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L'inutile G8 di Toyako. L'ultimo di Bush
Le aspettative per il G8 di Toyako erano alquanto ridotte. Non che nei loro ultimi summit i grandi avessero affrontato con oculatezza e determinazione i tanti problemi che affliggono il nostro povero pianeta, troppo spesso non mantenendo nemmeno gli impegni presi. Ma il vertice che si è appena concluso in Giappone, sull’isola di Hokkaido, ha confermato appieno l’obsolescenza del G8 e delle sue ricette trite e ritrite. Non a caso dal Mali, dove si è svolto in questi giorni l’incontro della società civile globale, è partito l’ennesimo atto d’accusa nei confronti delle otto potenze.
Al di là dei corsi e ricorsi storici – di solito le edizioni svoltesi nel paese del Sol Levante hanno prodotto ben poco – già il fatto che questo fosse l’ultimo meeting sotto la presidenza Bush lasciava ad intendere che non tirava aria di clamorose novità. L’unica mossa di facciata, più che di sostanza, un’intesa sulla lotta ai cambiamenti climatici, è stata subito sbugiardata dalle associazioni ambientaliste e da tanti osservatori internazionali e rigettata in parte da Cina e India – che hanno affermato di “condividere il bisogno di ridurre in gas serra”, ma anche evidenziato che lo faranno in base alle loro esigenze e ai loro tempi. Facile affermare che entro il 2050 bisogna dimezzare le emissioni di CO2 globali agendo in ambito Onu e coinvolgendo le Economie Emergenti, più difficile fissare degli obiettivi di breve e medio termine e segnalare in concreto quali passi intraprendere. E infatti ci si è guardati bene da essere più “espliciti”. Certo, lo scorso anno in Germania il testo del comunicato finale era stato ancora più vago, segnalando solo “di prendere in considerazione dei target di lungo termine per la lotta contro i cambiamenti climatici”. Spese le solite belle parole di circostanza sulle rinnovabili, la ricetta energetica degli otto rimane legata al petrolio – al caro-greggio si è risposto chiedendo ai paesi produttori di pompare più oro nero dai loro pozzi – ai bio-combustibili e al nucleare. È stata poi fatta una timida promessa di contribuire ai fondi ambientali appena costituiti dalla Banca mondiale e che ammontano a circa sei miliardi di dollari. Non tutti i paesi del G8 sono sembrati entusiasti di questo esborso addizionale – Italia in primis – mentre le ong hanno duramente criticato questi nuovi strumenti pensati dai banchieri di Washington. Si andrebbero infatti a sovrapporre a quelli già esistenti nel quadro Nazioni Unite, con il rischio di penalizzarli. E poi affidare la lotta al global warming alla Banca mondiale è un po’ come far custodire una foresta a un piromane, considerato il pessimo record ambientale dell’istituzione, grandissima finanziatrice dell’estrazione di combustibili fossili. Le altre questioni presenti sul tavolo dei negoziati hanno ricevuto un grado di attenzione ancora inferiore. Di sviluppo e aiuti ai paesi poveri se ne riparlerà in Italia nel 2009, mentre la crisi alimentare è stata licenziata con la proposta del presidente della commissione Ue, Manuel Barroso, di stornare verso l’Africa un miliardo di euro di sussidi agli agricoltori. Nessuno si è chiesto il perché il prezzo delle derrate alimentari sia schizzato ai suoi massimi storici. Insomma, niente autocritica sulle liberalizzazioni a tutti i costi e sulle evidenti storture della finanza globale, ma palliativi che non risolvono il problema alla radice, conservando lo status quo. Detto del solito augurio per una conclusione positiva dell’infinito Doha Round della WTO e delle sanzioni allo Zimbabwe di Mugabe, sottoscritte da tutti dopo le iniziali titubanze di Berlusconi, va rimarcata la strenua resistenza di Stati Uniti e Giappone all’allargamento del G8 alle cinque potenze emergenti del G5 (Cina, India, Sud Africa, Messico e Brasile). Va bene invitarle come ospiti, insieme a un po’ di Paesi in via di sviluppo, ma di membership a tutti gli effetti, come vorrebbe la Francia, per ora niente. Quest’ultimo punto verrà ripreso l’anno prossimo in Sardegna, alla Maddalena, lì dove si concluderà il processo di Heilegendamm cominciato nel 2007 al G8 tedesco e che prevede, per l’appunto, una valutazione sul possibile allargamento del gruppo dei grandi. Chissà, un’improvvisa inversione di marcia, casomai favorita da una nuova amministrazione americana più attenta al multilateralismo, potrebbe risollevare le sorti di un G8 che naviga sempre più a vista, che fa tante parole e pochissimi fatti e a cui negli ultimi tempi viene sempre più accostato l’aggettivo obsoleto.