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Torniamo a Keynes, ma senza caricature

02/03/2010

Una politica che pensi ai nostri nipoti, non ai propri cognati. E che non dimentichi le virtù della concorrenza. Il senso di una ripartenza keynesiana, anno 2010

L’autocritica formulata da Richard Posner pubblicata su New Republic (poi diffusa nell’articolo di John Cassidy nella sua “Lettera da Chicago” pubblicata dal New Yorker) con tanto di invito a tornare a Keynes sono una buona notizia per chi pensa che la politica economica abbia ancora molto da apprendere dagli insegnamenti dell’autore della Teoria Generale, le cui disgrazie sono più ascrivibili ai suoi epigoni che alla bontà delle sue intuizioni (Leijonhufvud, 1976; Skildesky, 2009).

Ed è un po’ questo il punto. Sarebbe auspicabile che il ritorno o, calcisticamente, la ripartenza da Keynes non avvenisse dalla sua caricatura (il Keynes della spesa pubblica comunque sia…) ma piuttosto rileggendolo nella sua interezza.

Di sostegno pubblico all’economia in questa fase di crisi c’è stato bisogno e probabilmente non si è ancora fatto abbastanza. Il dibattito oltreoceano e le critiche ruvide ma costruttive che Krugman rivolge all’amministrazione Obama ne offrono conferma. In Italia, tuttavia, una “riscoperta” di un keynesismo caricaturale cavalcata dal partito della spesa pubblica e dagli scettici delle virtù (delle virtù non dell’onnipotenza) della concorrenza potrebbe risultare esiziale. Tanto più esiziale quanto più si consideri la diffusa corruzione che nel nostro Paese contraddistingue il settore dei lavori pubblici, dove insofferenza per le gare, emergenza e “cultura del fare” sembrano sempre più spesso funzionali alle “prospettive economiche dei loro cognati” piuttosto che a quelle dei nostri nipoti…

Sembrerebbe utile, perciò, riscoprire l’intera opera di Keynes “…non per trovarvi ricette già belle e pronte ma una fonte di ispirazione la cui durevole validità …consiste soprattutto nel preservarci di ricadere in antichi errori” (Caffè, 1981). Oltre che per la politica della domanda pubblica - peraltro dallo stesso Keynes non considerata appropriata in tutti i tempi e in tutte le circostanze (Lerner,1978) - l’insegnamento di Keynes può essere fondamentale per molto altro.

Innanzitutto per prendere le distanze da qualsiasi accattivante “magia”, sia essa costituita da “un’intrinseca stabilità del sistema privato” (Minsky, 1981) ovvero da un’onniscente azione collettiva. Il bambino del mercato non va gettato con l’acqua sporca del “supercapitalismo”. Le virtù del mercato e della concorrenza vanno solo calate nella realtà e non agitate in astratto.

Poi, per essere realmente disponibili ad un approccio eclettico, consapevole di quanto poco sappiamo del futuro e di quanto gli economisti abbiano bisogno dei contributi di tutte le elaborazioni teoriche (in quest’ottica appare particolarmente appropriato il testo del 1937 di Keynes consigliato da Lunghini e pubblicato su questo stesso sito).

Infine, per ribadire l’indissolubile legame tra schema conoscitivo e progetto operativo nonchè l’insofferenza per la cautela non sempre giustificata e la propensione all’inazione delle persone in posizioni di responsabilità (Harrod, 1951).

Non dimenticando, soprattutto, che obiettivo delle politiche keynesiane (le agenda, ovvero le decisioni che nessuno assumerebbe se non fossero assunte dallo Stato), è quello di far svolgere al mercato la sua funzione ad un più elevato livello di produzione e di occupazione senza interferire sul suo funzionamento (le non agenda, ovvero le attività che i singoli individui già svolgono) (Keynes, 1926). L’intervento pubblico va circoscritto ai casi in cui è indispensabile per ridurre l’incertezza.

D’altro canto, se è fuor di dubbio che l’intensità della grande depressione degli anni Trenta è stata fronteggiata con programmi di lavori pubblici di sapore keynesiano e con l’infrazione delle regole della “finanza sana”, la sua durata ha risentito non poco della sostanziale sospensione della disciplina antitrust.

Stando agli studi ampiamente citati dell’Universita di California (Ohaniamn, 2004), la mancata applicazione delle regole di concorrenza e l’esplicita sottrazione dalla disciplina antitrust di alcuni settori avrebbe contribuito a prolungare la crisi economica di almeno sette anni. Alla sospensione delle regole di concorrenza si può pertanto attribuire almeno parte del rallentamento dell’economia e della disoccupazione che in quegli anni sfiorava il venti percento.

Ciò non significa che la politica della concorrenza da sola sia sufficiente per uscire dalla crisi e che non richieda corposi aggiustamenti in termini di pragmatismo e flessibilità (ma non compromessi sui principi) per essere applicata in una fase di difficoltà economica (Lowe, 2009). Tuttavia la concorrenza, se certamente non è parte del problema, è senz’altro parte della soluzione. A conferma di ciò l’evidenza empirica ormai ampia sui rapporti virtuosi tra concorrenza e crescita mostra come la politica della concorrenza non sia solo potente strumento di efficienza con benefiche ricadute sui consumatori ma anche un ingrediente importante per tornare a crescere (Oecd, 2009).

Per ciò che qui rileva, significa che nella riscoperta di Keynes non va dimenticato come la sua concezione di intervento pubblico non avesse “nulla di incompatibile con …il carattere essenziale del capitalismo, vale a dire il suo fare appello al profondo istinto degli individui di far quattrini e di amare i quattrini, quale principale forza motrice della macchina economica” (Keynes, 1926). Un intervento pubblico incompatibile solo con una concezione del mercato che nel laissez faire individuava un suo ingrediente irrinunciabile.

Dunque, proprio perché si ritiene che Keynes abbia “avuto ragione” sembra saggio rileggerlo per intero, non dimenticando mai che il contesto ideale nel quale vanno collocati i suoi insegnamenti è quello di un riformista appassionato e liberale, che vede nella politica economica uno strumento per il raggiungimento di una “civiltà possibile” e non per eliminare quel “sistema privato” intrinsecamente instabile e da solo incapace di garantire un equilibrio di piena occupazione.

In sintesi, senza ricorrere a citazioni che ribadiscano la formazione liberale di Keynes e il suo radicamento nelle convinzioni politiche e morali della “borghesia colta”, la rivincita di Keynes, oggi avvalorata anche dal timbro dell’apostata Posner, non può che essere la rivincita delle idee di Keynes e non certo quella di un’inconcepibile ortodossia keynesiana, irrispettosa di una delle più preziose specificità del metodo di Keynes: la disponibilità a “cambiar pelle” per aggiustarsi al cambiamento.

Si rischierebbe, altrimenti, di commettere gli stessi errori che Posner imputa alla Scuola di Chicago: non aver valorizzato le differenze e di essere stata, oscurata dal dogma, sorda ai contributi esterni.

Riferimenti bibliografici

F.Caffè (1981), “Keynes oggi”, in L’Economia Contemporanea, Edizioni Studium.

H.L. Cole-L.E. Ohaniamn (2004), New Deal Policies and the Persistence of the Great Depression. A General Equilibrium Analysis, Journal of Political Economy.

R.F. Harrod (1951), The Life of J.M. Keynes, Macmillan.

J.M. Keynes (1926), “La fine del laissez faire”, in J.M. Keynes (1975), Esortazioni e Profezie, Garzanti.

A. Leijonhufvud (1976), L’economia keynesiana e l’economia di Keynes, Utet.

A. Lerner (1978), “The scramble for Keynes’ mantle”, Journal of Post-Keynesian Economics.

P. Lowe (2009), “Competition Policy and the Economic Crisis, Competition Policy Intenational.

H.P. Minsky (1981), Keynes e l’instabilità del capitalismo, Boringhieri.

Oecd (2009), Competition and Financial Markets. Key Findings, Parigi.

R. Skildesky (2009), The Return of the Master, Allen Lane.

*Le opinioni espresse appartengono esclusivamente all’autore e non coinvolgono l’istituzione di appartenenza.

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Commenti

La crisi e le politiche economiche

Caro Andrea, la vastità e la radicalità della crisi, i cui contorni non sono forse stati messi a fuoco sino in fondo, richiedono certamente di evitare l'errore di riproporre, magari anche in forma macchiettistica, ricette che hanno mostrato la propria efficacia in contesti differenti. Concordo quindi certamente sulla necessità di evitare frettolose, ed insincere, riconversioni dal liberalismo allo statalismo, entrambe malattie infantili del keynesismo. Forse, occorre tornare ad interrogarsi sul confine, che è sempre una frontiera mobile, tra Stato e mercato, soprattutto in un'epoca storica, come la nostra, che ha ridotto la capacità di influenza di alcune leve tradizionali dell'armamentario della politica economica. Pensiamo a come oggi siano meno capaci di sortire effetti scelte di politica monetaria nazionale, che prima orientavano con maggiore impatto le preferenze degli operatori, muovendo il tasso di interesse e la massa monetaria in circolazione. La mancanza di politiche sovranazionali, di cui anche Keynes stesso avvertiva il bisogno (pensiamo alla sua sconfitta sul bancor), è oggi ancor più grave, perchè l'assenza delle politiche economiche è stata presidiata dalle forze della speculazione finanziaria, che muovono enormi interessi e condizionano gli scenari in modo tale da rendere sempre più stretto il crinale delle scelte. Camminiamo su un filo sottile, stretti tra un mancato coordinamento delle politiche economiche ed un sempre più stretto coordinamento tra gli hedge funds, che decidono di unificare i propri sforzi per massimizzare le proprie capacità di guadagno a breve periodo, cingendo d'assedio gli anelli deboli del consesso internazionale, e sottraendo per questa via risorse ad impieghi di carattere produttivo.