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L’economia cinese è in difficoltà?

06/07/2011

Bric/Cina. Può durare indefinitamente una crescita economica che viaggia al ritmo del dieci per cento all'anno? Ecco alcuni spunti per riflettere in un modo argomentato sulla questione

“…il modello dell’economia cinese è instabile, sbilanciato, non coordinato e insostenibile…”

Wen Jiabao, 2007

Premessa

Da quando nel 1979 Deng Tsiao Ping varò la nuova politica economica del paese, che avrebbe portato a una crescita forte dell’economia cinese sino ai giorni nostri, non sono mancati quelli che hanno periodicamente previsto l’arresto del boom e questo per tutta una serie anche plausibile di ragioni. Ma il tempo è paziente e si è incaricato sempre di smentire, almeno sino a oggi, tutti i dubbiosi. Così il pil del paese si è sviluppato, tra il 1979 e il 2010, a un tasso annuo prossimo al 10%.

Oggi le previsioni di un rallentamento dello sviluppo vengono riproposte da varie fonti ed esse presentano un livello di attendibilità che sembra superare quello solito.

I critici

Sulla stampa internazionale sono apparsi di recente numerosi articoli che mostrano preoccupazione per l’andamento futuro dell’economia. Ricordiamo un rapporto speciale dell’Economist (“Rising Power, anxious state)”, nel numero del 25 giugno 2011; uno scritto di M. Wolf sul numero del 15 giugno del Financial Times, “How China could yet fail like Japan”; sempre sul Financial Times, questa volta del 18-19 giugno, un pezzo di J. Anderlini, “China’s army of migrant workers grows restlesse su quello del 31 maggio, dello stesso autore,Fate of China property is global concern”; ancora, un editoriale apparso su Le Monde del 16 giugno dal titolo “Le modèle chinois pris dans ses contradictions;” sullo stesso numero del giornale un articolo di B. Pedroletti, “Le modèle chinois de controle social est en crise;” ricordiamo poi un ultimo testo reperibile sul numero del 15 giugno a firma di H. Thibault, “L’inflation chinoise reste élevée, tandis che l’économie commence à ralentir;” segnaliamo, tra i diversi scritti dedicati dal New York Times al tema, uno di D. Barboza sul numero del 20 giugno, “China’s boom is beginnning to show cracks, analysts say.” Al coro dei critici si è aggiunto anche N. Roubini, come è segnalato in un articolo di Le monde del 15 giugno a firma di M. de Vergès, “Nouriel Roubini prédit un atterrissage difficile.”

Ridotto è invece il numero dei testi più ottimistici sulla questione. Segnaliamo, tra questi, un articolo di Yukon Huang sul Financial Times del 25 giugno, “The mith of China’s unbalanced growth”, nonché uno scritto dello stesso Wen Jaobao, apparso sul Financial Times del 24 giugno. Inoltre, nel supplemento dell’Economist, sono riportate delle analisi di A. Kroebel della FK Dragonomics e di L. Kuijs, della Banca Mondiale, importanti esperti dell’economia cinese, che vanno anch’essi nella stessa direzione.

I problemi rilevati

I critici sottolineano almeno sette questioni, alcune di tipo strutturale, altre, invece, di carattere, almeno apparentemente, più congiunturale.

Li elenchiamo di seguito.

a) i problemi economici

1) M. Wolf, appoggiandosi anche alle analisi di M. Pettis, dell’università di Pechino, ricorda che il 12° piano quinquennale prevede un forte mutamento nella velocità e nella struttura dello sviluppo economico del paese. Esso indica che il tasso di crescita del pil scenderà al 7% annuo e che l’economia passerà da uno sviluppo centrato sugli investimenti a uno focalizzato sui consumi. Wolf e Pettis sottolineano le rilevanti difficoltà di una tale trasformazione. In un modello di sviluppo quale quello attuale, sostengono gli autori, il contenimento dei consumi gioca un ruolo centrale nel sussidiare gli stessi investimenti. Rimuovere tale freno rischia di portare a una forte caduta nei livelli di produzione e degli investimenti, come è accaduto del resto in Giappone negli anni '90. Appare difficile per un paese che investe ogni anno il 50% del suo pil ridurre fortemente tale percentuale in maniera ordinata. Per altro verso, alcuni autori, tra i quali Pettis e Roubini, sottolineano la crescente caduta nei livelli di produttività degli stessi investimenti, il cui finanziamento sta, d’altro canto, aumentando in maniera rilevante il livello di indebitamento pubblico. Nessun paese, afferma Roubini, può concentrare il 50% del suo pil in nuovi investimenti senza doversi alla fine confrontare con una sopracapacità produttiva immensa e una altrettanto rilevante difficoltà a restituire i debiti contratti allo scopo;

2) nel supplemento dell’Economist già citato, in un secondo testo precedente (Economist, 2011), nello scritto di Wolf e in uno di Magnus (Magnus, 2011) viene ricordato il problema della “trappola dei paesi a medio reddito”. Si fa riferimento al fatto che, spesso, a un certo punto dei processi di sviluppo di un paese, la crescita rallenta o svanisce del tutto. Così, guadagnare per un certo periodo terreno sulle nazioni già sviluppate è molto più facile che raggiungerle. Secondo le analisi sviluppate da alcuni studiosi (Eichengreen, Park, Kwano Shin, 2011) la soglia critica può essere fissata al livello di 16.740 dollari di reddito pro-capite misurato con il criterio della parità dei poteri di acquisto. Soltanto il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore sono riusciti a fare il salto negli ultimi 60 anni. Il fatto è che man mano che l’economia cresce essa diventa più complessa e richiede, per continuare a svilupparsi, grandi mutamenti strutturali, tra i quali una molto maggiore capacità di innovazione (prima, aumentare la produzione era più semplice e bastava copiare quello che avevano già fatto i paesi ricchi) e la messa in opera di istituzioni di grande qualità, in particolare nell’area legale. Il problema, su questo ultimo fronte, è che la riforma si scontrerebbe in Cina con il primato del partito sullo stato e sul potere giudiziario. Per altro verso, dal punto di vista più strettamente tecnico, un rischio rilevante è quello che un paese emergente possa, a un certo punto, perdere competitività nelle industrie labour-intensive e non riuscire però a trovare nuove fonti di crescita;

3) Anderlini fa riferimento, nel suo scritto del 31 maggio, al tema delle attività immobiliari. L’autore ricorda come il settore sia alla fine cruciale anche per il buon andamento dell’economia globale. La Cina consuma sino al 50% della produzione mondiale di alcune commodity chiave come cemento, materiali ferrosi, acciaio e carbone, mentre il settore delle costruzioni è alla radice di questa domanda. I governi locali, per andare avanti, dipendono poi finanziariamente dalla vendita di terreni agli immobiliaristi. L’attuale livello di crescita record del settore, parallelamente a un costante e rilevante aumento dei prezzi, non è però sostenibile nel lungo termine;

4) come sottolinea H. Tibault su Le monde, il livello dell’inflazione suscita molte preoccupazioni; esso ha raggiunto il tasso del 5,5% a maggio del 2011, contro un obiettivo dichiarato del governo per l’intero anno del 4%. E questo malgrado gli sforzi importanti per frenare il fenomeno, attraverso in particolare quattro aumenti successivi dei tassi di interesse e nove incrementi del livello di riserva obbligatoria per le banche. Tale aumento è, da una parte, una conseguenza dell’atteggiamento monetario lassista tenuto negli scorsi anni per superare la crisi economica mondiale, dall’altra esso è anche da collegare all’aumento internazionale dei prezzi delle materie prime e dell’energia. Ora, la crescita dei prezzi in un paese ancora emergente come la Cina porta instabilità e scontento sociale. D’altro canto, la stretta creditizia in atto rischia di frenare la crescita dell’economia, come sembrano indicare le cifre recenti che mostrano in particolare un rallentamento della produzione industriale;

5) sul fronte finanziario, secondo alcuni (Rabinovitch, Anderlini, 2011), l’indebitamento del settore pubblico potrebbe aver raggiunto livelli critici. Secondo le cifre ufficiali esso sarebbe pari almeno al 20% del pil. Ma se aggiungiamo i debiti contratti dalle amministrazioni locali arriviamo al 47%; se sommiamo ancora quelli inesigibili delle grandi banche pubbliche e altre voci, raggiungiamo il 70%; ma, secondo alcuni studiosi, in realtà, se considerassimo anche tutte le garanzie pubbliche fornite alle imprese e diverse altre questioni, ci avvicineremmo al 150%, cifra molto diversa da quella ufficiale.

Per quanto riguarda il settore bancario, esso negli scorsi anni ha sostenuto la crescita dell’economia in un momento difficile aumentando fortemente il livello dei finanziamenti al sistema delle imprese; ma questo potrebbe comportare una forte crescita dei prestiti dubbi. Il governo riesce poi sempre meno a governare il credito, sia per lo sviluppo di un settore finanziario clandestino, sia anche per l’espansione di un sistema bancario ombra (Sender, 2011);

b) i problemi sociali e politici

6) il modello cinese di controllo sociale appare oggi in crisi, come ricorda su Le monde B. Pedroletti. Mentre le minoranze etniche si mostrano sempre più inquiete, nelle città la corruzione esaspera la popolazione, mentre la borghesia emergente sembra accettare sempre di meno di non avere alcuna voce negli affari che la riguardano. Soprattutto viene ricordato il problema dei migranti, circa 150 milioni di persone che sono per il giornale “i grandi perdenti del miracolo economico cinese”. Essi, che hanno contribuito in misura fondamentale allo sviluppo degli ultimi trent'anni ricavandone pochi vantaggi e godendo di pochi diritti, ora si vanno svegliando, come mostrano i disordini che si sono svolti di recente nella provincia del Guangdong, cuore dell’apparato produttivo del paese. Se essi non saranno assorbiti nella società urbana e non saranno loro riconosciuti i diritti dovuti, le agitazioni continueranno a crescere. Tutto questo mentre i salari stanno aumentando fortemente sotto la spinta delle lotte dei lavoratori; tale aumento minaccia la competitività dell’industria;

7) bisogna infine mettere in rilievo che ai problemi ricordati si aggiungono anche delle tensioni di tipo politico, originate da una parte da una certa dialettica in seno al partito tra i sostenitori di una linea “conservatrice” e quelli di una linea “riformatrice”, in presenza anche di un rinnovamento della dirigenza del paese l’anno prossimo, dall’altra dai timori di un possibile contagio della primavera araba.

Conclusioni

Cosa si può pensare delle analisi sin qui ricordate?

Intanto va sottolineato che alcuni dei testi citati prevedono una caduta drastica e rapida del tasso di crescita del pil del paese. Altri pensano invece che la diminuzione sarà relativamente moderata e/o avverrà in tempi più lunghi.

Per quanto riguarda alcune delle questioni specifiche sollevate, si può dire che in relazione ai tassi di inflazione, lo stesso Wen Jiaobao, nell’articolo da lui scritto, annuncia che il fenomeno è ormai sotto controllo e alcuni dati usciti subito dopo il suo intervento sembrano dargli in qualche modo ragione.

Sul livello degli investimenti, Kroeber e Kuijs pensano che il loro forte sviluppo non porterà affatto a una situazione di sopracapacità; anche se il rapporto tra investimenti e pil appare molto elevato, in realtà il totale degli stessi investimenti accumulati sino a ora appare ancora basso rispetto alle necessità del paese. Yukon Huang sottolinea come una fetta cospicua di tali investimenti si concentri poi nel settore immobiliare, area nella quale il paese deve ancora recuperare le carenze dell’epoca di Mao. Pure il basso livello dei consumi sul pil non appare inusuale per un paese in via di industrializzazione, sottolineano altri, come è successo anche agli Stati Uniti durante il periodo della sua industrializzazione nel ventesimo secolo. In relazione al presunto alto livello di indebitamento del settore pubblico, alcune fonti, quale la Chartered Bank, ricordano che in realtà, se misurato con i criteri internazionali, esso si può stimare al livello dell’80% del pil, percentuale simile o inferiore a quello di diversi paesi occidentali e molto più ridotta rispetto a quella di Stati Uniti, Giappone, Italia. Per quanto riguarda ancora il fenomeno della trappola dei paesi a medio reddito, ci sono segni per Kroeber che fanno pensare che la Cina riuscirà a evitarla. Sul tema dei lavoratori migranti, per la verità lo stesso Anderlini, nel suo articolo del 18-19 giugno, mostra come siano stati compiuti dei progressi rilevanti.

Alla fine, l’ipotesi di una rilevante crisi dell’economia cinese, che non è comunque da escludere, esce però, a parere di chi scrive, meno probabile di quanto possa sembrare a prima vista. Il gruppo dirigente cinese, che è sempre stato capace di superare gli ostacoli che gli si sono parati davanti, potrebbe riuscire, sia pure con qualche fatica, ad andare oltre anche alle difficoltà presenti e la crescita potrebbe continuare a essere elevata ancora per un periodo di tempo rilevante, date anche le grandi potenzialità presenti ancora nel paese.

Questo non significa che chi scrive non auspichi riforme profonde del modello di sviluppo cinese, che portino, tra l’altro, a una forte riduzione nei livelli di diseguaglianza tra i suoi cittadini, a una rilevante crescita dei servizi di welfare e a una maggiore democrazia politica ed economica.

 

Testi citati nell’articolo

Eichengreen B., D. Park, Kwano Shin, When fast growth slow down: international evidence and implications for China, NBER working paper, marzo 2011

Magnus G., China can yet avoid a midle-income trap, www.ft.com, 29 giugno 2011

Rabinovitch S., Anderlini J., Extent of local debts in China laid bare, www.ft.com, 27 giugno 2011

Sender H., China’s old bad banks run new risks, www.ft.com, 28 giugno 2011

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I PIL che si inseguono

Per chi fosse interessato.

Ho incrociato la prima volta il calcolo dei PIL che si inseguono negli anni ’70 in un saggio di Giorgio Fuà.

“I PIL che si inseguono”.
Ecco una coppia di nomogrammi universali per il calcolo del numeri di anni nei quali il PIL2 (il minore dei due) insegue il PIL1.
Come si usa:
1) Nel primo grafico in alto, nella X scegliere il rapporto PIL1/PIL2 (supponiamo 4).
2) Ottenere il Coeff_molt sull'asse delle x (nel caso di esempio, 1,3)
3) Nel secondo grafico, nella X scegliere il rapporto tra il tasso di incremento del PIL1 (il maggiore dei due) rispetto al PIL2, nella forma 1+t%/100. Dunque, se il t1 è il 3.5%, si deve calcolare 1+0,035=1,035. Se t2 è 8%, si deve calcolare 1,08. Dunque il rapporto è 1,08/1,035=1,04.
4) Calcolare il numero di anni prendendo la Y (nel nostro caso 25) e moltiplicandola per il coeff_molt (25*1,3=32,5 anni).

(Purtroppo, le figure non escono. Se qualcuno mi dice come si fa…).

Non ci vuole un secolo, ma molto molto meno, a differenziale costante, perché la Cina raggiunga gli USA.
Nell'ipotesi di un rapporto tra i due PIL pari a 4, e di un differenziale di poco più di 4 punti percentuali, ci vorranno 32,5 anni. Ma in effetti il differenziale attualmente è pari a oltre 6 punti (+ 10% per la Cina contro il +3,5% USA), per cui, <i>coeteris paribus</i>, ci vorranno 17*1,3=22,1 anni.
Al netto del coefficiente correttivo (1,3 equivale ad un PIL circa quadruplo del Paese inseguito rispetto a quello del Paese inseguitore, ma ora tra USA e Cina è circa triplo), per ogni raddoppio del differenziale, diciamo così (in effetti della variazione del rapporto tra i due indici), il numero degli anni si dimezza. Infatti, se il rapporto PIL1/PIL2 è pari a 1,02 ci vogliono 50 anni, se è pari a 1,04 ne occorrono 25, se è pari a 1,08 ne bastano 12,5.

http://amato.blogautore.repubblica.it/2011/05/21/zhu-min-for-president-il-peso-della-cina-in-un-mondo-multipolare/