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Anche l'Europa ha i suoi (Stati) subprime

23/02/2010

In Grecia, Spagna, Portogallo l'origine della crisi è nell'esplosione del debito estero. Mentre gli occhi di tutti si concentravano sul debito pubblico, la finanza privata ha allegramente prestato soldi a paesi al di sotto degli standard di affidabilità. Una distrazione frutto dell'ideologia mercatista

La crisi che sta colpendo alcuni paesi mediterranei dell’area euro, con esclusione dell’Italia, impone qualche riflessione. Ne proponiamo due: 1) in tutta evidenza, l’appartenenza all’area euro non è di per sé uno scudo contro le crisi finanziarie; 2) il debito pubblico non può essere la principale causa di quanto sta accadendo: i paesi colpiti dalla crisi hanno tutti un rapporto debito pubblico/Pil inferiore a quello italiano, ma l’Italia non è sull’orlo della bancarotta.

Ricordiamo i dati essenziali del problema. Il trattato di Maastricht stabilisce che il debito pubblico di un paese dell’area euro deve essere inferiore al 60% del Pil. Nel primo decennio dall’introduzione dell’euro il rapporto debito/Pil è stato in media del 107% in Italia, del 97% in Grecia, del 59% in Portogallo e del 48% in Spagna1. In Grecia e Spagna dal 2001 in poi il rapporto è andato costantemente diminuendo. Evidentemente i governi di questi paesi, a differenza di quello italiano, sono stati “virtuosi” e hanno saputo risparmiare. Ad esempio, nel decennio successivo all’entrata nell’euro il governo spagnolo ha registrato in media un surplus di bilancio. Alla luce dei parametri di Maastricht tutti questi paesi si differenziano quindi in senso positivo dall’Italia. Perché allora loro sono nei guai, e noi no?

Semplice: perché negli ultimi anni il loro sviluppo, a differenza di quello italiano, è stato finanziato con un massiccio ricorso a capitali esteri. Il settore pubblico, ma soprattutto quello privato, di Grecia, Portogallo e Spagna si sono pesantemente indebitati con il resto del mondo, che ora, allarmato dalla crisi finanziaria mondiale, batte cassa.

Qualche ordine di grandezza: nel primo decennio dell’era euro, il deficit con l’estero (pubblico e privato) ha viaggiato in media all’8% del Pil in Grecia, al 9% in Portogallo, al 6% in Spagna... e solo all’1% in Italia2. Nel 2007 il debito estero (pubblico e privato) era pari al 103% del Pil in Grecia, al 101% in Portogallo, all’85% in Spagna... e solo al 20% in Italia! Con oltre 1200 miliardi di dollari di debito estero, la Spagna è il secondo debitore estero mondiale dopo gli Stati Uniti3.

Evidentemente, la crisi di Spagna, Grecia, ecc. è una crisi di insostenibilità del debito estero (che loro hanno e noi no), non del debito pubblico (che loro non hanno, o non quanto noi).

Il debito pubblico italiano è contratto prevalentemente con i cittadini italiani. Certo, esso è preoccupante per tanti noti motivi. Ma l’evidenza ci dice che in questa fase esso allarma relativamente poco i mercati finanziari internazionali, i quali a noi non stanno chiedendo il conto, come a Spagna, Grecia, ecc., per il semplice motivo che non hanno nessun conto da chiederci! Ai mercati finanziari internazionali interessa di più sapere se un paese è in grado di ripagare il debito contratto con essi (cioè il suo debito estero, sia esso pubblico e privato), che non quello contratto da un settore del paese (lo Stato) con un altro dello stesso paese (le famiglie).

In fondo non è così strano. Supponete che un vostro amico vi chieda un prestito. Sareste più disposti a farglielo sapendo che ha appena avuto 50.000 euro dai genitori per ristrutturare la casa (un debito fra settori della stessa famiglia), o che ha avuto la stessa cifra da una finanziaria (o magari da un usuraio) per comprarsi un’automobile sportiva (un debito “estero”)? Io un’idea ce l’avrei... eppure sono due debiti dello stesso importo! Il buon senso però insegna che debiti dello stesso importo non sono necessariamente uguali: bisogna vedere con chi li si contrae, e perché. Ma se questa riflessione è così ovvia, perché nessuno la fa, e perché il trattato di Maastricht non ne tiene conto?

Partiamo dalla fine: non assolutamente è vero che il trattato di Maastricht non tenga conto dell’indebitamento estero, anzi! L’articolo 3A del trattato cita la sostenibilità del deficit estero fra i “principi direttivi” che gli Stati membri devono rispettare, e l’articolo 109j sancisce che la Commissione deve considerare fra i criteri di convergenza anche l’evoluzione dell’indebitamento estero. Tuttavia, mentre sull’indebitamento pubblico è posto un vincolo quantitativo preciso (non più del 3% del Pil), su quello estero non ne è posto alcuno. Esiste una procedura di infrazione per deficit pubblico eccessivo, ma non per deficit estero eccessivo.

Qui agisce la lente dell’ideologia. Mentre contenere l’indebitamento pubblico significa contenere il ruolo dello Stato, contenere l’indebitamento estero significherebbe contenere il ruolo dei mercati finanziari. Naturalmente, se lo Stato è visto come un male (ci avviamo gagliardi alla privatizzazione dell’aria), il Mercato è visto come un bene, per cui il fatto che i capitali circolino da un paese all’altro viene considerato come positivo fino a prova contraria (prova che le crisi regolarmente danno). Da questo approccio ideologico scaturisce l’assenza di un criterio operativo riferito alla sostenibilità del debito estero (e di una riflessione sul ruolo del debito estero nella crisi attuale).

Si può pensare che i mercati avrebbero comunque potuto capire che la situazione era critica, soprattutto considerando che 1.200 miliardi di dollari di debito estero (quello spagnolo) non si accumulano in un anno! E qui vale la pena di osservare i dati, per capire bene cosa è successo. Prendiamo la Spagna: nel ventennio precedente all’entrata nell’euro il suo indebitamento estero è stato in media pari all’1% del Pil; nell’era dell’euro è salito a una media annua del 6%, con una punta del 10% nel 2007. Dinamiche analoghe si sono avute in Portogallo e Grecia.

Perché prima dell’euro questi paesi non si indebitavano con l’estero? Semplice: perché i mercati finanziari non si fidavano di loro, come non si fidavano dell’Italia, e quindi convogliavano altrove il risparmio mondiale. Se non trovi un creditore non puoi indebitarti! Perché dopo l’euro questi paesi hanno cominciato a indebitarsi? Perché uno degli effetti perversi dell’euro è stato quello di regalare a questi paesi una credibilità che essi alla prova dei fatti non meritavano. I mercati finanziari, abbagliati dalla raggiunta “eurocredibilità” di Spagna, Portogallo e Grecia, hanno cominciato a prestare a questi paesi più soldi di quanti essi ne potessero restituire. Perché questo non è successo all’Italia? Perché l’Italia non ha bisogno dei capitali esteri, dato che le sue famiglie risparmiano.

Il paradosso è che tutti avevano la sensazione che le cose stessero andando per il meglio, perché questo dicevano i parametri di Maastricht. Certo, ora si capisce quanto sia idiota definire la sostenibilità della finanza pubblica ponendo una soglia arbitraria al rapporto debito/Pil, dato che questo rapporto può essere abbassato drogando la crescita del Pil col ricorso ai capitale esteri, come hanno fatto Spagna, Grecia, ecc. La lente dell’ideologia deforma tanto a destra quanto a sinistra: quante volte abbiamo visto Rai 3 sdilinquirsi sul benessere che il governo di sinistra aveva regalato alla Spagna? Peccato che quel benessere fosse pagato dai soldi degli altri paesi. Del resto, analogo entusiasmo si era avuto per Clinton (e sappiamo com’è finita).

Sintesi: in assenza di un monitoraggio effettivo dell’indebitamento estero, l’euro non solo non basta a difendere i paesi membri dalle crisi finanziarie, ma può addirittura causarle indirettamente, nella misura in cui regala credibilità a paesi che non ne hanno. Ormai tutti dicono che le regole di Maastricht vanno riscritte: nel riscriverle bisognerà però aver presente un concetto di sostenibilità finanziaria più ampio, che tenga conto anche dell’indebitamento estero e sia meno ottusamente e ideologicamente concentrato sul solo debito pubblico. In caso contrario, ogni nuovo entrante sarà potenzialmente esposto alle dinamiche che hanno portato Spagna ecc. sull’orlo della bancarotta.

1 I provengono dall’OECD Statistical Compendium.

2 I dati provengono dal database del World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale (ottobre 2009).

3 I dati provengono dalla versione aggiornata del database di Philip R. Lane and Gian Maria Milesi-Ferretti, "The External Wealth of Nations Mark II" , Journal of International Economics 73, 223-250, November 2007.

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Commenti

È già successo

Ringrazio per i complimenti. Un economista, quando decide di parlare chiaro, posto che sappia farlo, sa comunque che rischia di compromettere la propria credibilità scientifica (che invece trae beneficio dal parlar fumoso), e quindi rassicura sapere che questo rischio non è stato corso invano.

L'osservazione non è impropria, e delinea benissimo i risultati di un meccanismo di informazione basato sulle favolette e sulla drammatizzazione dell'emergenza. Credo che la maggior parte dei cittadini del mondo evoluto abbiano capito che tutto stava andando bene, poi qualche finanziere cattivo ha emesso qualche titolo "tossico" (cos'è? bo'...) e tutto è andato a scatafascio. Hanno capito questo perché gli è stato raccontato questo, perché faceva comodo che capissero questo (del resto, al giro di valzer precedente avevano capito che tutto stava andando bene, poi c'era stato l'attacco alle torri gemelle che aveva messo in crisi l'economia)... Quello che è successo però è un'altra cosa, quella che dici tu: la principale economia del mondo ha preso in prestito più soldi di quanti ne potesse ragionevolmente restituire (sì, come la Grecia, e come l'Islanda) e questo ha determinato la crisi globale.

Quindi quello che dici è già successo, e sul perché e per come (asimmetrie del sistema monetario mondiale, ecc.) mi sono dilungato altrove (ad esempio nel mio libro sulla Cina).

Naturalmente ci sono differenze, che contano, e come. Ad esempio, l'Islanda può svalutare; gli Stati Uniti emettono la moneta correntemente usata come riserva valutaria (e quindi godono di un potere di signoraggio). La Grecia, poveretta, non può fare né l'una né l'altra cosa, e quindi sta peggio di tutti.

Un'altra differenza è che la Grecia pesa per meno dell'1% del Pil mondiale, mentre gli Stati Uniti pesano per un terzo del Pil mondiale, e quindi un loro starnuto rischia di buttarci per terra: una flessione del 3% dei consumi Usa corrisponde all'eliminazione dell'intera economia greca. Ecco perché quando tante famiglie statunitensi che avevano preso in prestito più soldi di quanti ne potessero restituire hanno dovuto vendere casa e tirare la cinghia il contraccolpo si è sentito dappertutto. Ma sempre di una crisi di debito estero si è trattato...

Complimenti!

Davvero complimenti (per quello che valgono), prof. Bagnai, per un articolo che espone con una chiarezza esemplare un argomento essenziale, ma spesso tralasciato.
A qualche mese di distanza dalla pubblicazione di questo suo intervento, alla luce dell'evoluzione delle criticità del debito greco, della speculazione selvaggia (tutta occidentale) che l'ha innescata, dei riflessi di quest'ultima sui corsi valutari, voglio proporre una riflessione (magari impropria o irrilevante: pazienza, colgo l'invito e...mi sbilancio!): conviene ai grandi operatori finanziari continuare a silurare l'area euro, se il sottoprodotto immediato di simili attacchi è un apprezzamento (assai significativo, direi) del dollaro, in un momento in cui la domanda internazionale non è certo alle stelle? Mi sembra di ricordare che proprio lei, prof. Bagnai, abbia prestato una certa attenzione alla questione dei deficit gemelli USA: per farla breve, la gran parte del debito estero americano (che lei, nel suo contributo, ha ricordato essere il primo al mondo) è denominato in dollari (e gran parte del credito in valute straniere); lo stress a cui la crisi attuale sta sottoponendo il bilancio pubblico e la bilancia dei pagamenti va ad aggravare una situazione di eccezionale squilibrio, che destava forti preoccupazioni già prima dell'avvento della crisi stessa. Proprio queste preoccupazioni suggerivano la politica del dollaro debole. Queste forti pressioni al ribasso sulla moneta unica, invece, non rischiano di far diventare subprime il debito della prima economia mondiale? La sto sparando (volutamente) grossa, ma credo che dietro l'interesse mostrato dal presidente Obama al salvataggio greco (e, in una prospettiva più generale, dietro al suo disegno di riforma del settore finanziario) ci siano anche timori di questo tipo.

...unitevi!

Sicuramente il problema della competitività per la Spagna è prioritario. Nei primi dieci anni dell'euro la Spagna ha avuto in media un punto di inflazione in più rispetto all'area euro (inflazione media al 3% anziché al 2%). L'Italia invece è stata più o meno in linea con la media europea. Se i tuoi prezzi aumentano rispetto a quelli dei tuoi concorrenti, diventi sempre meno competitivo.

Devo però dire, e non è una critica, ma solo l'ammissione di un limite e il tentativo di costruire un metodo, che ho un po' di difficoltà a gerarchizzare i problemi, in un mondo in cui "tout se tient", soprattutto perché trovo difficile gerarchizzare le soluzioni.

Mi spiego.

Che dovrebbe fare la Spagna per diventare più competitiva? Evitiamo qui di citare soluzioni politichesi del tipo "competere nell'economia della conoscenza, investire in ricerca", le tipiche frasi che i governi dicono mentre tagliano i fondi all'università e (peggio ancora) alla scuola primaria. Queste asserzioni saranno anche fondate in linea di principio (la competitività "non di prezzo" esiste), ma chi la ricerca la fa sa che i risultati arrivano dopo, e qui il problema è non far esplodere l'euro adesso (per chi considera l'euro una cosa da difendere, naturalmente).

Rimaniamo ai fondamentali macroeconomici. La Spagna, per migliorare la competitività, non può svalutare, quindi può solo contenere il proprio tasso di inflazione. Per contenerlo non ha lo strumento della politica monetaria, che in una unione monetaria non è autonoma. Quindi alla fine le strade sono due: raffreddare la domanda interna con una politica fiscale restrittiva, e incidere sulla dinamica dei salari con riforme del mercato del lavoro (il che, peraltro, si ripercuote sulla domanda interna, perché se i salariati hanno meno soldi poi spendono di meno, a meno che non si indebitino, e torniamo all'inizio del dibattito!).

A meno che non ci siano altre vie (qui scriviamo di corsa), il risultato sarà comunque un abbattimento dei consumi (privati e pubblici) e quindi un aumento del risparmio; SEGUIREBBE una diminuzione delle importazioni attraverso la duplice leva della minor domanda (subito) e del peggioramento delle ragioni di scambio (col tempo). Per questo motivo, se torno alla lezioncina, e gerarchizzo dal lato delle soluzioni (anziché da quello dei problemi), sono tentato di dire che, soprattutto in un paese che non ha autonomia monetaria né valutaria, forse conviene comunque vedere le cose dal lato dell'equilibrio fra risparmio e investimento.

Questo è dichiaratamente un discorso di breve periodo. Nel lungo periodo, se le democrazie consentissero di avere governi non miopi, sicuramente sarebbe rilevante o addirittura risolutivo il discorso della competitività non di prezzo.

Insolventi di tutto il mondo...

Grazie per la "lezioncina", che effettivamente è utile per chiarire. Penso che per la Spagna il "motore" del problema sia la bilancia commerciale. La Spagna ha quindi in primo luogo un problema di competitività .

Insolventi di tutto il mondo...

Grazie per l'apprezzamento. A questo punto oso mettere una formula, quella del saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti (CA, current account):

CA = X - M + NFI = S - I = D(NFA)

Questa relazione dice che il saldo estero è uguale a tre cose (contabilmente, per i dettagli, petite et dabitur vobis):

- alla somma di saldo commerciale (esportazioni, X, meno importazioni, M) e redditi netti dall'estero (NFI)
- alla differenza fra risparmio nazionale e investimento nazionale
- alla variazione (indicata con D()) delle attività nette sull'estero (NFA)

Insomma, se CA è negativo il paese si indebita (diminuisce NFA, quindi aumenta il debito netto estero), e questo può succedere se la somma di X-M e NFI è negativa, o se gli investimenti sono maggiori dei risparmi nazionali. Sono due modi di vedere lo stesso fenomeno, entrambi utili. Tenete presente che se in un paese i consumi sono elevati, allora i risparmi saranno bassi, e le importazioni elevate: questo chiarisce un po' il tipo di relazione.

Mi scuso per la lezioncina, ma il dettaglio è utile per precisare ulteriormente come stanno le cose. Penso che ne valga la pena.

Il punto è che quando CA è negativo (cioè il paese si sta indebitando) non è immediato capire quale possa essere l'effettivo "motore" del fenomeno:scarsa competitività dell'export? Consumi eccessivi (e quindi risparmi scarsi)? Una cosa però è (quasi) certa, ovvero che se il saldo delle partite correnti (CA) è negativo e minore del saldo commerciale, allora NFI è negativo (aritmetica!), il che significa che il paese sta pagando ai fattori esteri (lavoro e capitale) più redditi di quanti i suoi fattori ne ricevano dall'estero (es.: CA=-100 con X-M=-50 significa NFI=-50; da questi esempi capite quanto sia difficile insegnare oggi!).

E dopo aver fatto vedere che so parlare difficile e oscuro anch'io, torno alla sintesi: un valore negativo di NFI in un paese fortemente indebitato con l'estero significa che il paese si sta avviando sulla spirale debito estero->interessi da pagare all'estero (NFI negativo)->ulteriore debito estero (perché NFI entra in CA).

In Spagna il saldo dei redditi (NFI) è passato da -25 a -43 miliardi di dollari fra 2006 e 2007. Era -8 miliardi nel 1998. Nel 2007 circa metà dell'aumento dell'indebitamento netto estero della Spagna (cioè del peggioramento di CA) era spiegato dalla bilancia dei redditi (cioè era un peggioramento di NFI). I dati che ho (IFS) non permettono di vedere se questi redditi erano da lavoro o da capitale (interessi sul debito), ma ovviamente la concomitante esplosione del debito estero qualche indicazione la dà.

In altre parole: non so se quello spagnolo è nato come un problema di troppi consumi e quindi troppe importazioni, o di poca competitività e quindi poche esportazioni, o entrambi: si potrebbe andare a vedere. Quello che è certo è che un paio di anni fa già si qualificava come un problema di spirale del debito (quando uno si indebita per pagare gli interessi...), un bel Ponzi game, dal nome del parmense (ed ex allievo della Sapienza) Carlo Ponzi!

Alberto

P.S.: se può aiutare: il saldo commerciale sta al debito estero come il saldo primario a quello pubblico, NFI sta al debito estero come la spesa per interessi sta a quello pubblico.

Subprime d'Europa

Bravo prof.Bagnai : ha messo in luce un punto essenziale assai poco trattato da altri !
Mi sentirei di aggiungere due cose :
1) L'indebitamento estero di Spagna e Grecia è in misura prevalente il risultato degli insostenibili deficit delle loro bilance commerciali. Nel 2008 la Spagna ha fatto registrare il secondo deficit mondiale in valore assoluto, dopo quello degli USA. Una situazione chiaramente assurda ed insostenibile.
2) Il trattato di Mastricht non prevede alcuna procedura di aiuto e sostegno al debito da parte dei paesi aderenti : ma i continui "moniti" e "richiami" della Commissione e della BCE (esclusivamente sui conti pubblici) hanno alimentato la convinzione che il debito dei paesi aderenti fosse "garantito" dall'Europa. E' stato un incauto e maldestro "bluff" da parte delle Autorità Europee ed un tipico caso di "moral hazard" da parte di chi ha prestato. Il fatto che adesso chi ha prestato possa subire una perdita mi sembra tutto sommato salutare e chiarificatore.

Transizione e eurocredibilità

Grazie per il riconoscimento. Un amico musicista mi ha segnalato un aforisma di Wittgenstein: "Qualunque cosa che può essere detta, può essere detta in modo chiaro". Dovremo parlarne un giorno!

Nell'intervento intendevo come eurocredibilità la credibilità dell'euro, non dell'Europa (intesa come Unione). Questo restringe il campo a due paesi: Slovenia (dal 2007) e Slovacchia (dal 2009). Di tempo ne è passato poco, tuttavia i dati del FMI segnalano che in Slovenia dal 2007 l'indebitamento estero è raddoppiato (da una media di 2.1 punti di PIL nei due anni precedenti a una media di 4.8). Anche la Slovacchia non sta tanto bene: negli ultimi dieci anni il suo indebitamento con l'estero ha sempre viaggiato sopra i cinque punti di Pil, tranne in due anni.

Ovviamente il debito è rilevante: nell'ultimo anno disponibile (il 2007) in Slovacchia era al 61% del Pil; in Slovenia era a livelli più bassi (attorno al 20%), ma la dinamica è impressionante (è decuplicato in sette anni).

Questi però sono solo dati, la discussione andrebbe allargata alle motivazioni per le quali i capitali vengono importati: per costruire uno stabilimento, o una villetta a schiera in riva al mare? C'è differenza. Aspetto l'aiuto di colleghi più competenti.

Alberto

Appunto...

Caro Mario,

il senso del mio intervento andava (se pure implicitamente) esattamente nella direzione del tuo commento: in effetti, se il debito pubblico (lordo) di un paese è al 40% del Pil, e il debito estero (netto) al 100%, c'è evidentemente un grosso problema di debito privato. Diciamocelo pure: anche se questa cosa per primo ha osato dirla uno che a noi non sta simpatico (tant'è che non lo nomino nemmeno), non per questo è una scemenza: il debito privato conta (e in Italia ce n'è evidentemente meno che nei paesi dei quali tratto nel mio intervento: lo si capisce appunto incrociando debito pubblico e debito estero).
Quello che mi stupisce, da economista, è che dopo quello che è successo in America ancora non si capisca che il debito privato conta (soprattutto quando è anche estero). Alla fine, sotto Clinton è raddoppiato il debito privato, più specificamente quello delle famiglie, non quello pubblico... e i risultati si sono visti!
Il problema è che sotto la lente deformante dell'ideologia se si indebitano le famiglie va tutto bene: siamo nel mondo di Arrow-Debreu, dove non esistono vincoli di liquidità perché le persone possono rivolgersi a mercati finanziari efficienti ecc (un amico che sta alla Commissione Europea mi raccontava scandalizzato degli economisti che venivano a fare i loro sermoni sul fatto che l'Italia era un paese finanziariamente arretrato perché si usavano poco le carte di credito).
Se si indebita lo Stato, anatema sit: lo Stato deve essere minimale: quanto vuoi indebitarti per respingere un po' di fattore lavoro alle frontiere e per esportare un po' di democrazia?
Dopo di che, negli ultimi due anni sono fallite più famiglie (negli Stati Uniti) che Stati, ma questo evidentemente non conta... o invece sì, visto che i consumi delle famiglie americane ammontano al doppio del Pil di Brasile, India, Russia e Cina (e anche questo andrebbe ricordato)!

Un saluto etnicamente fazioso, e grazie come sempre per avermi aiutato a chiarire e chiarirmi le idee.

Alberto

debito estero

Complimenti! Per la chiarezza, se non altro. Grazie davvero. Mi chiedo: come sono messi i Paesi dell'Europa dell'est? Hanno anch'essi aprofittato di una "eurocredibilità"?

Stati subprime

Ottimo, Alberto. Con due qualificazioni che ritengo importanti:

Quando il debito pubblico nelle mani dei cittadini è denominato in valuta nazionale può essere considerato meno deleterio di quello denominato in valuta estera come accade per la maggior parte del debito estero. Ma quando tutto il debito pubblico è denominato in euro c'è poco da rallegrarsi che parte di esso sia nelle mani dei propri cittadini: l'importante è se sia possibile rinnovarlo alla scadenza e aumentarlo nella misura necessaria; anche i BOT people hanno rapidamente cambiato le proprie abitudini di investimento. Guardiamo quindi al debito pubblico totale, senza consolarci per la quota detenuta dai risparmiatori nazionali.

E, giacché ci siamo, guardiamo non solo al debito pubblico ma anche all'indebitamento delle imprese private e delle famiglie, totalmente ignorato dai vari vincoli dell'EU e dell'EMU.