla tempia, cambi politica? O sperate in una vittoria della SPD che, come successo in Francia con Hollande, farebbe le stesse polithce della CDU? Pia illusione!
Quella dell'euro non è una fissazione, ma la consapevolezza che è la catena posta al collo dei paesi del Sud Europa in via di colonizzazione che la Germania (e i suoi satelliti) può stringere - via BCE - a suo piacimento. Senza toglierci la catena dal collo nessuna politica alternativa potrà davvero produrre effetti.

dove sono i soldi ...

le risorse non mancano, ... tutta la liquidità regalata alle banche sarebbe già stata una buona base di partenza se fosse stata investita nell'economia reale
poi potremmo tassare i commenti stupidi, cone scrisse una volta travaglio, .. "ma vi leggete dopo aver postato ?"

Soldini

Quando il prof. Pini scriverà un bel report in cui spiega dove andiamo a pescarli i soldi per l'economia della conoscenza e prima ancora definisca cosa sia l'economia della conoscenza atteso che la più importante azienda del settore Telecom Italia l'abbiamo privatizzata e poi regalata a Provera assieme ai suoi 2 mld di euro di immobili finiti in Pirelli RE grazie ai capitani coraggiosi di D'Alema, forse ci saremo anche dati conto di come siamo finiti nel baratro.
Cos'è l'economia della conoscenza? Quali sono le aziende valide del settore in Italia? Quanto vale questo settore della conoscenza?
Ah già allude forse all'università italiana. Un inefficiente carrozzone, fabbrica di cattedre e grafici senza senso che serve solo a dare a giovani ingenui speranze che verranno frustrate dalla dura realtà.
Quando questo paese comincerà una seria riflessione su stesso e comincerà a prendere coscienza che sta pagando 20 di sprechi anche dei suoi colleghi di Siena che falsificavano i bilanci di un'università ridotta in condizioni pietose, altro che economia della conoscenza. Se la gente vi conoscesse verrebbe a prendevi a pedate!
Quando vi svegliate?