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Intervista a Carmen Palencia, candidata del Partido Liberal e attivista di Tierra y Vida

08/03/2014

Domenica 9 marzo la Colombia va alle elezioni legislative. In ballo c’è soprattutto il contrasto al ritorno dell’estrema destra uribista che potrebbe alterare gli equilibri sfavorevolmente agli accordi di pace attualmente in discussione a Cuba. Di questo e altri temi cruciali discutiamo con Carmen Palencia.

Quest’ultima sì definì scherzosamente la comunista nel Partido Liberal, un partito di centro sinistra che nell’epoca dell’oligarchia si contendeva il potere con i conservatori. Dentro il Partito, per il quale si candida alle prossime legislative di marzo, rappresenta l’anima movimentista e portavoce delle vittime, soprattutto di coloro che reclamano la terra da cui sono stati spogliati ad opera del violento progetto di contro-riforma agraria sostenuto dal paramilitarismo e dal potere tradizionale latifondista.

Una traiettoria di testimonianza che ha segnato la sua vita in forma permanente: il primo attentato paramilitare le uccise il marito; il secondo le lasciò una pallottola in corpo. Oggi vive con due uomini di scorta e per assenza di condizioni di sicurezza è costretta nella capitale Bogotá, anche se il cuore della sua battaglia è l’Urabá, una regione contesa tra i dipartimenti di Antioquia, Chocó e Cordoba (nel Nord Ovest del Paese).

L’Urabá è paradigmatico: la storia del saccheggio agrario mette insieme tutti gli ingredienti di questa tragedia colombiana. I principali responsabili furono i due fratelli Castaño, leader della principale organizzazione paramilitare, ma secondo le denunce della Fiscalia (la Procura), sono state accertate responsabilità da parte della principale associazione degli allevatori della zona (Fondo Ganadero de Cordoba) e di membri delle istituzioni, in particolare l’Incora (Instituto Colombiano de la Reforma Agraria), oggi Incoder (Instituto Colombiano de Desarrollo Rural).

La sua strategia politica passa attraverso l’aggregazione delle forze a sinistra – fondò l’Associazione Tierra y Vida che raccoglie tutte le principali associazioni che si occupano di restituzione – e l’appoggio al processo iniziato nel 2011 con l’approvazione della Ley de Tierras, la legge che sancisce il diritto delle vittime a riavere la terra da cui sono stati espulsi.

Signora Palencia, quali sono le condizioni di sicurezza sue e degli altri attivisti di Tierra y Vida?

La mia campagna si sta svolgendo tra minacce, intimidazioni e persecuzioni. La situazione è molto delicata, per tutti gli attivisti.

Come procede il processo di restituzione?

In questo momento il processo è bloccato, in tutto il Paese. E soprattutto siamo preoccupati per le menzogne: il direttore della Agencia de Restitución mi comunicò personalmente di avere avviato 300 procedimenti presso i magistrati competenti. Quando vengo a parlare con l’Unità Regionale qui nell’Urabá, il direttore mi dice che si tratta di 148, e il giudice in realtà parla di 48 e addirittura un solo caso risolto.

Mancano appropriate istituzioni o la volontà politica?

C’è un concorso di elementi, ma soprattutto c’è un problema drammatico di corruzione a livello regionale.

Ci sono le condizioni di sicurezza per chi rientra nei possedimenti da cui era stato espulso?

Questa è la ferita aperta. Da sette-otto anni chiediamo alla magistratura di mettere sotto processo chi ha finanziato i criminali che ci minacciano e ci uccidono. Quando finalmente qualcosa si muove e la Fiscalía provvede alle prime importanti catture, ci troviamo di fronte all’Agencia che non fa nulla.

Nel caso dell’Urabá le responsabilità delle associazioni di categoria (degli allevatori) e delle istituzioni sono ormai state accertate, oggi come si pongono questi organismi nei confronti del processo?

Le cose continuano come prima, il direttore del Fondo Ganadero continua a cercare di delegittimarmi e continua a minacciare. Lo stesso accade per i membri della corporazione che permangono sulle terre che hanno estorto. Anche il processo di desplazamiento continua. Nelle altre zone (Catatumbo, Montes de Maria, Cesar, Guajira…) la situazione è identica.

Al di là delle difficoltà nella restituzione, uno dei temi cruciali è la continuazione del processo di concentrazione attraverso forme differenti. Un tema portato alla luce è quello dell’appropriazione da parte di multinazionali di baldíos, terreni di proprietà dello Stato, non coltivati né edificabili, affidati a campesinos e che per legge non si possono accumulare.

È lo stesso processo con la medesima dinamica. Se lo Stato non riesce a catturare un allevatore, come farà con una transnazionale? Non succederà finché il processo permane sotto il controllo dei funzionari regionali.

A distanza di anni dalla loro smobilitazione, i paramilitari sono ancora una minaccia, sebbene abbiano cambiato di nome (Bacrim). Vede una prospettiva di soluzione del problema?

Il problema è estremamente complicato, ma a volte i problemi complicati si risolvono nel modo più semplice possibile. Non bisogna catturare quelli con la pistola in mano, bisogna catturare i finanziatori. Questo, mi ripeto, non succederà mai fino a che dipenderà delle autorità regionali, perché queste ultime sono cooptate. Il governo deve operare direttamente dal centro per assicurare alla giustizia queste persone e poi investire nel post-conflitto, per lo sviluppo della zona. Questa è una lezione dei precedenti casi di smobilitazione che bisogna tenere presente nell’attuale processo di pace.

Non vede una contraddizione in termini di fattibilità politica? Il presidente Santos approvò la Ley de Tierras e porta avanti la scommessa del tavolo negoziale a Cuba con le Farc, ma sostiene le politiche neoliberali che danno linfa al conflitto a livello rurale.

Santos ha fatto passi avanti enormi. Riconosce l’esistenza di un conflitto interno, riconosce le vittime, approva la legge per riparare, prende l’iniziativa per un accordo di pace. Certo, c’è una politica strutturale neoliberale, che viene da lontano, che sta facendo disastri e che Santos deve smontare poco a poco. Questa contraddizione va risolta con l’iniziativa delle forze sociali.

Mentre la rielezione sembra abbastanza sicura, ci sono dubbi sul peso che avrà il Centro Democratico di Uribe (l’estrema destra, ndr) nel futuro Parlamento, un suo successo potrebbe cambiare gli equilibri?

Sono ottimista. Io sono vittima dell’uribismo da moltissimo tempo, lo conosco e so il potere che possiede. Tuttavia non mi fa paura, perché la sinistra sta crescendo, e crescerà ancora di più se le Farc riconosceranno le loro vittime, consegneranno le armi e parteciperanno alla politica. L’unità si può costruire anche con i partiti tradizionali della sinistra e con le nuove leadership nei movimenti sociali che stanno affermandosi.

Appoggia l’idea di un referendum per approvare gli accordi della negoziazione a Cuba?

Sì e vinceremo. Io parlo con le vittime in tutto il paese e non credo ai sondaggi. Io vedo appoggio maggioritario per la fine del conflitto.

 

 

 

 

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