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Chiediamo conto delle tante Taranto
«C’è sempre qualcuno, camorrista o semplice cittadino, che ha pensato al denaro più che alla salute, anche perché il denaro si prende subito, le malattie arrivano più lentamente». il manifesto ha pubblicato il 29 luglio un testo di Franco Arminio che contiene la frase che precede.
Essa cerca di spiegare la situazione dell’Ilva di Taranto e le scelte conseguenti. Il dilemma – salute o salario? – di cui molto si è scritto, per lo più è già sciolto prima ancora di essere messo in discussione. Chi lavora in fabbrica, lo fa per motivi molto forti che superano tutto il resto. Primo fra tutti è la paga. Spesso non manca una sorta di orgoglio per il proprio ruolo, per l’identità che ne deriva, che spinge a fare il proprio lavoro nel modo migliore che sia possibile. Quando poi si tratti di un lavoro come quello della siderurgia, con la formidabile colata che, al comando dell’operaio, insieme agli altri compagni, trasforma davvero la natura della cosa, allora è anche più difficile tirarsi via.
In siderurgia, come in tanti altri settori, si è molto colpiti dall’ingiustizia. Il sapere che il padrone paga di più una fatica di un’altra, a pari orario, con uguale pericolosità, diventa spesso una questione dirimente, un obiettivo della lotta. Altri operai del gruppo Riva in Europa hanno trattamenti migliori, guadagnano di più, hanno orari più convenienti. E insieme all’esigenza di verificare se è vero, scatta il desiderio di equità che spesso vale anche in difesa dei compagni di lavoro lontani e più sfavoriti. Questa coscienza operaia mette in dubbio l’efficacia della convinzione padronale di una concorrenza generale da utilizzare sempre e comunque per dividere chi lavora da chi lavora, annunciare l’uso di crumiri, lontani anche cinquemila chilometri, spaventare operai e sindacati, descrivendo un competitore affamato e disposto a tutto. In tema di salute e ambiente, tale minaccia è davvero sordida e intollerabile.
In ogni caso, una gara per l’acciaio tra chi chiede di meno, o meglio tra chi si serve di operai più docili e a prezzi scontati deve essere indicata come illegale. Non si può, il capitalismo globale non può avere modo di scegliere tra siderurgia cinese, gravata del viaggio per mare e siderurgia europea e in particolare italiana. Sono proprio le questioni ambientali che rientrano in gioco. Il prodotto che arriva dall’esterno ha davvero tutte le caratteristiche ambientali e sanitarie che un sensato regolamento europeo – italiano a maggior ragione – rende obbligatorio, senza se e senza ma? Anni fa Francuccio Gesualdi del movimento pisano «Centro nuovo modello di sviluppo», aveva proposto una legge che imponeva alle merci, soprattutto alimentari, una targhetta con tutte le specifiche sull’origine, le caratteristiche produttive, il non uso di minori. Noi dell’Europa potremmo chiedere conto della sindacalizzazione dei lavoratori cinesi o indiani, o brasiliani, delle loro condizioni di lavoro, dei loro orari e salari; sarebbe un’attività politica e sociale molto utile per il caso-Taranto e tanti casi consimili; e anche in Cina, in India e in Brasile, tra qualche tempo, ce ne sarebbero grati.
apparso su il manifesto del 5 agosto 2012
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