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La strada stretta della Francia di Hollande

23/09/2012

Tagli di spesa ma tasse ai più ricchi, licenziamenti nell’industria ma assunzioni nella scuola, Fiscal compact da votare ma fuori dalla Costituzione. Il governo socialista-verde francese cerca una via intermedia tra ortodossia e cambiamento

PARIGI. Dopo un’estate affrontata con molta calma (“tranquillou” ha ironizzato con l’accento del sud Jean-Luc Mélenchon del Front de Gauche), a poco più di quattro mesi dall’elezione François Hollande è ora di fronte a una prima prova del nove per la sua maggioranza, mentre la popolazione già manifesta grande impazienza e i sondaggi rivelano che la fiducia nel nuovo presidente e nel governo Ayrault è già crollata sotto il 50%: nei prossimi giorni, dopo aver presentato la finanziaria 2013 (28 settembre) con i tagli annunciati di 10 miliardi sulle spese e gli aumenti di 20 miliardi di prelievi fiscali, dal 2 ottobre il Parlamento è chiamato al voto per la ratifica del Trattato di stabilità, coordinamento e governance (Tscg, il “Fiscal compact”) e del suo corollario, la legge organica sulle finanze pubbliche (già presentata in Consiglio dei ministri la scorsa settimana), che integra nel diritto francese la “regola aurea”, cioè l’obbligo di avere i conti “in equilibrio o in eccedenza”. Si tratta della principale misura del Tscg, che Sarkozy voleva introdurre nella Costituzione, secondo le preferenze di Bruxelles, ma che Hollande ha scelto di trasporre sotto forma di legge organica (comunque superiore, in diritto francese, alle leggi ordinarie, a cui appartiene la finanziaria). Nel frattempo, il Front de gauche e tutta l’area contestatrice organizzano per il 30 settembre una manifestazione contro la ratifica del Tscg e in favore di un referendum. Un’analoga richiesta è avanzata anche dal Fronte nazionale e dai “sovranisti” ostili a trasferire nuovi poteri all’Europa. Secondo un recente sondaggio, il 67% dei francesi pensa che negli ultimi vent’anni la Ue sia andata “piuttosto nella cattiva direzione” e il 76% ritiene che “non agisca in modo efficace per limitare gli effetti della crisi attuale”. Hollande non ha potuto mantenere la promessa elettorale di “rinegoziare” il Tscg, ma spera che la maggioranza si accontenti del modesto “Patto di crescita” di 120 miliardi che si vanta di aver fatto aggiungere al Trattato.

Al parlamento lo scontro si annuncia feroce all’interno della maggioranza, con il rischio che il Tscg passi grazie ai voti della destra: l’ala sinistra del Ps e con molta probabilità una parte importante degli ecologisti minacciano di votare “no” al Tscg, perché ritengono che la regola aurea e l’istituzione dell’Alto Consiglio delle finanze pubbliche, che ne giudicherà il rispetto, limitano le prerogative del Parlamento, tra le quali figura in primo piano l’adozione della finanziaria. Il parlamento, affermano – contrariamente al Consiglio costituzionale che ha stabilito con grande sollievo di Hollande che con il Tscg non ci sono nuovi trasferimenti di sovranità e che quindi la Costituzione non deve essere modificata – avrà le mani legate dagli obblighi verso Bruxelles e margini di manovra sempre più limitati. Per sormontare questo scoglio, Hollande ha mandato in prima linea il ministro degli affari europei, Bernard Cazeneuve, scelto a sorpresa nel maggio scorso non tra i numerosi europeisti del Ps, ma tra coloro che si erano schierati per il “no” al referendum del 2005 sul Trattato costituzionale, bocciato in Francia (e in Olanda) con una buona maggioranza. Più che di una pratica leninista, si tratta del “metodo Hollande”: smorzare le divisioni, creare il consenso prendendo tutto il tempo necessario.

 

Ma il tempo stringe per Hollande e per la Francia. Per il momento, Parigi ha la benevolenza dei mercati. I tassi di interesse su un debito che nel 2011 era di 1717,3 miliardi di euro (87% del Pil) stanno battendo i record storici al ribasso (2,46% a dieci anni, cioè un tasso negativo in termini reali, come per la Germania), malgrado un deficit pubblico del 4,5% quest’anno e 70 miliardi di deficit commerciale. Ma l’economia reale non va bene: ci sono 3 milioni di disoccupati (10,4% della popolazione attiva), un record che rischia di aggravarsi con le minacce di licenziamenti in corso, dalla Peugeot (8 mila tagli) a ArcelorMittal, passando per il Crédit Immobilier e una miriade di altre imprese, alcune in vera difficoltà, altre intenzionate a eseguire “licenziamenti di Borsa” (come Sanofi), senza che il governo abbia per il momento preso misure per contrastarle, malgrado le gesticolazioni del ministro del Rilancio produttivo, Arnaud Montebourg (che sostiene, senza troppe prove, di aver “salvato” più di 15 mila posti di lavoro in quattro mesi).

 

Hollande ha fatto una scommessa: entro la fine dell’anno la crisi dell’euro sarà superata, la speculazione sui debiti sovrani dei paesi del sud si sarà fermata, la Bce riuscirà a calmare i mercati con la promessa di acquisiti “illimitati”, il Mes (Meccanismo europeo di stabilità, sbloccato dalla recente decisione della Corte costituzionale tedesca), sarà operativo e l’Unione bancaria sarà avviata. Pur avendo dovuto rivedere al ribasso per la terza volta da quando è stato eletto le previsioni di crescita per la Francia – ormai stabilite a più 0,8% nel 2013, cifra del resto considerata ancora ottimista da una maggioranza di economisti – Hollande ritiene che gli aumenti di imposte e i tagli previsti dalla finanziaria non avranno effetti recessivi: le misure fiscali sono concentrate sui più ricchi (la tassa-simbolo del 75% sui redditi oltre il milione di euro l’anno, che esclude però i redditi da capitale, il nuovo tasso marginale al 45% al di là di 150 mila euro di reddito, i tagli alle “nicchie” fiscali limitate ormai a 10 mila euro) e sui grossi gruppi industriali e finanziari, mentre il governo afferma che è stato protetto il potere d’acquisto delle classi medie e le capacità di investimento della piccola e media impresa sono state preservate. Inoltre, il governo spera che le misure a favore delle case popolari abbiano effetti rapidi sull’economia. Si aggiungono i 150 mila “impieghi d’avvenire” finanziati per i giovani poco qualificati e il nuovo contratto “di generazione”, con ribassi dei contributi per le imprese che assumono un giovane e mantengono un senior come tutor. C’è stato anche un minuscolo aumento dello Smic (salario minimo), il ritorno alla pensione a 60 anni per le carriere lunghe, il rallentamento del calo del numero di funzionari pubblici e, pochi giorni fa, la promessa di assunzione di 60 mila insegnanti nel 2013. C’è un progetto di riconversione energetica, con l’impegno di chiudere la più vecchia centrale nucleare, a Fessenheim, e di investire nelle energie rinnovabili. Come contropartita, tutti i ministeri (salvo la scuola, la sicurezza e la giustizia) subiranno tagli (già annunciati quelli alla Cultura, con l’abbandono della maggior parte dei progetti avviati sotto Sarkozy).

 

Il tutto con l’intenzione di rispettare la promessa di riforme “giuste”, sottolineando che il periodo di sacrifici durerà due anni, una parentesi, anche di impopolarità, che Hollande è pronto ad affrontare in vista di una ripresa verso la fine del suo mandato. Hollande si è limitato alla promessa minima di “un’inversione” della curva della disoccupazione entro fine 2013, che non significa più occupazione, ma fine dell’aumento del numero di senza lavoro. Ma di fronte a un congiuntura più negativa del previsto, secondo molti economisti sarà impossibile per la Francia rispettare l’impegno, ribadito da Hollande, di riportare i deficit al 3% fin dal 2013, a meno di aumentare di altri 10 miliardi il giro di vite, con il rischio di un’esplosione sociale. In questi giorni, il ministro delle finanze, Pierre Moscovici, lascia filtrare previsioni di aumento dei contributi sociali per tappare un po’ il buco della Sécurité sociale (14,7 miliardi quest’anno) o addirittura il ritorno della tanto criticata (e annullata dopo le elezioni) “Iva sociale” per far diminuire il costo del lavoro.

 

Hollande pensa di avere qui un’altra carta da giocare. Scommette che se la recessione del terzo trimestre di quest’anno (meno 0,1% secondo i dati della Banque de France) si prolungherà nel 2013, tutta l’Europa ne subirà le conseguenze. Quindi anche la Germania dovrà far prova di pragmatismo e allentare i cordoni del rigore. I francesi spingono a Bruxelles perché i tempi richiesti per il ritorno all’equilibrio nella zona euro siano prolungati; ci sono già dei segnali in questa direzione, con le concessioni fatte alla Spagna, in vista per il Portogallo e persino per la Grecia, mentre fuori della zona euro c’è il modello della Svezia, che ha varato un piano di rilancio. Con più tempo davanti a sé, Hollande pensa di avere maggiori margini di manovra per affrontare la questione della competitività francese, senza scassare il modello sociale e senza cedere del tutto al padronato che vuole mani libere nel mercato del lavoro. Per altri versi Hollande sembra seguire, a piccoli passi, a un decennio di distanza l’agenda di Gerhard Schröder, interpretata come la pietra miliare del recupero di competitività in Germania.

 

Per far passare la medicina, il governo insiste su un punto-chiave del Tscg: a differenza dei meccanismi di controllo in vigore oggi (Maastricht, il Six Pack, che fissano al 3% il deficit massimo), il nuovo Trattato prevede di limitare il “deficit strutturale” (allo 0,5% del Pil), cioè prende in considerazione un deficit epurato dagli effetti del ciclo economico (ma vi aggiunge il rigore di sanzioni automatiche per i trasgressori). Basarsi sul deficit strutturale permetterebbe un maggiore margine di manovra in tempi difficili, pensa Parigi. Resta da trovare su questi punti un’intesa con la Germania. La Francia sarà chiamata a rispondere alla richiesta tedesca di maggiore federalismo, contropartita per accettare maggiore solidarietà da parte di Berlino. Ma in Francia “le parole con la F” sono invise, tanto quanto lo sono in Gran Bretagna. Per Hollande, che nel 2005 come segretario del Ps subi’ la sconfitta al referendum sul Trattato costituzionale, la scottatura è ancora troppo recente per avere il coraggio di affrontare una nuova lacerazione della sinistra sui temi europei.

 

 

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