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Moneta morbida, lavoro duro

13/09/2014

Diabolico perseverare/A partire dalla crisi del 2008, le politiche dell'eurozona sono state un fallimento su tutti i fronti. Le due risposte di Draghi

La crisi finanziaria culminata negli Stati Uniti nell’autunno del 2008 col collasso della Lehman Brothers fu immediatamente paragonata a quella del 1929. Una rievocazione che generò un grande allarme livello globale. Quale giudizio sulla crisi possiamo formulare a sei anni di distanza? Vi sono quattro punti che possono dare un senso al confronto.

 

1. Il primo riguarda il tracollo del sistema bancario che, in entrambe le crisi, ha fatto da innesco alla più generale crisi economica. Qui sta una prima rilevante differenza. La crisi bancaria dell’autunno del 1929 si aggravò irreparabilmente nei mesi e negli anni successivi. Erano già trascorsi più di tre anni, quando Franklin D. Roosevelt, giunto alla presidenza, di fronte al panico di massa, che creava lunghe file di risparmiatori di fronte agli sportelli delle banche, diventate icone memorabili della Grande depressione, decise la chiusura temporanea di tutte le banche, mentre l’amministrazione si accingeva ad assumere iniziative straordinarie di riforma.

Per fortuna si tratta di scene consegnate alla storia. Profondamente diverso è stato il corso della crisi dei nostri giorni. La crisi bancaria americana dell’autunno nero del 2008 non è durata anni, ma un numero limitato di mesi. Nell’estate del 2009, dopo aver effettuato il primo stress test del dopo-crisi, Tim Geithner, ex presidente della Federal Reserve di New York, nominato da Barack Obama ministro del Tesoro, annunciò la fine dell’allarme rosso. Il salvataggio delle grandi banche americane era cosa fatta.

In Europa, la crisi delle banche fu parallela e non meno allarmante. Ma i paesi centrali – dalla Germania, alla Francia e al Regno Unito – la avviarono a una rapida soluzione mettendo in campo massicci interventi pubblici, comprese le nazionalizzazioni. (Diversa è stata la sorte dei paesi periferici, ma questo è un altro capitolo). Sei anni dopo, la grande finanza può brindare a un esito che nessun mago della finanza avrebbe avuto l’ardire di pronosticare. Gli indici di Wall Street hanno segnato i più alti livelli della storia americana, e un esito analogo si registra in Europa. Le élites finanziarie, che erano all’origine della crisi, con l’aiuto determinante dei governi, ne sono uscite trionfalmente.

 

2. Molto diversamente si presenta il quadro economico. La caratteristica più stridente è lo scarto tra gli Stati Uniti l’Europa. E, più precisamente, fra i paesi dell’eurozona e gli altri. Gli Stati Uniti hanno recuperato e superato il reddito nazionale del 2008. Da questo punto di vista, l’effetto crisi è stato cancellato. Nell’eurozona, siamo ancora al disotto, con l'Italia che fa registrare un drammatico arretramento che sfiora il 10 per cento del PIL.
Ancora più impressionante è l’andamento della disoccupazione. Nel 2010, la Grande recessione, aveva portato la disoccupazione sulle due sponde dell’Atlantico al 10 per cento della forza lavoro. Quattro anni dopo, negli Usa il tasso di disoccupazione è sceso a un livello prossimo al 6 per cento. Nella media dell’eurozona, ha continuato a salire, sfiorando il12 per cento, con punte catastrofiche in Grecia e Spagna dove supera il 25 per cento.

Se le differenze indicano due andamenti opposti nello sviluppo della crisi, le prospettive sono ancora più inquietanti. Il tasso di crescita corrente sfiora il 4 per cento negli Usa, mentre oscilla intorno allo zero nell’eurozona, essendo negativo nelle tre maggiori economie: Germania, Francia e Italia. L’aspetto più intrigante è che i due maggiori paesi dell’Unione europea fuori dell’eurozona, Gran Bretagna e Polonia, fanno registrare una crescita del PIL compresa fra il tre e il quattro per cento.

Se ne deve concludere che quella che era annunciata come una crisi globale è sempre di più, una crisi autodistruttiva dell’eurozona. In altri termini, le politiche imposte dalla irresponsabile tecnocrazia di Bruxelles, sostenuta da Berlino e dalle élites nazionali, hanno trasformato una crisi profonda ma gestibile, in una catastrofe economica con conseguenze socialmente disastrose, e minacciose per gli stessi equilibri democratici.

 

3. È in questo quadro di fallimento delle politiche dell’eurozona che tutti gli sguardi e le speranze sono stati rivolti al tempio della BCE, in attesa di un miracolo del suo supremo sacerdote. Dopo un dibattito, acceso quanto confuso, durato due settimane, che ha fatto seguito alla riunione dei capi delle banche centrali a Jackson Hole, su come si dovesse interpretare l’oracolo di Mario Draghi, il responso è stato chiaro e inequivocabile. Il presidente della BCE ha messo in atto le misure di politica monetaria che aveva annunciato, andando anche al di là delle previsioni.

Diamo uno sguardo alle due misure principali. La prima è un nuovo taglio di un decimo di punto (da 0,5 a0,05) del tasso di sconto principale, avvertendo che questo è l’ultimo taglio. La seconda misura è centrata sull’acquisto di ABS, Asset-backed Securities”: in sostanza, obbligazioni emesse dalle banche, sulla base di pacchetti di prestiti alle imprese e alle famiglie. Questa misura (alla quale si aggiunge il possibile acquisto di titoli garantiti dal bilancio delle banche (“covered securities”), e la messa in atto dei prestiti diretti al finanziamento delle piccole e medie imprese, già decisa nei mesi scorsi, sono dirette ad accrescere la liquidità delle banche come base per l’espansione del credito.

I commentatori si sono chiesti se si tratti del famoso “Quantity easing”, adottato dalle Banche centrali degli Usa, della Gran Bretagna e del Giappone. E Draghi ha puntualizzato che è più corretto parlare di un “credit easing”, dal momento che l’acquisto dei titoli bancari, a differenza del “quantity easing”, implica come garanzia i prestiti effettuati dalle banche in questione. Draghi non ha nemmeno escluso che in futuro, se fosse considerato necessario, il governo della Banca centrale potrebbe prendere in considerazione l’acquisto diretto di titoli sovrani a lungo termine, che è il centro del cosiddetto “Quantity easing”.

Dunque, la politica monetaria sembra svolgere, sia pure in ritardo e con i limiti statutari e della sorda opposizione della Bundesbank, il proprio ruolo. Che, non bisogna dimenticarlo, con l’icastica affermazione di Draghi dell’estate del 2012 sulla decisione di fare “tutto quello che sarà necessario”, ha salvato l’euro dall’incombente minaccia di disintegrazione, tagliando gli artigli alla speculazione finanziaria che alimentava l’irrefrenabile ascesa degli spread.

Ma di fronte alla nuova recessione, la politica monetaria non è più sufficiente. Lo ha spiegato lo stesso Draghi in occasione del discorso programmatico di Jackson Hole, quando ha avvertito che nelle attuali circostanze di stagnazione e disoccupazione di massa “la politica monetaria perde di efficacia nel generare domanda aggregata”, che è la base della ripresa della crescita e dell’occupazione.

Non a caso, molti commentatori hanno sottolineato che , con la caduta verticale degli investimenti e dei consumi, il problema fondamentale non è la mancanza di liquidità, ma la sostanziale mancanza della domanda di credito da parte delle imprese e delle famiglie, che piuttosto hanno il problema di fronteggiare i debiti di cui sono oberati per il protrarsi della crisi.

Di fronte alla freccia spuntata della politica monetaria, Draghi evoca la seconda freccia, la politica fiscale, la cui responsabilità ricade sui governi nazionali. La terapia consiste in una politica fiscale fondamentalmente diretta a ridurre le tasse che gravano sulle imprese. Ma Draghi anche in questo caso aggiunge una postilla non trascurabile: l’abbassamento delle tasse deve avvenire “in a budget-neutral way”, cioè senza incidere sul programma dell’azzeramento del disavanzo strutturale imposto dalle autorità di Bruxelles.

Operazione complicata, riconosce Draghi, dal momento che “l’alto livello del debito…inevitabilmente riduce lo spazio dei bilanci pubblici”. A meno ovviamente, aggiungiamo noi, di non continuare a ridurre la spesa per pensioni e sanità, oltre al blocco dei salari pubblici già in atto da molti anni. Dunque, di fronte a queste due prime frecce spuntate, non rimane che affidarsi alla terza: le famose riforme strutturali. Questo viene presentato come il tornante obbligato e decisivo. Su questo punto spesso presentato in modo confuso e ingannevole, conviene affidare la parola a Draghi. Nella conferenza stampa del 4 settembre a Francoforte, rispondendo alle domande di un giornalista,Draghi fa un’operazione verità. “Vi sono tre strumenti per rilanciare la crescita – puntualizza. Riforme strutturali, politica fiscale e politica monetaria”. La gerarchia degli strumenti non è casuale. Infatti, Draghi chiarisce: “Durante la presentazione (delle nuove scelte della BCE), ho iniziato dalla politica monetaria per passare a quella fiscale, ma ho poi concluso che non esiste nessuno stimolo fiscale o monetario in gradi di produrre alcun effetto senza (mettere in atto) ambiziosi, importanti e forti riforme strutturali. Pertanto, in un certo senso, il punto chiave è l’attuazione delle riforme strutturali”. E poi specifica che la “priorità” spetta alle riforme strutturali dirette all’eliminazione delle “rigidità del marcato del lavoro”.

In relazione alle quali specifica Draghi: “io vedo due temi cruciali. (Il primo è) … la contrattazione a livello aziendale che consente di riflettere meglio le condizioni del mercato del lavoro a livello locale e dello sviluppo della produttività, con una più grande differenziazione fra i lavoratori e fra i settori”. Il secondo è il superamento delle “rigidità nell’aggiustamento dei livelli occupazionali …in modo da rendere più spedita la riallocazione delle risorse produttive e del lavoro verso i settori più produttivi”. (traduzione qui e oltre di chi scrive). In parole povere, la flessibilità verso il basso dei salari a livello aziendale; e la libertà di licenziare per favorire la produttività aziendale.

Niente di nuovo, da questo punto di vista, sotto il cielo dell’ortodossia neoliberista. Ma la novità sta nell’esplicitazione, dall’alto della cattedra della BCE, del rilievo relativamente secondario attribuito alle misure monetarie e fiscali rispetto alla centralità nevralgica della riforma del lavoro. Il discorso qui è chiaramente rivolto all’Italia e alla Francia, dal momento che gli altri paesi dell’eurozona si sono disciplinatamente adeguati al dogma della deregolazione.

Non a caso, Draghi fa l’elogio dell’esperienza irlandese e spagnola. In Spagna, il governo di Mariano Rajoy ha risolto la questione dando libertà alle aziende in difficoltà di cancellare il contratto nazionale di settore, ponendo i lavoratori di fronte all'alternativa fra la riduzione, fino al venti per cento, del salario e l’auto-licenziamento. “In Spagna, afferma Draghi, come in altri paesi in crisi, le riforme del lavoro hanno cancellato molte rigidità del mercato del lavoro attraverso le riforme strutturali con effetti positivi”.

Eppure, la Spagna come modello ed esempio da imitare rappresenta un paradosso assoluto. Considerate tre cifre che ci forniscono un’idea della conclamata efficacia del modello. Prima della crisi, la Spagna aveva un debito di poco superiore al 40 per cento del Pil, il più basso fra i grandi paesi dell’eurozona; nel 2014 si avvicina al 100 per cento. Il disavanzo di bilancio, inesistente prima della crisi, per i 2014 è previsto intorno al 6 per cento del Pil, pari al doppio di quello italiano. Mentre la disoccupazione ha raggiunto, esattamente come quella greca, la spaventosa cifra del 25 per cento. Questo il modello che, in ultima analisi, Draghi propone a Italia e Francia.

Eppure, Draghi e, per quanto ci riguarda, Padoan non esitano a riconoscere che queste riforme del lavoro sono destinate nel breve-medio periodo non a migliorare, ma ad aggravare le condizioni di crescita e di occupazione, dal momento che, inevitabilmente contribuiscono a ridurre la domanda, sia dal lato dei consumi, che degli investimenti da parte delle imprese, incastrate in una lunga prospettiva di stagnazione sulla scia di quella che viene considerata una forma di “giapponesizzazione” dell’economia dell’eurozona.

Ma allora perché l’ossessiva insistenza sulla riforma del mercato del lavoro – che simbolicamente riappare in Italia con la definitiva cancellazione dell’art. 18. La prima risposta è che si tratta di una strategia sbagliata. Ma è una risposta vera solo a metà, riferita alla fase attuale. Dal punto di vista strutturale, la riforma del lavoro indica un cambiamento a lungo termine, profondo, radicale dei rapporti sociali di potere. È l’affermazione di una gestione autoritaria nei luoghi di lavoro, liberata dai vincoli della contrattazione collettiva e della funzione di rappresentanza, di intervento e di controllo dei sindacati sulle condizioni di lavoro e salariali. Un ritorno agli albori del XX secolo, spacciato come tributo da pagare alla rivoluzione tecnologica e alla competizione globale del XXI secolo.


4. Per concludere, tornando al confronto fra la crisi corrente e quella degli anni Trenta, la differenza è, per almeno un altro aspetto, stupefacente. A metà degli anni Trenta, in America si sviluppava col New Deal una rivoluzione del modello sociale che cambiò radicalmente lo scenario americano e influenzò il resto del mondo. Tra le grandi riforme sono rimaste nella storia quelle del sistema pensionistico pubblico universale, dell’indennità di disoccupazione, del salario minimo legale, del “welfare” per le famiglie meno abbienti, della creazione diretta di centinaia di migliaia di posti di lavoro attraverso i lavori socialmente utili a carico dell’amministrazione federale.

Ma ancora più straordinaria fu la legge Wagner del 1935 con la quale fu garantito per la prima volta al sindacato il diritto di rappresentanza e contrattazione a livello aziendale, promuovendole condizione per la formazione e lo sviluppo del più forte movimento sindacale delle vecchie democrazie occidentali. L’attacco all’insieme di queste conquiste, coincide in America con la storia degli ultimi trent’anni, iniziata con Reagan e proseguita fino a ridurre la rappresentanza sindacale nel settore privato al sette per cento della forza lavoro.

Nelle democrazie europee, i sistemi e i welfare e i diritti di rappresentanza e di contrattazione collettiva hanno subito vicende diverse, ma fino alla crisi hanno mostrato una non secondaria capacità di resistenza. Da questo punto di vista, non è un caso che la crisi è usata per eliminare ciò che resta dell’"eccezionalismo" europeo.

Ma l’aspetto più singolare non è l’uso della crisi, ma il silenzio, quando non la complicità della sinistra ufficiale. In Italia prevale quella sorta di incantesimo che Renzi ha generato intorno alla sua figura di condottiero solitario e vincente, in realtà avendo rinunciato all’unica vera battaglia che conta: il cambiamento radicale della catastrofica politica dell’eurozona.

In Francia, anche in virtù di una più antica tradizione “repubblicana”, Arnaud Montebourg ha dichiarato ad alta voce la verità che tutti conoscono: la politica dell’asse Berlino – Bruxelles ha conseguenze distruttive per gli equilibri economici e sociali dei paesi che ne hanno accettato l’egemonia. In fondo è una verità perfino banale, sostenuta da economisti e politici di mezzo mondo, e dai movimenti di contestazione emersi in Spagna e in Grecia, dove il partito di Tsipras si è collocato al primo posto nelle elezioni europee.

A Montebourg va il merito di aver rotto l’incantesimo, prendendo posizione in qualità di ministro dell’economia della secondo economia dell’eurozona. François Hollande, il presidente francese più sfiduciato della storia della V Repubblica, ha reagito sciogliendo l’esecutivo, sacrificarlo il suo ministro sull'altare di Angela Merkel, e spostando più a destra l’asse del governo Valls.

Non sappiamo il futuro, ma dobbiamo riconoscenza a Montebourg per aver avuto il coraggio di mostrare che può esistere un pensiero critico di sinistra, in grado di aprire una nuova fase di battaglia politica in un paese che è stato decisivo nella nascita dell’Unione europea, e che rimane decisivo anche per il futuro dell'eurozona. La speranza (o l’illusione?) è che l’esempio francese trovi imitatori altrettanto convinti e combattivi in Italia.

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