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Quando l’Europa ha svoltato a destra

03/09/2011

Le buone intenzioni di Lisbona 2000, la svolta neoliberale e gli errori di Europa 2020. Il risultato è una costruzione europea instabile, vulnerabile e impopolare. Si deve ripartire dall’economia della conoscenza e da un’Europa sociale. La vecchia strada ora porta alla depressione mondiale

Aprendo il dibattito su “La rotta d’Europa” aperta da il manifesto, Sbilanciamoci.info e openDemocracy.net, Rossana Rossanda ha chiesto agli economisti e ad altri una valutazione della crisi dell’euro e dell’Unione economica e monetaria (Uem). Mario Pianta e Donatella della Porta hanno dato le loro risposte e io sono d’accordo con le loro tesi di fondo. Pianta ha ragione nel sottolineare che la crescente diseguaglianza economica e il dogma neoliberale hanno contribuito alla crisi presente. E Donatella della Porta ha ragione a indicare nella mancanza di legittimazione democratica uno dei problemi più grossi della situazione attuale, in cui l’integrazione europea è spinta dalla necessità di evitare una crisi economica mondiale. Vorrei mostrare come la forma e profondità di tale crisi rivelino la debolezza di fondo dei percorsi intrapresi dall’integrazione europea. La Strategia di Lisbona lanciata nel 2000 è stata dirottata a metà strada verso una via neoliberale, e ora la Strategia Europa 2020 continua sul binario sbagliato. Tali iniziative non hanno costruito le fondamenta necessarie per l’Uem. E l’Unione monetaria, pensata per proteggere i paesi membri dall’instabilità economica, è diventata essa stessa una fonte d’instabilità per tutto il mondo. Se la Uem è stata una costruzione sbagliata fin dall’inizio, ora è estremamente pericoloso lasciarla disintegrare. Nonostante la retorica che addossa tutte le colpe ai governi degli stati, i leader nazionali potrebbero essere costretti a portare l’Europa verso una federazione, non perché questo faccia parte della loro visione, ma perché devono evitare una depressione globale. Si tratta di scelte difficili che che si scontreranno con il populismo nazionalista di un’Europa senza una visione democratica radicata e comune che vada al di là del mercato unico.

Da Lisbona a Europa 2020

I contesti internazionali del 2000 e del 2010 erano profondamente diversi. Negli anni ‘90, quando fu lanciata la Strategia di Lisbona, l’occupazione e i tassi di crescita negli Usa erano più alti che in Europa, e l’ipotesi più diffusa era che questo fosse il risultato della ‘nuova economia’ americana, fondata su mercati meno regolati, più attività imprenditoriali e maggiori investimenti nel capitale della conoscenza. Si pensava che in Europa la crescita fosse ostacolata dalla ‘rigidità’ soprattutto del mercato del lavoro, e dallo scarso investimento in ricerca. La strategia Europa 2020 viene introdotta in un contesto tutto diverso, in cui gli Usa come l’Europa soffrono le conseguenze della crisi finanziaria, la crisi ecologica è diventata una priorità e la concorrenza più temibile viene dalla Cina e dall’India più che dagli Usa.

Queste differenze di modalità e contesto si riflettono nel contenuto della nuova strategia. Nella Strategia di Lisbona la Ue si proponeva un nuovo obiettivo strategico:diventare l’economia più competitiva e dinamica basata sulla conoscenza, capace di una crescita economica sostenibile con maggiore e migliore occupazione e una più grande coesione sociale’. Quel traguardo richiedeva di ‘preparare la transizione verso un’economia e una società basate sulla conoscenza, attraverso politiche migliori per la società dell’informazione e la ricerca e sviluppo (R&S), accelerando riforme strutturali per la competitività e l’innovazione, completando il mercato unico, modernizzando il modello sociale europeo, investendo sulle persone e combattendo l’esclusione sociale; sostenendo buone prospettive economiche e crescita, applicando un insieme appropriato di politiche macroeconomiche’.

Ora la nuova strategia Europa 2020 sottolinea tre priorità: “crescita intelligente”: sviluppo di un’economia basata su conoscenza e innovazione; “crescita sostenibile: promozione di un’economia più efficiente rispetto alle risorse, più verde e più competitiva”; “crescita inclusiva’: sostenere un’economia ad alta occupazione che produca coesione sociale e territoriale”. C’è una differenza di fondo che va sottolineata: le ambizioni si sono decisamente ridimensionate. Nella strategia Europa 2020 non si promette che l’Europa diventerà la regione più competitiva del mondo e si riconosce che la crisi economica ha avuto un forte impatto negativo su occupazione e reddito.

Quando l’Europa è andata a destra

Nell’orientamento generale delle due strategie esiste una continuità, ma si è verificato un cambiamento delle priorità a qualche anno dalla strategia di Lisbona, con un indebolimento della dimensione sociale e una maggiore attenzione a crescita e occupazione. E’ avvenuto con la valutazione di medio termine 2004-05, in cui si sosteneva che la strategia era ‘troppo complessa’, con troppi obiettivi. Motivo per cui sarebbe stato necessario concentrare tutti gli sforzi su occupazione e crescita economica. Un cambiamento che rifletteva quello del panorama politico europeo, con i governi socialdemocratici che erano stati sostituiti da governi molto più a destra.

Tale cambiamento ha ridimensionato l’obiettivo, passando da ‘maggiore e migliore occupazione’ a ‘maggiore occupazione’ e basta, ponendo l’accento sulla ‘flessisicurezza’ ma con un’attenzione esclusiva per l’elemento flessibilità. Con le nuove priorità, il concetto di coesione sociale viene inteso in modo restrittivo e tradotto in obiettivi rivolti alla riduzione della povertà. Va notato come la ‘maggiore e migliore occupazione’ sia diventata, nell’introduzione alla strategia Europa 2020, un più vago ‘maggiore occupazione e vite migliori’.

Se la prospettiva generale della strategia di Lisbona, e in particolare l’attenzione alla coesione sociale e alla società basata sulla conoscenza, andavano nella direzione giusta, i politici che dovevano realizzarla hanno visto la ‘coesione sociale’ come un peso per l’Europa piuttosto che come il fondamento necessario per un’economia basata sulla conoscenza. Di conseguenza l’attuazione si è fatta sempre più squilibrata, dominata dall’interpretazione neoliberale delle ‘riforme strutturali’ e dalla flessibilizzazione.

La strategia di Lisbona come sostegno alla Uem

Fin dal principio (1996), la Strategia europea per l’occupazione venne presentata come un complemento necessario per l’Unione monetaria europea. La stessa cosa si può dire della strategia successiva, quella di Lisbona. Quando fu istituita la Uem, molte voci avvertirono che un’unione monetaria senza politica fiscale comune sarebbe stata vulnerabile da attacchi esterni. Il bilancio totale della Ue è solo una piccola percentuale del Pil e non può avere lo stesso ruolo di stabilizzatore automatico che ha il bilancio federale Usa. Questo era particolarmente problematico per un’unione valutaria che metteva insieme paesi a livelli molto diversi di sviluppo economico. La Strategia di Lisbona si può vedere come un tentativo di compensare questa fondamentale debolezza dell’Unione monetaria.

Sono state date due interpretazioni contrapposte del perché la Strategia di Lisbona potesse funzionare come sostegno all’Uem. L’interpretazione neoliberale era che il coordinamento delle politiche avrebbe dovuto rendere più flessibili i mercati del lavoro dell’Europa meridionale, in modo che gli eventuali choc esterni venissero assorbiti attraverso un’immediata riduzione dei salari reali. L’interpretazione neo-riformista era che le regioni meridionali meno sviluppate sarebbero state aiutate ad allinearsi al Nord grazie agli ambiziosi investimenti nella loro base di conoscenze.

Se la strategia di Lisbona fosse riuscita a ridurre le disuguaglianze regionali all’interno della Uem migliorando conoscenze e struttura industriale del Sud dell’Europa – puntando a un’occupazione di qualità, meno esposta alla concorrenza mondiale - l’attuale crisi della Uem forse non sarebbe stata così drammatica. Non è un caso che i paesi oggi esposti alla speculazione finanziaria siano quelli che hanno la struttura industriale più debole e la maggior quota di posti di lavoro direttamente esposti alla concorrenza delle economie emergenti.

Questo avrebbe richiesto maggiore, non minore, attenzione alla coesione regionale e sociale, e riforme dei mercati del lavoro e dei sistemi scolastici volte a migliorare le competenze e l’organizzazione del lavoro, così come gandi investimenti nelle infrastrutture cuturali. Ma l’agenda di Lisbona si è andata orientando sempre più verso la strada neoliberale. La situazione attuale mostra che questo spostamento a destra non solo è stato inadeguato, ma ha finito per creare una struttura istituzionale distorta, che ora minaccia di far crollare non solo le economie europee, ma anche quella mondiale.

L’ombra della crisi mondiale

La crisi dell’euro va vista nel più ampio contesto della globalizzazione dei mercati finanziari, che ha reso più esporte le economie più piccole e ha ridotto le possibilità di una politica economica autonoma da parte dei governi. Nella prospettiva globale tutti i paesi europei sono “piccoli”; quelli grandi – Usa, Giappone e Cina – sono meno vulnerabili dalla speculazione finanziaria, ma diventano anche loro sempre più “piccoli” nel senso che si vanno riducendo i margini di quello che possono fare come politica economica autonoma.

L’Unione economica e monetaria può essere vista come il tentativo di trasformare l’Europa in un paese “grande”, proteggendo i piccoli paesi europei e rendendoli più capaci di superare crisi e speculazioni esterne. Ma si tratta di un tentativo fallito che ha dato ragione a quanti sostenevano che era poco saggio creare un’unione valutaria in assenza di unione fiscale. La Grecia, il Portogallo, la Spagna, l’Italia e più di recente anche la Francia hanno visto la speculazione finanziaria aumentare i costi del debito pubblico. C’è ora il rischio reale di uno scenario che vede uno o più di questi paesi che fanno bancarotta, un conseguente crollo delle grandi banche e una crisi finanziaria generale, che porta a una depressione mondiale.

Il timore che l’economia nazionale finisca sotto il tiro della speculazione finanziaria costringe i governi nazionali a tagliare i bilanci e stimolare gli investimenti privati abbassando le tasse sui ricchi e sulle imprese. Questo è anche il tipo di risposta auspicato con forza dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Ma gli sforzi per rafforzare la ‘competitività internazionale’ dei singoli paesi hanno un impatto negativo sulla domanda a livello globale. Se possono essere ritenuti utili per limitare l’esposizione delle singole economie, accentuano però la possibilità di uno tsunami finanziario.

Sembra impossibile che i leader europei vogliano riformare una delle fonti principali dell’instabilità: il modo in cui operano i mercati finanziari nel breve termine. Quali sono allora le alternative? Per i governi è essenziale evitare che la crisi dell’euro produca l’insolvenza di uno dei paesi membri. Una delle proposte è quella di istituire obbligazioni europee (gli eurobond) il cui valore sia garantito insieme da un gruppo di paesi. Sarebbe un primo passo verso la trasformazione dell’Europa in senso federale. Ma se il bisogno di ‘più Europa’ è acuto quando si tratta di costruire barriere contro uno spaventoso tsunami finanziario, la sensazione della crisi ridà fiato ai sentimenti nazionalistici e rafforza gli schieramenti politici che si oppongono a politiche di solidarietà internazionale.

Le strade possibili

La maggior parte delle priorità definite dalla strategia Europa 2020 sono risposte rilevanti alle sfide che l’Europa si trova oggi ad affrontare, ma non rappresentano nel breve termine una protezione di fronte a uno tsunami finanziario. La Strategia di Lisbona può essere vista come il tentativo di creare una convergenza istituzionale e politica in Europa con lo scopo di costruire un’unione forte e coesa, fondata sul principio di solidarietà. Ma l’approccio realizzato, con l’accento sulle ‘buone pratiche’, e la valutazione dei risultati delle politiche nelle diverse aree (benchmarking) è stato del tutto tecnocratico, incapace di suscitare un’adesione popolare al progetto europeo. Perché i cittadini europei si mobilitino per il progetto-Europa ci vuole una visione capace di andare oltre il mercato unico.

In un testo importante, scritto in occasione del convegno “L’identità europea in un’economia globale” in preparazione del Summit di Lisbona sotto la presidenza portoghese, Manuel Castells avveva sostenuto la necessità di una “comune identità europea in base alla quale i cittadini in tutta Europa possano condividere i problemi e cercarne insieme la soluzione”. Dopo aver scartato cultura e religione, Castells aveva individuato “i sentimenti condivisi sulla necessità di una protezione sociale universale delle condizioni di vita, la solidarietà sociale, un lavoro stabile, i diritti dei lavoratori, i diritti umani universali, la preoccupazione per i poveri del mondo, l’estensione della democrazia a tutti i livelli” Se le istituzioni europee dovessero promuovere quei valori, diceva, forse “il progetto identità” potrebbe crescere.

Per mobilitare il sostegno popolare e ricostruire l’Uem è necessario ridefinirla in modo che riconosca la ‘dimensione sociale’, trasformandola in una Unione economica e sociale (Ues). Questo dovrebbe andare di pari passo con riforme dei processi decisionali capaci di unire in modi nuovi partecipazione democratica ed efficienza. C’è bisogno di una svolta nel paradigma delle politiche, che trasformi il timore dell’intervento statale e la fede nei mercati in una prospettiva in cui i governi possano assumersi i compiti necessari a promuovere una solida crescita economica. Questo richiede una regolamentazione internazionale molto più severa dei mercati finanziari. Ma soprattutto richiede di ridisegnare le istituzioni e le politiche di settore, con la consapevolezza della fase nuova che stiamo attraversando in cui la conoscenza è la maggiore risorsa e l’apprendimento è il processo più importante.

Ma il tempo stringe, ed è probabile che assisteremo a piccoli e riluttanti passi dei leader europei verso una politica fiscale comune, passi che verranno fatti senza sostegno popolare e con scarso coinvolgimento delle istituzioni. L’argomentazione dei leader europei – in cui presentano ciascuna riforma come fatta in nome della Grecia, del Portogallo, della Spagna etc., e non per salvare la loro economia dalla depressione – non è di alcun aiuto. Se nella loro marcia esitante dovessero inciampare, è possibile che cadremo nella prima depressione economica dopo gli anni Trenta.

 

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