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Capitalismo e democrazia, fratelli nemici?
Con gli adeguati correttivi, la "strana coppia" può vivere bene. Le tesi dell'ultimo libro di Michele Salvati, e il nodo non risolto della proprietà
Michele Salvati è un political economist al modo antico, al modo “scozzese”: in lui la ricerca delle migliori premesse per assicurare la ricchezza delle nazioni si combina senza soluzioni di continuità con riflessioni che si confanno piuttosto a un moral philosopher, con riflessioni, cioè, che fanno della domanda intorno alla adeguatezza del progresso economico, civile e politico il loro centrale asse di riferimento. Con il suo ultimo libro, "Capitalismo, mercato e democrazia" (il Mulino, Bologna 2009, pp. 168, euro 14,00), tale peculiare abito intellettuale si rivela in tutta la ricchezza delle sue possibili risultanze. E questo a causa dell’oggetto “schumpeteriano” che la sua interrogazione critica vuole, grazie a questo volume, portare a migliore comprensione, e cioè le condizioni di tenuta del composto democrazia-capitalismo, di quella configurazione del nesso economico-politico che sembra
contraddistinguere così in profondità l’Occidente.
Salvati fa emergere questo oggetto d’indagine non solo da ciascuno dei saggi, in qualche modo, d’occasione (recensioni e prefazioni già pubblicate in precedenza) che vengono a comporre il libro, ma anche dalla lunga ed inedita introduzione che ha voluto li precedesse. Qui la tesi di cui Salvati si vuol fare latore è scolpita con chiarezza ed eleganza: democrazia e capitalismo sarebbero, avrebbe detto Marx, due “fratelli nemici”, due istituzioni sociali tanto omogenee l’una all’altra, quanto anche divise da profonde incompatibilità.
Il ragionamento che sorregge questa tesi è, tenendoci all’essenziale, il seguente: la democrazia si fonda su cittadini indipendenti e difesi dalla rule of law nella loro eguale indipendenza; di tale indipendenza politica l’indipendenza economica è la necessaria condizione; tuttavia solo il mercato capitalistico garantisce, in quanto valorizza e distribuisce estensivamente la proprietà, la formazione di molteplici centri indipendenti di decisione economica; dunque solo il mercato capitalistico, fra tutti i sistemi economici conosciuti, è consustanziale alla democrazia. D’altro canto, non tutti i cittadini riescono a farsi centri autonomi di azione economica e politica. A garantire che tutti lo siano, devono sopravvenire due robusti correttivi: una seria politica antimonopolistica e anticorporativa e un generoso stato sociale. Ma non basta: gli agenti economici, i capitalisti, tendono ad abusare della forza conquistata sul mercato, facendo pressioni sul potere politico per consolidare le loro posizioni, impiegando i media a loro disposizione per plasmare in modo conveniente il senso comune e impedendo la formazione di temibili alternative anticapitalistiche. È qui che si deve innestare l’intervento democratico, il quale deve studiare tutte le possibili strategie per contenere la hybris capitalistica e piegarla a più alti e generali obiettivi.
Che cosa non funziona in questo ragionamento? Non funziona, a nostro giudizio, proprio il suo punto di partenza, e cioè l’affermazione del legame intrinseco, a livello teorico, fra proprietà e capitalismo. Quando Salvati definisce il capitalismo come quell’“ordinamento sociale, economico e giuridico che garantisce l’iniziativa economica dei singoli cittadini, la possibilità per ciascuno di disporre di capitali e assumere lavoratori, di organizzare imprese che producono merci e servizi e li vendono sul mercato” (p. 24) non si avvede che sta allo stesso tempo affermando e negando il nesso fra proprietà e capitalismo: se il capitalista è tale perché dispone di capitali e assume lavoratori, allora al suo esser proprietario delle sue condizioni di riproduzione deve corrispondere il non-esser proprietario delle proprie condizioni di riproduzione dal lato di chi è assunto.
Questa, peraltro, è solo la spia di un problema persino più grande e delicato, e cioè la difficoltà del capitalismo a determinare univocamente il concetto di proprietà: al suo interno convivono, in modo teso e problematico, sia gli specifici frutti proprietari dell’investimento produttivo – quelli, insomma, mediati dal profitto – sia la proprietà come titolo giuridico, come pura e nuda appropriazione giuridica dei beni. Della rottura della continuità fra proprietà e capitalismo era già divenuto consapevole Hegel (con la sua distinzione fra proprietà del diritto privato e proprietà del sistema dei bisogni). Ma sono stati poi Marx, ragionando sull’antitesi fra proprietà e accumulazione e sulla distinzione fra rendita assoluta e rendita differenziale, e Keynes, auspicando l’“eutanasia del rentier”, a metterci in guardia contro ogni concezione che faccia del capitalismo una semplice generalizzazione dell’istituto proprietario.
Rotta la continuità fra proprietà e capitalismo, il ragionamento di Salvati non può decollare. Cosa, dunque, ne rimane? Rimane una buona difesa dell’intrinsecità del liberalismo al capitalismo, una persuasiva analisi di come il capitalismo tenda ad impedire l’integrale assorbimento della società civile nella società politica. Ma per quanto attiene al rapporto fra capitalismo e democrazia, la complessità del tema esige che altre strade siano percorse e altri strumenti critici siano impiegati.
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