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C'è una bolla in mezzo al mare
"Le multinazionali del mare" di Sergio Bologna: i cambiamenti dell'economia marittima; le portacontainer come fabbriche post-fordiste; gli effetti della crisi
Le grandi navi porta container come fabbriche post-fordiste in alto mare; una bolla marittima parallela alla bolla immobiliare e a quella finanziaria; un gigantismo che si è poi ripiegato su se stesso al momento dello scoppio della crisi, lasciando in acqua parecchie vittime. Il libro di Sergio Bologna, “Le multinazionali del mare”, ci accompagna nei processi di profondo cambiamento di assetto industriale che hanno caratterizzato l'organizzazione del sistema marittimo e portuale, dagli anni d'oro della globalizzazione alla crisi dei giorni nostri.
I fenomeni di delocalizzazione produttiva e di globalizzazione che si sono determinati con intensità nel corso degli ultimi decenni non sarebbero stati possibili se l'economia portuale e marittima avesse conservato le caratteristiche proprie dell'economia fordista. Nel paradigma della prima industrializzazione, i porti erano soprattutto punti di agglomerazione dei grandi apparati produttivi di base, che si localizzavano a ridosso delle banchine per sfruttare le economie logistiche possibili nel ciclo tra approvvigionamenti di materie prime e distribuzione del prodotto finito. Prevaleva in quella fase la dimensione del porto industriale, ribaltando una tradizione che aveva visto il sistema degli interessi essere piuttosto originariamente orientato al modello del porto commerciale, all'interno del quale i flussi di merce erano governati dalla domanda del territorio retrostante (hinterland), generando, all'interno del sistema portuale, tutta una serie di attività di servizio e di intermediazione che erano state l'origine dei tanti mestieri cresciuti attorno al traffico marittimo ed alle banchine.
L'unitizzazione dei carichi, indotta dalla diffusione del container, ha determinato, nei decenni più recenti, una sostanziale discontinuità nel sistema dei trasporti, che, assieme ai processi di deindustrializzazione degli insediamenti portuali, ha mutato radicalmente il volto ed il modello organizzativo di una delle attività economiche più antiche dell'uomo. I terminal container hanno consentito un processo di industrializzazione dell'attività portuale, determinando l'eliminazione dei fabbricati di magazzino sulla banchina, la costruzione di ampi piazzali per lo stoccaggio dei contenitori, l'automazione dei processi di trasferimento intermodale della merce. E' cambiato radicalmente, in un tempo relativamente breve, il panorama portuale, sostanzialmente oggi caratterizzato contemporaneamente, nei porti che hanno maggiore storia, da aree deindustrializzate che hanno subito processi di riqualificazione urbana del waterfront, e nuovi insediamenti di terminal specializzati per la gestione dei carichi.
Il traffico dei container è diventato il termometro della globalizzazione e della internazionalizzazione dei flussi logistici, anche se, come ci ricorda Sergio Bologna nel suo libro, i traffici di rinfuse solide e di general cargo sono parte ancora rilevante dei flussi globali di merce. Dal 1990 al 2007, il volume dei contenitori movimentato nei porti è passato da 25 a 125 milioni di TEU (twenty equivalent unit, il container da venti piedi che è l'unità di misura del traffico). Ed è cambiato profondamente, per effetto dell'avvento dei container, il mercato del trasporto marittimo, attraverso un processo di concentrazione proprietaria di dimensioni radicali: oggi 15 compagnie controllano il 66% della flotta full container mondiale, pari al 77% della capacità offerta, se si considerano solo le navi con capacità superiore ai 1.000 TEU. Tra le prime cinque compagnie del mondo, quattro sono europee (Maersk, MSC, CMA-CGM ed Hapag Lloyd).
Più della metà dell'armamento utilizzato per il trasporto dei contenitori non è però di proprietà degli armatori stessi: il 51,4% delle navi a disposizione dei primi 15 operatori mondiali è noleggiato, il 47% in termini di capacità. La crisi degli ultimi due anni ha non solo rallentato i programmi di investimento, ma ha anche determinato il fermo di una parte consistente della flotta operativa: a maggio del 2009 erano ferme 576 navi e 78 ordini erano stati revocati.
In tale gigantesco cambiamento, non tutti i porti hanno reagito allo stesso modo. Anzi, i modelli di funzionamento operativo dei porti europei sono profondamente differenti. Scrive Bologna: “A differenza dei grandi porti italiani, che distano in media più di cento chilometri dai maggiori mercati, e utilizzano soprattutto il camion, Anversa ed Amburgo smistano la maggioranza dei container in import e in export su strada in un'area distante non più di 50 chilometri dal porto, utilizzando intensamente il treno per le medie-lunghe distanze”.
Insomma, mentre i porti italiani sono al servizio sostanzialmente esclusivo del sistema produttivo nazionale, se si escludono i casi dei nostri porti di transhipment, che svolgono una funzione nella rete globale dei collegamenti marittimi (Gioia Tauro e Taranto), i porti di Nord Europa sono al servizio dell'intero sistema produttivo europeo, avendo puntato su modelli di organizzazione basati sulla efficienza e sulla riduzione dei tempi medi di sosta dei contenitori (dwell time).
Vale la pena di sottolineare che, se la capacità del terminal portuale lo consente, soste prolungate, oltre il periodo di franchigia – di solito una settimana –, possono essere una fonte di introiti per il terminal altrettanto interessante rispetto quelli generati dalle operazioni di sbarco e di imbarco. Quando si sostiene che i porti italiani potrebbero essere attrattivi nei traffici transoceanici per evitare il giro di navigazione necessario per giungere ai porti del Nord Europa, risparmiando 4-5 giorni di transit time, si omette di segnalare che i tempi di sosta dei container nei porti italiani assumono dimensioni temporali ben più dilatate (sino a 15-20 giorni), forse anche per l'interesse dei gestori dei terminal a giocare la propria redditività sull'allungamento dei tempi di sosta, piuttosto che non sulla efficienza del periodo di attraversamento. Come si legge nel libro, “l'immagine idilliaca di una supply chain come sistema dove tutti ci guadagnano, si scontra con una realtà fatta di astuzie e di molte zone d'ombra, dove il concetto di efficienza è tutt'altro che lineare, e talvolta contraddice l'idea del guadagno”.
La trasformazione del modello industriale proprio dell'economia marittima e portuale modifica la centralità dei soggetti che compongono la catena del valore: se prima era il carrier, il soggetto che trasporta la merce per mare da porto e porto, ad essere l'elemento strategico di riferimento, oggi sempre maggiore rilevanza assume lo stevedor, il soggetto che scarica e carica la merce nei porti. Così come si è formato un mercato oligopolistico degli armatori, negli ultimi due decenni si è consolidato un mercato oligopolistico dei gestori dei terminal, con processi di concentrazione, di privatizzazione e di liberalizzazione delle banchine portuali.
Si è affermato un modello di integrazione orizzontale, che ha visto i principali armatori protagonisti diretti anche nella gestione dei terminal. In tempi più recenti, il focus si sta ulteriormente spostando sui collegamenti terrestri, con l'affermazione del concetto di “regionalizzazione del porto”, inteso come area vasta di governo del retroterra logistico. Il porto diventa uno snodo tra i flussi marittimi e l'inoltro verso le destinazioni finali della merce, in un corridoio che deve gestito secondo una dimensione integrata.
Insomma, il ciclo economico tende ad integrare attività marittime, portuali e terrestri in una regia unitaria. Se osserviamo la lista dei primi 20 gestori di terminal, oltre il 50% sono espressione proprietaria di interessi armatoriali. Il processo di concentrazione che si è realizzato assume proporzioni davvero robuste: circa tre quarti del traffico globale di container nei porti del mondo è trattato in terminal nei quali i primi cinque operatori hanno una quota pari almeno al 10%. Il modello proprietario ha visto la presenza crescente di operatori privati, che agiscono generalmente come soggetti concessionari; va però sottolineato che i primi due terminalisti del mondo, PSA (Port of Singapore Authority) e DPW (Dubai Ports World), sono società pubbliche controllate da due Stati.
Nell'analisi di Bologna è particolare interessante, anche perché poco studiata, la dimensione finanziaria dello shipping, che riproduce le stesse dinamiche perverse della speculazione sperimentata nel settore immobiliare. Nella sola Germania, i crediti finanziari al settore, a fine 2006, erano pari a quasi 80 miliardi di euro, di cui 28,5 sottoscritti nello stesso 2006.
Cavalcando l'onda di tassi di crescita significativi per tutto lo shipping, e con previsioni che ancora segnalavano un'onda lunga di futuri incrementi, si sono cominciate a costruire navi anche senza aver sottoscritto impegni di noleggio con gli armatori, nella convinzione che fosse l'offerta e generare la domanda, nella migliore delle tradizioni neo-classiche che precede sempre l'esplosione delle bolle speculative.
Scrive il Lloyd's Annual Report 2008, nel libro: “La maggior parte della flotta mondiale commerciale, valutata 1,3 trilioni di dollari poco prima della crisi, ha subito una svalutazione, aprendo una fase di moral hazard, cioè di tentativi di frode da parte di proprietari poco scrupolosi”. Nel 2008 il valore medio delle richieste di indennizzo era raddoppiato, costringendo alcune società assicuratrici a cercare di uscire dal mercato: AIG (il colosso assicurativo statunitense), travolta dalla crisi, ha ceduto le sue attività nel settore marittimo.
Con questi e molti altri spunti , il libro di Sergio Bologna apre il nostro sguardo al mondo complesso dell'economia marittima, in una fase di passaggio dalla globalizzazione trionfante alla crisi di un modello di sviluppo di cui non si vede ancora la traiettoria di uscita.
Sergio Bologna, Le multinazionali del mare, Egea, 2010, 28 euro
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