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La riforma incompiuta di Obama

28/03/2010

Per oltre un anno un fantasma ha aleggiato sulla Casa Bianca. Era il rischio che Barack Obama con la bocciatura della riforma sanitaria ripercorresse l’infausto sentiero di Bill Clinton, quando nel 1994, costretto a ritirare la riforma dal Congresso, avviò il partito democratico verso la sconfitta nelle elezioni di mid-term di novembre. Il partito democratico perse la maggioranza nei due rami del congresso e Bill Clinton, non ostante la sua rielezione, rimase ostaggio della nuova maggioranza repubblicana nei due rami del Congresso. Il passaggio della riforma ha esorcizzato il fantasma e contraddetto la profezia di un senatore repubblicano che aveva affermato nella fase più dura dello scontro: “La riforma sanitaria sarà la Waterloo di Obama”.

 

 

 

Con la riforma, entro i prossimi dieci anni, 32 milioni di cittadini americani, rispetto ai 47 milioni che adesso ne sono privi, avranno un’assicurazione sanitaria. E le compagnie assicuratrici non potranno rifiutare l’assicurazione col pretesto di malattie precedenti o interrompere l’assicurazione in presenza di malattie croniche.

 

 

 

La metà dei nuovi assicurati con un reddito inferiore a circa 30 mila dollari entrerà in Medicaid, l’assicurazione pubblica prevista per i poveri. Altri sedici milioni di cittadini, con un reddito fino a 88 mila dollari, ma privi di un’assicurazione del datore di lavoro, potranno acquistare una polizza dalle compagnie private fruendo di un sussidio pubblico decrescente in rapporto al reddito familiare. Quando la riforma sarà a regime nel 2014, l’assicurazione sarà obbligatoria e il 95 per cento della popolazione americana avrà un’assicurazione sanitaria.

 

 

 

La battaglia per la riforma è stata senza esclusione di colpi da parte dei conservatori, ma si è assistito a un evento sorprendente. Il complesso industriale-sanitario, a differenza di quanto è sempre successo nel corso di molti decenni, ha appoggiato nella sua versione finale la riforma. Le compagnie assicuratrici hanno imposto l’obbligatorietà dell’assicurazione che gli consente di ampliare il mercato assicurativo a circa venti milioni di nuovi assicurati, in larga misura giovani adulti con un più basso rischio sanitario che tendenzialmente rinunciano all’acquisto di una polizza sanitaria. Il complesso ospedaliero vedrà, dal canto suo, aumentare la “clientela” attraverso l’erogazione dell’assistenza ad alcune decine di milioni di pazienti che ora possono ricorrere (gratuitamente) solo ai servizi di emergenza, senza benefici per i bilanci ospedalieri.

 

 

 

Quanto alla potente industria farmaceutica, è quella che con maggiore convinzione ha sostenuto la riforma, avendo ottenuto di conservare la piena libertà nella fissazione dei prezzi, anche rispetto alla parte pubblica della sanità che comprende cento milioni di assistiti, e una serie di altre misure che le garantiscono una posizione dominante nel mercato dei farmaci. Il loro sostegno è stato testimoniato dalla spesa di 100 milioni di dollari di spot televisivi a favore della riforma.

 

 

 

Per comprendere questo capovolgimento delle posizioni tradizionali del complesso industriale-sanitario bisogna tornare all’origine del dibattito sulla riforma sanitaria.

 

La crisi del sistema sanitario americano è stata discussa nel corso degli ultimi decenni nella forma che potremmo definire di un triangolo nel quale ognuno dei tre lati manifesta un aspetto della crisi. Il lato più evidente era quello di milioni di americani privi di assicurazione, un fenomeno unico nei paesi avanzati. Un altro lato del triangolo era l’enormità della spesa sanitaria, pari complessivamente all’astronomica cifra di due trilioni e mezzo di dollari, qualcosa come il 17 per cento del prodotto interno lordo americano. In altri termini, il doppio della spesa media pro-capite della sanità nell’Unione europea, dove l’assistenza ha in linea generale, a differenza degli Stati Uniti, un carattere universale.

 

Il terzo lato del triangolo, spesso lasciato in ombra, è la diseguaglianza delle tutele per gli assicurati. In altri termini, il fenomeno della sotto-assicurazione che colpisce decine di milioni di americani, vale a dire l’inadeguatezza dell’assicurazione di fronte al verificarsi del rischio di malattia.

 

 

 

La riforma approvata affronta il primo lato del triangolo della crisi, nella misura in cui il numero dei non assicurati sarà drasticamente ridotto nel giro di dieci anni, pur senza realizzare una tutela di carattere universale. (Secondo i calcoli degli uffici del Congresso, infatti, quando la riforma sarà a regime nel 2019, ventitré milioni di persone – di cui un terzo immigrati irregolari - saranno ancora privi di assicurazione). Ma il problema che la riforma non è in grado di risolvere è la diseguaglianza dei cittadini – in questo caso, regolarmente assicurati – di fronte al rischio della malattia.

 

 

 

Il mondo delle assicurazioni è un puzzle, fonte di incertezza e di ansia per milioni di famiglie. Una polizza assicurativa costa mediamente 13.500 dollari, ma la media è come sempre ingannevole. Un cinquantenne deve pagare una polizza mediamente il triplo di un giovane. Una donna trentenne paga più di un maschio della stessa età perché la maternità è considerata un rischio di fronte al quale la compagnia assicuratrice deve premunirsi. Una grande impresa, dove i sindacati hanno potere negoziale, garantisce un elevato livello di prestazioni con polizze che possono arrivare a costare il doppio della media. Ma, nella maggioranza dei casi, la polizza comporta clausole di riduzione della copertura che portano alla bancarotta le famiglie all’interno delle quali si verificano patologie mediche severe o croniche. Il New York Times non a caso scriveva in un editoriale: “Gli Stati Uniti sono il posto peggiore dove essere colpiti da una grave malattia”. E, naturalmente, non si riferiva agli strati sociali privilegiati che possono consentirsi livelli assicurativi con standard di assistenza tra i più elevati al mondo. Ma la riforma non interviene su questi elementi di profonda e strutturale diseguaglianza.

 

 

 

La riforma lascia parimenti irrisolto il problema del costo della sanità. La sua crescita è stata negli ultimi venti anni irrefrenabile. All’inizio degli anni ’90 era intorno al 12 per cento del Prodotto interno lordo; nel 2009 aveva superato il 16 per cento. Secondo le previsioni dell’Ufficio della contabilità nazionale del Congresso, senza radicali interventi, raggiungerà il venti per cento del PIL entro il 2020. Un costo iperbolico, pari a un quinto del reddito nazionale. La riforma varata dovrà essere a costo zero per il bilancio (anzi si prevede un avanzo), ma non opera nessun intervento sostanziale per il contenimento della spesa complessiva (assicurativa, farmaceutica e ospedaliera), che cresce con un tasso d’inflazione sistematicamente superiore alla media, falcidiando il salario di persone che non sono istituzionalmente povere, ma vivono nel limbo dei lavori precari con redditi bassi e passando da un’azienda all’altra con profili diversi di assicurazione sanitaria. “Vi sono cento milioni di americani - ebbe ad affermare Barack Obama in un discorso a sostegno della riforma – che nel corso degli ultimi due anni sono rimasti per un periodo più o meno lungo privi di assicurazione”.

 

 

 

C’erano soluzioni diverse da quelle adottate nella riforma? Nel dibattito iniziale si confrontarono due modelli. Il primo, il più radicale, tradizionale appannaggio della sinistra democratica, riecheggiava i modelli europei e canadese. Ma, in ultima analisi, si risolveva nella proposta di estendere il modello già storicamente sperimentato con successo in America: la generalizzazione di Medicare, il sistema pubblico finanziato dai contributi dei datori di lavoro e dei lavoratori per la copertura sanitaria delle persone da 65 anni in su. Secondo la formula adottata nel gergo politico e mediatico: “Medicare per tutti”.

 

 

 

Ma Barack Obama scartò questo schema considerato troppo radicale, in quanto implicava la liquidazione delle compagnie assicuratrici private che traggono i loro profitti da un mercato di 150 milioni di assicurati. Obama adottò come chiave di volta della riforma la più moderata introduzione di quella che fu definita la “public option”. In sostanza, l’istituzione di una compagnia assicuratrice di carattere pubblico da affiancare a quelle private nell'ambito di un più largo e concorrenziale mercato assicurativo.

 

 

 

La “public option” aveva una carica riformatrice meno radicale della proposta “Medicare per tutti”, ma costituiva un indubbio elemento innovazione, potendo indicare la strada di un sistema con standard di tutele in linea di principio meno costosi e più egualitari. Nel corso dell’estate le commissioni competenti della Camera dei Rappresentanti adottarono uno schema di riforma che, sia pure con molte limitazioni, assumeva il principio della “public option”. Ma, una volta arrivata al Senato, la riforma fu bloccata.

 

 

 

Le lobby avevano scatenato la propria potenza di fuoco contro qualsiasi ipotesi di “public option”, mettendo in moto la grande macchina della distorsione ideologica. Obama fu accusato di voler statalizzare la sanità, di “europeizzarla”, di essere un socialista. Le lobby e la grande stampa conservatrice, con alla testa la Fox, non avrebbero avuto, tuttavia, partita vinta senza il cedimento della parte "centrista" dei democratici che disponevano di una vasta maggioranza nei due rami del Congresso. Ma i democratici erano divisi e i repubblicani facevano della riforma il terreno privilegiato dello scontro con la Casa Bianca.

 

 

 

Obama si era illuso di ottenere una soluzione bipartisan. Ma di bipartisan a Washington ci sono, in effetti, solo le lobby che elargiscono denaro con assoluta equanimità, senza distinzione di partito. Il senatore democratico Max Baucus, presidente della commissione Finanze del Senato nella quale rimase incagliata la riforma, è il quarto nella lista dei senatori che hanno ricevuto più finanziamenti per le campagne elettorali nel corso della carriera senatoriale.

 

 

 

Collocata nel contesto di un anno di battaglia politica senza esclusione di colpi, la riforma varata in questo inizio di primavera può essere considerata un successo politico di Obama. Ma nessuna enfasi può arrivare a farla definire “storica”. Entrerà a far parte della storia politica di questa presidenza, ma non della grande storia delle riforme sociali che hanno segnato nel corso del XX secolo la società americana. A quella storia appartiene certamente la Social security di Franklin Roosevelt del 1935, quando fu istituito il sistema pensionistico pubblico. E vi appartiene la riforma sanitaria di Lyndon Johnson che nel 1965 istituì Medicare e Medicaid, i due sistemi assicurativi pubblici che coprono cento milioni di americani.

 

 

 

La riforma del 2010 allarga le maglie di Medicaid, il sistema originariamente riservato ai poveri, portandovi dentro altri sedici milioni di cittadini americani, mentre fornisce un sussidio a un altro cinque per cento di cittadini per l’acquisto di una polizza privata. E’ un indubbio passo avanti. Ma il modello sanitario americano rimane il più costoso e il più diseguale tra i paesi avanzati. E’ il risultato di una dura battaglia che ha dominato il primo anno di presidenza di Obama. Ma è anche l’emblema di una concezione che domina una vasta parte della cultura politica americana. Quando si vuole squalificare un modello di politica sociale, si afferma che riecheggia il “modello sociale europeo”. Un modello che, nel caso della sanità, sia pure con tutte le differenze fra un paese e l’altro, garantisce un sistema egualitario con costi che oscillano fra la metà e i due terzi della spesa americana pro-capite. Sistemi europei che, a partire da quello francese, sono stati collocati ai primi posti della classifica mondiale stilata dall’OCSE.

 

 

 

Il paradosso sta nel fatto che nel dibattito politico europeo i conservatori, affiancati da molti “neo-riformisti”, si ostinano a considerare il modello sociale americano socialmente più diseguale, ma economicamente più efficiente. Al contrario, il sistema sanitario americano è un esempio macroscopico di diseguaglianza sociale mescolata a inefficienza economica.

 

 

Parlando alla sessione straordinaria congiunta del Congresso nel settembre del 2009, Obama disse che la questione della sanità si trascinava in America da un secolo, dai primi tentativi di Theodore Roosevelt. E, orgogliosamente, aveva aggiunto: ”Non sono il primo dei presidenti a occuparmi della riforma sanitaria, ma voglio essere l’ultimo”. Disegno ambizioso, dal quale la riforma di questo inizio di primavera rimane purtroppo molto lontana.