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Sette anni di crisi: un bilancio
In Europa la crisi è stata utilizzata dalle élite politico-finanziarie per sferrare il più violento attacco mai visto, dal dopoguerra ad oggi, nei confronti della democrazia, del mondo del lavoro e del welfare
All’indomani della crisi finanziaria del 2008, quando il sistema fu salvato per il rotto della cuffia solo grazie a massicci interventi di spesa in deficit da parte dei governi di tutti i paesi avanzati (dimostrando la validità dell’assioma keynesiano secondo cui l’unico strumento in grado di risollevare un’economia in recessione è la politica fiscale) furono in molti a sinistra – tra cui il sottoscritto – a credere che il neoliberismo avesse i giorni contati. Cos’era la crisi, in fondo, se non la conclamazione del suo fallimento? Come ha scritto Paul Heideman, «l’impressione al tempo era che l’era della mercatizzazione assoluta stessa volgendo alla fine, e che la crisi dei mercati avrebbe condotto inevitabilmente al ritorno di una qualche forma di nuovo keynesismo».
Come sappiamo, è accaduto l’esatto opposto. Non solo il regime neoliberale continua a godere di perfetta salute in tutti i paesi avanzati (sì, qualche tabù è stato infranto – si vedano le politiche di quantitative easing – ma solo nella misura necessaria per garantire la sopravvivenza del sistema stesso); in Europa la crisi è stata utilizzata dalle élite politico-finanziarie per sferrare il più violento attacco mai visto, dal dopoguerra ad oggi, nei confronti della democrazia, del mondo del lavoro e del welfare; e più in generale, per ristrutturare le economie e le società europee in una chiave ancor più radicalmente neoliberista di quella esistente. «Una distruzione creatrice – ha scritto Alberto Burgio – finalizzata alla sostituzione del modello sociale postbellico (il capitalismo democratico incentrato sul welfare pubblico e sulla riduzione delle sperequazioni in un’ottica inclusiva) con un modello oligarchico (postdemocratico) affidato alla “giustizia dei mercati globali” e caratterizzato dal binomio povertà pubblica-ricchezza privata».
Questo sta determinando un trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto – una vera e propria guerra di classe – senza precedenti, in quello che potrebbe essere definito un esempio da manuale di “shock economy” (per mutuare il termine utilizzato nella traduzione italiana del libro di Naomi Klein). La sinistra europea – ciò che ne è rimasto – ha assistito perlopiù impotente a questo processo di distruzione creatrice (anche se in Grecia rimane aperta una breccia, e ci sono segnali incoraggianti che arrivano anche da altri paesi).
Sono state avanzate molte analisi per spiegare la “resilienza” del neoliberismo e l’incapacità della sinistra di offrire una risposta alla crisi. Uno dei più grandi errori strategici e teorici della sinistra è stato quello di credere nell’esistenza di un nesso meccanico, causale tra crisi economica e politicizzazione della società (quella che un tempo si sarebbe chiamata coscienza di classe). La storia, semmai, dimostra che è vero il contrario: le crisi solitamente generano risposte regressive ed autoritarie, specialmente se i rapporti di forza tra lavoro e capitale sono fortemente sbilanciati a favore di quest’ultimo (come lo sono chiaramente oggi). Il cambiamento sociale è solitamente il risultato di processi di distruzione (guerre) e/o di lotte sociali. In altre parole, il capitalismo non possiede nessun meccanismo di autocorrezione o di autoregolazione interno.
Grazie alla crisi greca – in cui neanche il peggiore tracollo economico mai registrato da un paese sviluppato in tempo di pace è stato sufficiente a radicalizzare i lavoratori e cittadini greci al punto da determinare una rottura con l’eurozona – questa scomoda verità comincia lentamente a farsi strada nella coscienza della sinistra europea. Ma si sa com’è: morta un’illusione, se ne fa un’altra. L’ultima in ordine di tempo è quella secondo cui le voci sempre più numerose che in ambito mainstream chiedono una maggiore espansione fiscale – di recente Larry Summers, l’architetto della deregulation del sistema finanziario statunitense, ha reiterato sul Financial Times che le economie avanzate «hanno bisogno di aumentare il debito… per finanziare un’espansione fiscale» – dimostrerebbe che «è in corso un cambio in paradigma», come ha scritto di recente l’economista australiano Bill Mitchell.
È una conclusione che rivela una filosofia della storia piuttosto precisa, in cui sono le idee, in ultima istanza, a plasmare il corso degli eventi. Chi aderisca a questa visione tende ad attribuire la ristrutturazione neoliberale della società avvenuta dalla fine degli anni Settanta in poi alla crescente influenza di una serie di teorie – etichettate di volta in volta col termine “neoliberismo”, “teorie neoclassiche”, “neoconservatorismo”, “consenso di Washington”, ecc. – sviluppate da un gruppo di accademici formatisi presso l’università di Chicago. Se questa narrazione degli eventi è corretta, ne consegue che per andare oltre il neoliberismo è sufficiente che un numero sufficiente di membri dell’establishment venga sedotto da una teoria alternativa (anche se magari non particolarmente nuova). Tutto quello che la sinistra deve fare è continuare a ripetere ossessivamente i suoi mantra (più spesa pubblica, salari più alti, ecc.), esattamente così come fecero i membri della scuola di Chicago negli anni Settanta e Ottanta.
Come scrive l’ex ministro del Lavoro statunitense Robert Reich nel suo libro del 2007, Supercapitalismo, «il fatto che gran parte di queste idee siano state elaborate in seno alle università è un probabile indicatore del perché coloro che gli attribuiscono le maggiori responsabilità per aver cambiato il volto del pianeta negli ultimi trent’anni sono spesso anch’essi accademici che coltivano una visione particolarmente generosa dell’impatto del mondo accademico sulla società». Ma non è così che funziona il mondo, scrive Reich.
È vero che i politici a volte prestano attenzione ai consigli del mondo accademico. «Pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria», scrisse l’economista John Maynard Keynes, «distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro». Ma le teorie di cui si parla qui erano esistite più o meno nella stessa forma dai tempi in cui le aveva profetizzate Adam Smith nel diciottesimo secolo. Se hanno improvvisamente preso piede negli ultimi decenni del ventesimo secolo, negli Stati Uniti e altrove, è in buona parte perché offrivano una comoda giustificazione per dei cambiamenti che erano già in atto. «Non furono esse a produrre il cambiamento; semmai lo legittimarono», scrive Reich. In altre parole, il neoliberismo prese piede innanzitutto perché sosteneva e promuoveva gli interessi dell’establishment politico-economico del tempo, non perché fosse una teoria economica più elegante delle altre. Con questo non si vuole dire che le idee non siano importanti, ma che esse hanno bisogno di un soggetto sociale che se ne faccia portavoce perché abbiano un impatto.
Questo implica che perché l’establishment adotti spontaneamente – ossia in assenza di spinte dal basso o di minacce alla propria sopravvivenza – un “nuovo” paradigma economico (di matrice keynesiana, per esempio), quest’ultimo deve in qualche maniera servire gli interessi delle élite politico-economiche dominanti. Altrimenti che motivo avrebbero di adottarlo? Dunque dobbiamo domandarci: è oggi nell’interesse delle classi dominanti adottare una politica fiscale più espansiva? Secondo alcuni, sì. L’argomentazione è la seguente: le politiche neoliberiste (austerità fiscale, deflazione salariale, tassazione regressiva, ecc.) hanno condannato le nazioni avanzate ad una “stagnazione secolare” – una situazione caratterizzata da crescita bassa o nulla, disoccupazione diffusa e livelli di domanda cronicamente insufficienti – che finirà per incidere negativamente anche sul tasso di profitto; è dunque nell’interesse del capitale stesso stimolare la domanda aggregata attraverso un’espansione fiscale. Per certi versi questo è vero, ma di cosa parliamo quando parliamo di “capitale”? E qual è la forma di capitale dominante nel mondo di oggi?
Negli ultimi decenni siamo passati da un capitalismo incentrato prevalentemente su processi di produzione e di accumulazione reali (prima nella variante fordista-keynesiana a scala nazionale, poi in quella neoliberista a scala globale) ad un capitalismo predatorio oligarchico e iperfinanziarizzato, basato prevalentemente, sia in termini quantitativi che qualitativi, sulla speculazione e sulla rendita. Poiché il capitale finanziario ha ormai rescisso buona parte dei suoi legami con “l’economia reale” – visto ormai solo come bacino da cui estrarre ricchezza – è anche libero dalla necessità di stringere compromessi con essa. Soprattutto se consideriamo che il capitale finanziario è relativamente immune ai “problemi” sollevati dalla stagnazione secolare, e anzi tende per alcuni versi addirittura a beneficiarne, dal momento che la deflazione determina un trasferimento di ricchezza dai debitori ai creditori. Alla luce, infine, della natura sempre più oligarchica delle nostre società e dei nostri sistemi politici – il New York Times riportava di recente la notizia secondo cui 158 famiglie avrebbero coperto più della metà dei contributi per le presidenziale statunitensi del 2016 – le chance di una “autoriforma” del sistema dall’alto sono pressoché nulle.
Quando parliamo degli “interessi” del capitale, poi, dobbiamo sempre tenere a mente quello che l’economista polacco Michael Kalecky scrisse più di quarant’anni fa in merito all’apparente irrazionalità delle scelte di politica economica:
In un regime di continuo pieno impiego il licenziamento cesserebbe di agire come misura disciplinare. La posizione sociale del “principale” sarebbe scossa, si accrescerebbe la sicurezza di sé e la coscienza di classe dei lavoratori. Gli scioperi per un salario più alto e il miglioramento delle condizioni di lavoro sarebbero fonti di tensione politica. È vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego, rispetto al loro livello medio sotto il laissez faire… Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L’istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è “sana” dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale.
Esiste poi un’altra variante dell’argomentazione secondo cui la stagnazione secolare costringerà il sistema ad autoriformarsi: quella secondo cui un’altra crisi economica e finanziaria è da considerarsi quasi inevitabile – e su questo sono d’accordo –, e questo decreterà la morte definitiva del neoliberismo e l’avvento di un rinnovato keynesismo. Per i motivi succitati, questo mi pare alquanto improbabile. Due mi sembrano gli esiti più probabili in caso di una nuova crisi: a) una serie flessione economica che non arriva però a minacciare la stabilità del sistema, nel qual caso, in assenza di una mobilitazione di massa, assisteremo ad una risposta simile a quella a cui abbiamo assistito in seguito al 2008 (interventi keynesiani “di emergenza” per tamponare le perdite seguiti da un ritorno allo status quo antecedente); b) un’implosione del sistema, nel qual caso le conseguenze sono imponderabili, ma è lecito ritenere che assisteremo ad un processo di distruzione creativa ben più estremo di quello visto finora prima che emerga un nuovo status quo.
Non commettiamo lo stesso errore del 2008. Non illudiamoci che il sistemi si riformerà da sé. Qualunque progresso sociale sarà unicamente il risultato della lotta e della mobilitazione sociale (su spinta anche delle idee, vecchie o nuove che siano). L’alternativa, come sempre, è una sola: la barbarie.
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