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La sedia vuota di Copenhagen

29/10/2009

Perché Obama non andrà al vertice di dicembre sul riscaldamento globale? Il ruolo della crisi economica e dell'opinione pubblica americana

“Se perdiamo questa occasione per proteggere il nostro pianeta, non possiamo sperare in una seconda possibilità in futuro. Non ci sarà alcun accordo per riparare il danno che abbiamo causato. Questo è il momento per limitare e invertire il cambiamento climatico che stiamo infliggendo alle generazioni future. Se i più poveri e più vulnerabili saranno in grado di adattarsi, se le economie emergenti stanno per intraprendere percorsi di sviluppo a basso tasso di carbonio, se i popoli delle foreste stanno cercando di rallentare e fermare la deforestazione, i Paesi più ricchi devono contribuire finanziariamente”. Un mese fa, il 25 settembre, a New York , davanti all’assemblea delle Nazioni unite, il presidente degli Stati uniti Barack Obama pronunciava il suo discorso perfetto. A distanza di un mese, contrordine. Il presidente a Copenaghen non andrà più, lasciando di stucco molti osservatori. A non perdere l’occasione saranno altri, se ci saranno. Alla notizia della defezione, fatta filtrare tramite il quotidiano inglese The Times, il campo si è diviso. Gli obamiani di ferro hanno detto: fa bene a non andare; il vertice finirà certamente con un niente di fatto. Gli avversari dell’America, sempre e comunque capaci di vedere i retroscena maligni, hanno amaramente gioito: “cosa vi aspettavate? Anche lui è come gli altri, deve rispondere alle multinazionali che lo hanno eletto, quel pacifista del piffero”. Una minoranza di ambientalisti ha sospirato: “adesso sì che il vertice è diventato davvero inutile. Solo Obama avrebbe potuto dargli un senso”. Qualcuno continua a sperare che alla fine cambi idea. Gli ambientalisti, si sa, sono i più ottimisti di tutti: invece di disinteressarsene, o di guardarlo con astio, credono nel futuro e lottano per un mondo diverso e possibile.

Copenaghen deve essere una città stregata per Barack Obama; in effetti il presidente degli Stati uniti vi si reca, o, sarebbe forse meglio dire, vi è attratto, quando l’andarvi è inutile e perfino sbagliato, come nel caso del suo temerario viaggio per appoggiare la candidatura di Chicago per le Olimpiadi del 2016: la sede era discussa proprio a Copenaghen. La città danese lo respinge invece quando sarebbe suo dovere recarvisi ed egli vorrebbe farlo. Deve essere davvero un’irresistibile forza quella che si è scatenata e prevedibilmente lo terrà lontano, in dicembre, dal vertice ambientale del Pianeta. Se si aggiunge che nella settimana stessa della Conferenza delle Nazioni unite, Obama prevede di essere per un paio di giorni a Oslo, per ricevervi il premio Nobel per la pace, il quadro della magia incombente è ancora più preciso. Tanto più che Oslo, vista dagli strumenti di bordo dell’Air Force One, dista poco dalla capitale danese. L’Atlantico è largo, ma il Nord Europa è molto stretto.

Il discorso di Obama a Oslo sarà un discorso ambientalista e – si può scommettere – un discorso formidabile, di alto contenuto retorico, come quello del Cairo, in giugno, rivolto all’islam. La retorica presidenziale è davvero unica e saprà certo superare la vetta straordinaria raggiunta con le parole famose sull’etanolo: “In testa alle mie priorità c’è che la gente abbia abbastanza da mangiare. E se risulta che dobbiamo cambiare la nostra politica sull’etanolo per consentire alla gente di sfamarsi, allora questa è la strada che sceglieremo. Ma io credo anche che l’etanolo sia in definitiva uno strumento transitorio ma importante per affrontare la lunga crisi energetica. Più avanti arriveremo a produrre etanolo dalla cellulosa senza usare riserve alimentari, ma erba e schegge di legno”. Prima di tutto i bisogni elementari, poi la crisi energetica, al terzo posto tra le priorità i problemi della ricerca e dell’innovazione. E rimane il dubbio: parlava a favore o contro l’uso di etanolo per le auto?

A Oslo, il presidente Obama parlerà di ambiente, ma lo farà da lontano, fuori dalla mischia e senza impegnare il suo paese e l’amministrazione democratica a scelte e decisioni prese da altri, nel caso dalla comunità internazionale, rappresentata dall’Onu, dai suoi scienziati e diplomatici. Questo non vuol dire boicottare il vertice, dove gli Stati uniti saranno rappresentati da Todd Stern, il negoziatore di Kyoto, ma a mettere in chiaro ancora una volta che gli Usa decidono per sé all’interno, con proprie dinamiche, tra Senato e lobby, pesi e contrappesi; e poi fanno sapere il risultato agli altri. America first. Un simile atteggiamento non stimola l’Unione europea a trattare con larghezza e generosità, a “contribuire finanziariamente” come chiedeva Obama all’Onu. Inoltre rende ostili i paesi in via di sviluppo, mette sul chi vive l’astro sorgente Bric (Brasile Russia India Cina) e toglie ogni interesse ai G8 o ai G20, se si vuole leggere la stessa storia con un’altra angolazione. Il risultato di Copenaghen, un appuntamento atteso, un’occasione caricata di un eccesso di speranze, finirà per deludere molti.

Il circuito vizioso è ormai in azione. C’è chi, a quaranta giorni dall’inizio, giudica il Vertice di Copenaghen inutile se non del tutto privo di prospettive, sulla base anche del Prevertice di Bangkok deludente a tutti gli effetti. E consiglia Obama di non farsi vedere, per evitare la perdita di immagine e qualche dannoso compromesso. Sulla presenza, ormai molto in forse, di Obama non manca poi chi pensa che essendo il Vertice una carrellata fine a se stessa e del tutto senza prospettive, di esponenti politici e scientifici, si può trascurarlo. E’ vero però che ogni rinuncia influisce sulle altre e tutte insieme hanno effetto sulla prima. Nessuno vuole perdere tempo, nessuno vuole apparire come un leader da spettacolo e da passerella, o, peggio, dedito al criticabile turismo dei Summit: un leader capace di svagarsi, senza pensare ai gravi problemi del presente che urge, in ogni capitale, in ogni parlamento: nuove possibili alleanze, neri tradimenti, scandali, nomine, processi, avvenimenti sportivi, regi sponsali.

“I paesi di ogni angolo del mondo riconoscono ormai che l’offerta di energia rallenta”, dice Obama. “La domanda di energia cresce più di prima e l’uso crescente di energia mette a rischio il pianeta che lasceremo alla future generazioni. Ecco perché il mondo è ora coinvolto in una competizione pacifica per stabilire le tecnologie che prevarranno nel XXI secolo…la nazione che vince nel confronto, guiderà l’economia globale, ne sono convinto. Voglio che sia l’America”.

Il problema principale di Obama è quello di Jimmy Carter e Bill Clinton prima di lui: l’indipendenza energetica del paese. A questa principale, Obama aggiunge un’altra esigenza rilevante: ridurre le emissioni di gas climateranti, a partire dalla Co2, cercando di imporre il sistema del cap and trade, il commercio dei permessi di emissioni. Tutto ciò implica accordi difficili in parlamento, zigzagando tra commissioni, interessi statali di agricoltori, industriali, operai a rischio, banche, agenzie pubbliche.

Un primo aspetto importante e tale da orientare tutto il micromondo di Washington, di Wall Street, della California, riguarda il diverso atteggiamento del pubblico americano nei confronti del tema ambientale. Nel giro di pochi anni la preoccupazione per il riscaldamento globale si è molto ridotta, come anche la convinzione, prima molto diffusa, della sua origine in larga misura umana. C’è una spiegazione principale a questo calo di interesse, ed è l’economia. Ma ve ne sono anche altre, molto legate alla politica: dai rapporti internazionali al do ut des parlamentare. Il riscaldamento globale esce dalla top ten dei problemi per l’emergere di altre preoccupazioni vicine, la disoccupazione di massa, il crollo delle attività, del valore delle case e della borsa: la maggiore crisi economica degli ultimi ottanta anni, insomma. Di fronte al disastro dell’economia, con il suo corteo di questioni immediate, palpabili e a prima vista molto più gravi e irrimediabili, perdono terreno i disastri ambientali, sia quelli naturali, come le inondazioni e considerati per questo inevitabili; sia gli altri assai temuti, ma a scadenza futura, come il riscaldamento globale, o lontani, come lo scioglimento dei ghiacci della Groenlandia e dell’Artico, quindi immersi nelle nebbie di un futuro remoto, di un mondo distante, letto a modo loro e interpretato da novelli indovini, i metereologi, i geografi.

A fare testo è un centro di sondaggi molto conosciuto, il Pew Research Center for the People and the Press . Esso informa che interrogando il pubblico sull’effetto serra, alla domanda: “vi è una fondata prova (solid evidence) di un riscaldamento globale?” ha raccolto tra l’aprile 2008 e il settembre 2009 una riduzione drastica di , passati da 71 a 57 su 100, con i no saliti da 21 a 33 e i non so aumentati da 8 a 10. Lo scetticismo riguarda le persone di tutti gli orientamenti politici: risalendo nel tempo per la lettura delle risposte, risulta che i democratici scendono nettamente nel periodo 2006-2009, alla stessa domanda sul riscaldamento globale, da 93 a 86, a 83, a 75 su 100; gli indipendenti sono praticamente stabili nei primi tre anni considerati: 79, 78, 75, per poi precipitare a 53 nell’ultimo anno. I repubblicani a loro volta, salgono addirittura nel primo biennio, da 59 a 63 e poi crollano a 49 e infine a 35 su 100.(1) La caduta riguarda, con poche varianti, persone di ogni età, istruzione, regione del paese. Il pubblico è poco addentro alla discussione su come limitare per legge le emissioni e come penalizzarle e guardando dall’altro capo del binocolo, come commerciare con i permessi di emissione (cap and trade legislation). A saperne qualcosa è meno della metà della popolazione, al cui interno solo metà è favorevole a porre limiti alle emissioni di carbonio. Il pubblico lega il problema dei limiti alle emissioni a quello del prezzo di benzina ed elettricità. A questi chiari di luna sembra preferire l’inquinamento agli extra costi nei trasporti e nel riscaldamento.

L’opinione pubblica è il presidente Obama si sono influenzati a vicenda. Da una parte il presidente mostra di essere interessato a problemi identici a quelli che i cittadini apprezzano. Benzina poco costosa, automobili virtuose, energia elettrica sicura e possibilmente da fonti rinnovabili, posti di lavoro ambientali, innovazione in campo ecologico. Dall’altra i cittadini, attraverso i propri rappresentanti e senatori, entrano nell’ordine di idee di emettere meno gas nocivi, ma gradualmente. Così discutono se ridurre il carico di gas serra dell’80% entro il 2050, un anno lontano come la fantascienza; e entro il 2020, dopodomani, un po’ meno dell’Unione europea: il 17% contro il 20 di quella. Nel frattempo i 13 stati che vogliono ridurre le emissioni delle auto, sono liberi di farlo. Tanto, tutta l’America avrà presto automobili verdi: ibride, a etanolo, tutte elettriche, a metano, a Marchionne. Tutto serve, tutto va bene. Intanto, usciamo dalla crisi economica. America first. Poi si vedrà.

 

Nota 1: "Over the same period, there has been a comparable decline in the proportion of Americans who say global temperatures are rising as a result of human activity, such as burning fossil fuels. Just 36% say that currently, down from 47% last year. The decline in the belief in solid evidence of global warming has come across the political spectrum, but has been particularly pronounced among independents. Just 53% of independents now see solid evidence of global warming, compared with 75% who did so in April 2008. Republicans, who already were highly skeptical of the evidence of global warming, have become even more so: just 35% of Republicans now see solid evidence of rising global temperatures, down from 49% in 2008 and 62% in 2007. Fewer Democrats also express this view -- 75% today compared with 83% last year". (Fonte: Pew Research Center for the People and the Press ).

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