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Obama e la crisi del debito Usa

02/08/2011

Il presidente degli Stati uniti pur di mettersi d'accordo con i repubblicani, un partito sovversivo, ha scelto di sacrificare la spesa sociale e di non puntare a un rilancio dell'occupazione

Quos deus vult perdere, dementat prius
detto latino

Yes, we can
B. Obama, tanto tempo fa

 

Premessa

L’accordo raggiunto in extremis tra Obama e i repubblicani appare come politicamente e socialmente disastroso, mostrando un cedimento grave del presidente alle posizioni fanaticamente oltranziste dei rappresentanti del tea party e segnando in ogni caso una vistosa virata a destra del paese. Chi si fosse illuso sulla positiva novità rappresentata a suo tempo dalla vittoria elettorale dello stesso Obama nella corsa per la presidenza degli Stati uniti, ottiene ora una risposta amara dai fatti. Peraltro, tale accordo non potrà che avere effetti depressivi su di un’economia già per molti aspetti in uno stato problematico.

Il disorientamento delle classi dirigenti occidentali

Le attuali difficoltà statunitensi si collocano, almeno in parte, nell’ambito di quelle più generali prevalenti da qualche anno nel mondo, difficoltà che a nostro parere gli osservatori asiatici tendono a collocare correttamente nell’ambito di quella che essi definiscono come una “crisi atlantica”. Essa ha portato, tra l’altro, a un’accelerazione nei processi di passaggio del centro dell’economia mondiale verso l’Asia-Pacifico, nonché a un sostanziale crollo della fiducia in loro stesse delle classi dirigenti dell’Occidente e comunque a un forte indebolimento della loro capacità di dominare-governare il mondo. Tra l’altro, come mostrano i dati del Fondo monetario internazionale, il pil dei paesi emergenti, misurato con il criterio della parità dei poteri di acquisto, è cresciuto negli ultimi sei anni da una sostanziale parità con quello dei paesi sviluppati a una percentuale del 145% rispetto a questi ultimi.

È anche in questo clima, di crisi da una parte e di sorpasso dall’altra, che è andata maturando la notevole affermazione del movimento del tea party negli Stati uniti e quella di movimenti estremisti e populisti anche in Europa, alla ricerca di una scorciatoia semplice per la soluzione dei problemi e delle paure di classi medie e popolari sempre più incerte per quanto riguarda il loro futuro.

Aleggia, tra l’altro, nei paesi ricchi lo spettro della “grande stagnazione”. Come anche ci ricorda un recente numero dell’Economist (quello del 30 luglio 2011), il Giappone è pericolosamente vicino. La malattia giapponese, che ha contagiato facilmente l’Italia già da molto tempo, ma che ora minaccia diversi altri paesi, sembra avanzare implacabile nel nostro continente come negli Stati uniti.

Così, in particolare, come sottolinea ancora l’Economist, i governi occidentali e le loro banche centrali si trovano oggi, dal loro punto di vista, sostanzialmente all’angolo. Essi hanno mobilitato grandi risorse per combattere la crisi, ottenendo come contropartita soltanto una modestissima e quanto mai precaria ripresa economica. Essi non possono ora andare avanti sulla strada degli stimoli, come sarebbe necessario, perché non c’è alcun supporto politico a tale strategia – si vedano in particolare negli Stati uniti le posizioni dei repubblicani, ferocemente ostili a qualsiasi intervento in proposito –, né hanno la possibilità di farlo veramente sul fronte economico e finanziario, dal momento che le casse sono vuote. Ma essi non possono neanche tornare effettivamente indietro. Alzare di nuovo i tassi di interesse in un periodo di difficoltà economiche non appare certamente una grande idea, nonostante la tentazione della Bce di andare avanti su tale linea; né tagliare veramente i budget pubblici può portare ad alcun vantaggio, come pensano invece e tentano irresponsabilmente di praticare le destre di tutto il mondo occidentale; ci si potrebbe trovare di fronte a una nuova recessione.

L’andamento dell’economia statunitense

In ogni caso, le notizie recenti sul fronte dell’andamento dell’economia statunitense non sono buone. Mentre il livello della disoccupazione si mantiene dolorosamente alto, il pil nel secondo trimestre del 2011 è cresciuto a un tasso annuale dell’1,3%, molto meno di stime precedenti –ma si tratta peraltro di valutazioni preliminari, che saranno poi probabilmente smentite in negativo più avanti –, mentre è stato rivisto al ribasso il calcolo per il primo trimestre, che fa ora riferimento a un aumento dello 0,4%, contro la precedente valutazione dell’1,9%. Non solo, ma sono state anche comunicate le ultime stime per il 2008 e il 2009, più negative di quelle indicate sino a ieri, per cui, tra l’altro, mentre sulla base dei dati precedenti sembrava che il pil Usa fosse già tornato da qualche mese sopra la punta massima registrata prima della crisi, ora le cifre mostrano che, in realtà, c’è ancora uno scalino da colmare per raggiungere di nuovo tale livello.

L’accordo per la riduzione del deficit non dovrebbe mancare di portare il suo contributo a un peggioramento ulteriore della situazione.

All’origine del debito

Da dove viene l’attuale debito statunitense, pari a più di 14 trilioni di dollari? Non certo dal cielo. Esso appare per la grandissima parte frutto dell’iniziativa dei repubblicani, come ci ricorda ad esempio W. Greider su The Nation (www.thenation,com, 27 luglio 2011). Ha cominciato Ronald Reagan nel 1981, quando il livello di tale debito raggiungeva a malapena il trilione di dollari, con il varo di tagli delle tasse, giustificati – chi non lo ricorda? – con la fallace teoria della cosiddetta supply side. Aveva poi assestato un forte colpo al livello dell’esposizione il caro George W. Bush jr. con la riduzione delle tasse per i ricchi e con le due guerre in Iraq e in Afghanistan. Il costo di queste sole politiche è stato sino al 2010 vicino ai 3.300 miliardi di dollari secondo le stime ufficiali. Il resto del deficit viene dalla crisi del 2007-2008, in particolare con la forte caduta delle entrate fiscali; il contributo alla scalata del debito da parte di Obama, su cui oggi i repubblicani, in maniera indecente, cercano di scaricare gran parte delle colpe, cancellando la realtà dei fatti, è stato in realtà modesto, con stimoli all’economia per “soltanto” 700 miliardi di dollari.

La minaccia dello stesso debito potrebbe essere facilmente affrontata sul piano “tecnico”, riducendo in maniera sostanziale le spese militari e aumentando le tasse sui ricchi. Certo, aiuterebbe molto a risolvere il problema una rilevante crescita dell’economia del paese, ma le prospettive su questo fronte non sembrano del tutto esaltanti.

La posizione repubblicana

Come ci ricorda J. B. Judis su The New Republic (www.tnr.com, 30 luglio 2011) negli ultimi quaranta anni il partito repubblicano si è trasformato da un’opposizione leale in un partito di tipo sostanzialmente sovversivo. Esso è il partito del Watergate e dell’Iran-Contra, ma anche della chiusura delle attività di governo nel 1995 e del processo di impeachment del 1999. Oggi i repubblicani hanno minacciato di nuovo la chiusura di tali attività e anche una crisi monetaria internazionale pur di evitare di alzare il tetto del debito, peraltro generato per la grandissima parte da loro stessi.

Per altro verso, la linea prevalente per quanto riguarda la politica economica del partito sembra inaudita e folle. Essa è quella di tagliare fortemente l’assistenza agli strati più poveri della popolazione e contemporaneamente di ridurre ancora il livello delle tasse per i ricchi.

Da rilevare che oggi le persone più agiate pagano un’aliquota fiscale sui redditi che si aggira sostanzialmente intorno al 13-14%, mentre quelli un po’ meno ricchi pagano qualcosa di più e molto meno, comunque, di quanto paghino le classi medie e popolari. È anche da ricordare che, prima delle riforme regressive di Bush jr., l’aliquota marginale sui redditi si collocava nel paese intorno all’80% e ciononostante l’economia non ne soffriva poi molto.

La posizione dei repubblicani va poi inquadrata nella loro visione generale dello stato come di una “bestia da affamare” e da ridurre ai minimi termini con tutti i mezzi, salvo ovviamente per quanto riguarda le spese militari.

L’atteggiamento di Obama

Di fronte a tali comportamenti la risposta di Obama ci appare di grave cedimento.

Come sottolinea J. Calmes in un articolo apparso sul New York Times (www.nyt.com, 30luglio 2011), la battaglia sul debito è partita su visioni molto divergenti tra il partito repubblicano e quello democratico per quanto riguarda appunto il ruolo e la stessa dimensione del governo federale. Il primo è riuscito a cambiare i termini del dibattito e Obama ha adottato il loro linguaggio, il loro approccio e in diversi casi le loro politiche.

Di fronte a una destra che portava avanti richieste assurde, Obama e i democratici intanto hanno accettato la premessa che la priorità era la riduzione dei deficit invece che quella della lotta alla disoccupazione e alla crisi, come sarebbe stato ragionevole, poi hanno ceduto progressivamente terreno offrendo piani molto spostati a destra. Con l’accordo, Obama aderisce alla politica di tagliare fortemente il sistema del welfare, mentre rinuncia contemporaneamente a incassare delle tasse in più dalle imprese e dai ricchi e quindi facendo cadere tutto il peso dei tagli sulle classi medie e popolari; l’unico risultato positivo che egli è riuscito a ottenere è quello di una riduzione delle spese militari, ma comunque meno di quanto egli si era posto come obiettivo. Così vengono abbandonati i principi di base del partito democratico, come ci ricorda, ad esempio, Paul Krugman nei suoi editoriali recenti sul New York Times.

Va parallelamente sottolineato come, in realtà, il sistema di sicurezza sociale degli Stati uniti sia finanziariamente in equilibrio e come quindi esso non contribuisca in alcun modo alla creazione del deficit federale.

La marcia indietro del presidente sul fronte del deficit viene peraltro, come è stato scritto da alcuni commentatori, dopo una ormai lunga serie di ritirate: Obama ha accettato l’escalation della guerra in Afghanistan, non è riuscito a chiudere Guantanamo, né a farla finita con i tagli alle tasse dell’epoca di Bush jr. e neanche a mettere in pista un sistema sanitario gestito dal governo; egli ha inoltre cancellato le precedenti promesse di un’economia verde e non ha messo veramente sotto controllo il sistema finanziario. Nonostante una disoccupazione che si mantiene a livelli molto alti, non ha neanche tentato di varare un programma di investimenti pubblici e di incentivi al settore privato per cercare di combatterla. E questo, tra l’altro, in una situazione in cui il sistema delle infrastrutture fisiche del paese sta andando progressivamente in pezzi.

Alla fine, quindi, il bilancio della sua presidenza, ancor più dopo l’ultima decisione, appare sostanzialmente come negativo, anche se la prospettiva di una vittoria repubblicana alle prossime elezioni presidenziali sarebbe, nelle attuali condizioni politiche, semplicemente terrificante. Il solo fatto che essa appaia oggi plausibile indica peraltro, in tutta evidenza, il penoso stato del paese e, più in generale, di tutto il mondo occidentale.

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