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Italia e Francia, i diktat della Troika

20/03/2015

Sia il nostro Jobs Act che il progetto di legge francese “Per la crescita e l'attività” trasferiscono gli oneri della crisi economica sul lavoro e non affrontano la gravità della crisi

Nella Gazzetta Ufficiale n. 290 del 15 dicembre 2014, è stata pubblicata la L. 10 dicembre 2014, n. 183, il Jobs Act, contenente le deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, e quelle in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro. Quattro giorni prima, in Francia, Emmanuel Macron, classe 1977, ministro dell’economia del governo Valls presentava all’Assemblea Nazionale il progetto di legge “Per la crescita e l’attività”, attraverso il ricorso all’articolo 49.3 (così come modificato nel 2008) della Costituzione francese che permette di saltare a piè pari la discussione parlamentare. Il progetto di legge, infatti, è considerato adottato dopo ventiquattro ore dalla sua presentazione all’Assemblea. Se l’Assemblea opta per una mozione di sfiducia il governo è costretto a dimettersi. L’approccio scelto dal governo Valls, già sul piano del metodo pone diversi interrogativi, similmente a quelli emersi durante l’iter parlamentare del Jobs Act. La discussione parlamentare va evitata: se non è possibile evitarla, la si blinda.

Il Jobs Act si compone di un solo articolo e di quattro decreti attuativi, due dei quali sono entrati in vigore il 7 marzo scorso. Il progetto di legge “Pour la croissance et l’activité” è composto, invece, di 106 articoli ed è ancora in discussione

Cosa hanno in comune i due progetti?

Diversi aspetti. La tempistica: entrambi rappresentano la risposta di due governi, quello italiano e quello francese, ai dettami della Troika. In questa direzione, il trattamento punitivo che l’Unione europea sta infliggendo alla Grecia sta funzionando come efficace deterrente per molti stati europei, Italia e Francia in primis. Sia Italia che Francia hanno bilanci in deficit e livelli di disoccupazione allarmanti. Nel quarto trimestre del 2014 il tasso di disoccupazione in Italia era al 13,3%, in Francia era al 10,4%. Nello stesso periodo, in Italia si contavano 3 milioni 420 mila disoccupati e una disoccupazione giovanile al 43,3%, in Francia quasi tre milioni di disoccupati e una disoccupazione giovanile al 23,7%. Numeri che pesano ma che hanno delle ragioni, non banalmente e limitatamente ascrivibili alla crisi economica del 2008.

Alla base delle difficoltà di entrambi i paesi ci sono diverse cause, tra le quali spicca la progressiva deindustrializzazione. Dal 2008 al 2012, l’Italia nel settore manifatturiero ha perso 560.407 addetti e 42.422 imprese, proseguendo ma accelerando una tendenza emersa ben prima dell’inizio della crisi del 2008 e in concomitanza con la cessazione dell’Accordo Multifibre avvenuta nel 2004. Nello stesso arco temporale, la Francia, seppur abbia visto aumentare il numero di imprese di 6.219 unità ha perso 421.500 posti di lavoro. L’impoverimento della base industriale francese è il tema di un interessante volume scritto da Elie Cohen e Pierre-André Buigues: Le décrochage industriel (Fayard, 2014). Tra il 2000 e il 2010, rilevano Cohen e Buigues, il peso dell’industria nel PIL della Francia è sceso di 5,2 punti percentuali e la base manifatturiera non ha perso solamente delle fasi di produzione a causa delle scelte di delocalizzazione operate da diverse industrie: la Francia sta perdendo pezzi importanti della propria storia manifatturiera. Nell’arco di un decennio sia in Italia che in Francia, l’assenza di politiche industriali orientate all’innovazione di processo e di prodotto e l’illusione di poter fare a meno del settore industriale (all’interno dei propri confini statuali) hanno, nei fatti, prodotto il graduale ma inesorabile impoverimento di larghe fasce della popolazione. Delocalizzate molte fasi di produzione e chiuse diverse unità produttive nemmeno in Francia è sopraggiunta la bacchetta magica che in passato diversi apologeti del “piccolo è bello” o del “mercato-senza stato” speravano: la conoscenza ha bisogno di essere indirizzata e soprattutto richiede investimenti, specialmente pubblici, e un contesto nel quale poi poter sperimentarsi.

Quali le risposte di Italia e Francia alla situazione di crisi? Una legge e una proposta di legge che di fatto, da un lato trasferiscono gli oneri della crisi economica sul lavoro, e quindi sulla parte più debole e già compressa dalla tagliola dell’austerity, dall’altro non affrontano la gravità della crisi, attraverso quell’auspicato investimento pubblico in economia che tanto servirebbe, come già evidenziato da una vastissima letteratura sul tema. Il Jobs Act, in particolare, esemplifica l’orientamento deciso dall’attuale governo: ridurre progressivamente le tutele di tutti i lavoratori per infoltire l’esercito industriale di riserva, da utilizzare da parte delle imprese per rimediare all’assenza di politiche industriali, in una fase di perdurante incertezza. Nessun idea traspare sugli investimenti che, invece, serve fare per reindustrializzare il paese.

In entrambi i testi, il termine “semplificazione” è decisamente battuto: esso è ripetuto 14 volte nel progetto di legge presentato da Macron e 12 volte nel Jobs Act. Emmanuel Macron e Matteo Renzi, coetanei, entrambi appartenenti alla coalizione di centro-sinistra, almeno da un punto di vista formale. Entrambi sostenitori, a parole, di piani ambizioni per “liberare la crescita” e “razionalizzare le procedure”. In realtà, sotto la scure della semplificazione le due giovani promesse della classe politica europea fanno a gara su chi più privatizza e riduce le garanzie a tutela del lavoro, senza far leva sui nodi strutturali che, invece, entrambi dicono di agire.

Ma vediamo nel dettaglio alcuni elementi critici della proposta di legge di Macron.

I 106 articoli aprono con la riforma della mobilità urbana e delle professioni regolamentate per poi passare agli elementi più sostanziali del progetto: economia e lavoro. Le idee: sviluppo dell’industria nucleare, nuovi regimi fiscali per le imprese e snellimento delle procedure amministrative per l’avvio dell’attività imprenditoriale. Misure che andavano bene in tempi di crescita ma che sono del tutto inadeguate ai tempi attuali. La crescita delle unità d’impresa non è mai stato un indicatore di salute dell’economia nazionale. Sul versante lavoro, tra i capisaldi del progetto: la liberalizzazione del lavoro domenicale, affidando ai comuni l’onere di regolare poi le aperture a livello locale e conservando, formalmente, il principio della volontarietà del lavoratore (che in tempi di crisi, non serve evidenziarlo, rischia di essere, sostanzialmente, reso blando e del tutto comprimibile). All’interno del progetto, la disposizione è giustificata dal ruolo che il lavoro domenicale avrebbe nella crescita economica di alcuni aree del paese. Lungo la stessa direzione, nel progetto è fatto esplicito riferimento alla necessità di creare delle zone turistiche internazionali, aree franche, nelle quali la regolazione delle attività commerciali e delle aperture serali e domenicali va concordata tra i ministri competenti e gli eletti nei territori direttamente interessati. Anche questo provvedimento tradisce il vero spirito del progetto: ridurre le protezioni a vantaggio dei lavoratori, definendo nuovi perimetri entro i quali è l’applicazione del diritto tradizionale l’eccezione, con l’effetto di aumentare la discrezionalità e il potere da parte della grande distribuzione (che in Francia vanta numeri decisamente significativi in termini di profitti) di riorientare, nel lungo periodo, l’intero impianto del diritto del lavoro. Sebbene il progetto di legge stabilisca la necessità di un accordo collettivo per le imprese che decidono di assumere dei lavoratori, in tempi di crisi è la deroga il principio guida. La necessità di liberalizzare gli orari della distribuzione si accompagna, infatti, ad un progetto più ampio di “riforma” del diritto del lavoro che vede: la riforma dei tribunali del lavoro, attraverso la creazione di un ufficio di conciliazione e l’introduzione dello statuto del difensore sindacale che astrattamente dovrebbe garantire le parti, lavoratori e datori di lavoro, nell’opera di tutela dei diritti contrattualmente previsti. Come, concretamente, queste novità siano orientate a migliorare la giustizia del lavoro non è dato sapere, né è possibile immaginare. Viene il sospetto che l’etichetta “razionalizzazione” nasconda la riduzione delle fasi processuali e, per contro, aumenti i vantaggi della parte del rapporto di lavoro che ha maggiori risorse da destinare alla difesa processuale.

Il progetto di legge presentato da Macron è stato criticato da destra e da sinistra, per ragioni antitetiche. Orientato a ridurre i diritti dei lavoratori e il potere d’acquisto di salariati e pensionati secondo sindacati, Parti Communiste Français (PCF) e altri partiti e movimenti di sinistra. Poco liberale secondo l’Union pour un Mouvement Populaire (UMP), tutto indirizzato ai dettami di Bruxelles secondo il Front National (FN).

Dopo la prima mobilitazione, a dicembre, di avvocati, notali e personale giudiziario, sono seguite parecchie manifestazioni. Il 9 aprile a Parigi è stata programmata una manifestazione nazionale contro l’austerità. Le organizzazioni sindacali CGT, FO, FSU assieme hanno rivolto un appello a tutti i lavoratori, pensionati e disoccupati del settore pubblico e privato a scendere in piazza. Tra le rivendicazioni: l’aumento dei salari, l’innalzamento del minimo salariale, la rivalutazione delle pensioni per i pensionati, la riduzione dello scarto (oggi pari al 27%) tra i salari delle donne e quelli degli uomini, la riduzione del tempo di lavoro con corrispondenti assunzioni di lavoratori, la creazione di nuovo impego per combattere la disoccupazione e lo sviluppo delle prestazioni sociali messe a serio rischio dalle politiche di austerità.

 

 

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