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I nani d’Europa e la società dimenticata

13/05/2013

Politici europei e tecnocrati, imponendo l’austerità di bilancio, stanno riducendo in ginocchio l’Europa. Come è possibile che la cultura di governo sia divenuta tanto povera e ottusa?

La sera del 6 maggio scorso, Antonio Padellaro, parlando di Andreotti e della sua epoca su “la7”, diceva che se i politici di adesso sono normali quelli di allora erano dei giganti o che, se erano normali quelli... Personalmente riserverei il termine di gigante a personaggi quali Churchill e Roosevelt, quelli che avevano voluto Bretton Woods ancor prima che la guerra terminasse nella convinzione che i conflitti commerciali erano la premessa di quelli armati, e ai padri fondatori dell’Europa, animati da convinzioni simili. Forse la classe politica successiva, quella che ha gestito il periodo del benessere, era un tantino meno gigante, ma sempre fatta di figure che avevano una discreta cultura e comunque il senso dello stato. Evidentemente la statura è andata diminuendo con il tempo, ma era difficile prevedere che si potesse cadere così in basso.

Per additare i perversi protagonisti della finanza negli anni ’50 Harold Wilson parlò dei banchieri svizzeri come gli “gnomi di Zurigo”. Oggi, per dipingere politici europei e tecnocrati che, imponendo la pratica dell’austerità di bilancio, stanno riducendo in ginocchio l’Europa, mi sembra il caso di parlare dei “nuovi nani” della scena politica europea. La loro infima statura culturale, associata a pervicace arroganza, è infatti al di là di ogni possibilità di redenzione, come vorrei di seguito argomentare. L’idea che una società possa organizzarsi, che possa agire attraverso la mano pubblica anche fuori dai tempi di guerra sembra estranea alla sensibilità e al cervello dei nuovi nani. La tragicità, in termini di frustrazione e di spreco sociale ed economico, della disoccupazione giovanile che affligge gran parte d’Europa non scuote il loro animo. E la cosa più grottesca è che le sofferenze da questi nani imposte sono inutili. Gli stupidi possono ravvedersi a fronte di evidenze certe e semplice buon senso. Questi nani no.

Diagnosi, correzioni, nuove prospettive

Negli ultimi mesi vi sono state importanti ammissioni di errori da una parte dei tecnici e degli accademici che avevano sostenuto l’esigenza dell’austerità fiscale. Sono anche emersi sempre più nitidamente fatti che, senza bisogno di tante riflessioni, pongono in evidenza le possibilità di successo di politiche espansive. I nani sembrano non essersene resi conto e mantengono la rotta della perdizione europea.

A porre i primi dubbi sulla saggezza della drastica terapia di austerity hanno cominciato quelli dell’Fmi, Blanchard (chief economist di quella struttura) in testa. Come ho argomentato (http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Il-bilancio-espansivo-che-serve-all-Europa-16614) non si è trattato certo di un “pentimento completo”, ma si è tornati ad ammettere, come negli anni ’70, che i “moltiplicatori” di spesa pubblica e imposizione possono essere diversi da zero e diversi tra loro. Come conseguenza imprevista dell’errore sui moltiplicatori l’austerità, nella misura in cui è stata praticata in Europa, ha prodotto recessione e di ciò il Fmi ha dato atto. In qualche misura il Fmi sembra essere tornato a modelli interpretativi simili a quelli che le banche centrali di tutto il mondo usavano negli anni 1970, quando i “moltiplicatori” venivano stimati e pubblicati.

Quasi contemporaneamente lo Iags (un’associazione tra tre autorevoli centri di ricerca europei) ha prodotto un rapporto che, anche esso sulla base di una rivisitata stima dei moltiplicatori, suggerisce, sulla base di un adeguato modello di ottimizzazione dinamica, di rimodulare nel tempo le politiche di rientro dal debito per i paesi cui è stato prescritto (tra i quali l’Italia) in modo da minimizzare l’impatto recessivo delle politiche stesse. Una proposta certo timida ma che va nella direzione giusta, anche se non abbastanza. Vi sarebbe infatti bisogno di politiche effettivamente espansive, piuttosto che solamente meno recessive.

Più tardi, con forte eco nelle ultime due-tre settimane, è scoppiato lo scandalo R&R (il riferimento è a un articolo di Reinhart e Rogoff del 2010). I due autori, il cui articolo era sostanzialmente privo di teoria e che si basava solo su evidenze econometriche, argomentavano che i paesi il cui debito pubblico superava il 90% del Pil non potevano che soffrire sul piano dello sviluppo. Il loro articolo era divenuto, al di qua e al di là dell’Atlantico, l’argomento forte dei fautori dell’austerità pubblica e dei mercati non regolamentati, e quindi dell’esigenza di limitare interventi e indebitamento pubblici.

È ormai invece conclamato che la tesi di R&R era il risultato di errori aritmetici e di tipo statistico. È inoltre documentato che all’intensificazione dell’austerità non ha corrisposto una diminuzione del rapporto debito/Pil, anzi è avvenuto per lo più il contrario perché la diminuzione del denominatore indotta dall’austerità era maggiore di quella del numeratore; considerazione quest’ultima che era plausibile per qualsiasi soggetto tecnico o politico degli anni ’70 ma che non sembra scalfire i nani d’Europa.

Stefan Collignon ha argomentato sul Social Europe Journal del 29 aprile (www.social-europe.eu/2013/04/austerity-versus-growth-i-why-we-cant-go-on-like-this/) che l’attenzione dovrebbe essere posta, in Europa, sulla crescita della capacità produttiva (in pratica del prodotto potenziale). La performance europea, e perfino quella della sola Germania, sotto questo profilo, sarebbero infatti estremamente deludenti (il prodotto potenziale dal 1999 sarebbe cresciuto in Germania solo dell’1,1% l’anno). Questo sarebbe accaduto per la caduta delle aspettative di crescita, connesse alla bassa domanda prolungata nel tempo.

Collignon usa per le sue argomentazioni un concetto molto tradizionale, quello di “output gap”, la differenza tra ciò che viene prodotto e ciò che, con la capacità produttiva esistente, si potrebbe produrre; se questa grandezza è negativa è perché non vi è sufficiente domanda. Collignon stima un output gap permanentemente negativo in Germania (la domanda non assorbiva il prodotto potenziale), mentre negli altri paesi importanti lo sarebbe divenuto, e in misura vistosa, a partire dal 2008. Dopo il 2008 in Germania (e anche in Svezia ed Estonia) l’output gap ha teso ad annullarsi, ma ciò non sarebbe dovuto a un rialzo della domanda interna deliberatamente perseguito bensì all’effetto di una scarsa accumulazione, cioè ad una sostanziale restrizione delle potenzialità di offerta. Di qui la sua argomentazione, confortata da stime e soprattutto dettata dal buon senso, che il ripetersi nel tempo di output gap negativi disincentivi gli investimenti destinati ad espandere la capacità produttiva, come già argomentato in numerosi libri da Amendola e Gaffard fin dal 1988 (si veda soprattutto The Market Way to Riches: behind the Myth, Elgar 2006). Su questa base possiamo ben immaginare quale sia la situazione italiana, dove un regime dinamico di bassa crescita è stato innescato ben prima del 2000.

È recente l’annuncio che gli Usa hanno ripristinato il tasso di disoccupazione pre-crisi. Lo hanno fatto attraverso politiche espansive “a carico del bilancio pubblico”. Con il vecchio linguaggio di scuola keynesiana si sarebbe detto “con lo strumento della fiscal policy”, in contrapposizione con la politica monetaria, considerata comunque insufficiente in una situazione in cui la spesa per investimenti è scoraggiata dalle basse aspettative di crescita, aspettative corroborate, anziché contrastate, dagli atteggiamenti delle tecnocrazie e della Germania in materia di policy. Ma l’analisi comparata di fatti evidenti sembra non bastare ai nani politici europei, che si limitano a guardare con gaudio infondato al ribasso del tasso di interesse dal 0,75 allo 0,5%, quando è invece evidente che le imprese non sono disponibili a fare molti investimenti; “il cavallo non beve” era l’espressione di gergo per descrivere questo tipo di situazione, un’espressione che tutti capivano. Comunque le banche sono sufficientemente inguaiate per essere disponibili a prestare alle imprese produttive (e sono spesso “sgridate” dagli eurocrati per questo); è chiaro che preferiscono continuare a finanziare solo gli speculatori.

Nel suo ottimo blog Francesco Saraceno, uno dei tanti nostri cervelli all’estero, ha meglio illustrato i fatti dietro la diversa performance degli Usa e dell’area euro (http://fsaraceno.wordpress.com/2013/05/05/it-aint-over-til-its-over/#more-1071). In breve: gli Usa sono a livelli del Pil superiori al picco del 2008. mentre la nostra area è lungi dall’aver recuperato. La domanda interna da noi è più bassa del 6% rispetto a prima della crisi, mentre quella Usa è tornata ai livelli pre-crisi grazie al sostegno alla domanda di beni di consumo, un sostegno che ha compensato la caduta della domanda di beni di investimento. Questa vi è stata in entrambe le aree ma è stata molto maggiore in Europa. Gli Usa hanno avuto un aumento delle esportazioni molto maggiore di quello europeo. È tuttavia difficile pensare a prospettive di crescita guidate solo dalle esportazioni, anche perché, come fatto notare anche da Collignon, è arduo pensare che le performance in materia di concorrenza internazionale (quella che Saraceno chiama giustamente la “Berlin View”) possano reggere a lungo con investimenti caduti non solo così in basso ma soprattutto così a lungo così in basso. Le possibilità di ripresa sono dunque connesse solo al sostegno della domanda, un sostegno che non può che passare per una azione di tal genere praticata dalla Germania.

Stato, mercato, disoccupazione

Come è possibile che la cultura di governo sia divenuta tanto povera, ottusa, incorreggibile? Ma, soprattutto, come è possibile che la sensibilità della sfera di politici e tecnocrati ai problemi sociali si sia sostanzialmente dissolta nell’arco di una generazione?

In un mio libro edito dal Mulino alla fine degli anni ’70, Disoccupazione giovanile e azione pubblica, argomentavo che una società incapace di connettere bisogni ancora insoddisfatti e risorse umane inutilizzate era una società affetta da profonde disfunzioni; più in breve una società stupida. In realtà avrei dovuto dire che si trattava di una società governata stupidamente. Non a caso il motto del libro, tratto da Stendahl, era “felicità è una lunga abitudine a ragionare”. Ma ragionare sembra arduo per questi nani.

Alla fine degli anni ’70, potevo parlare di “azione pubblica” a proposito della disoccupazione giovanile; ne potevo parlare credibilmente, nel senso che in qualche misura venivo ascoltato, sia in Italia che in Europa, tanto che ebbi l’incarico (del tutto inaspettatamente) da Bruxelles (DG V) di organizzare e coordinare varie équipe nazionali per valutare le politiche per l’occupazione dei maggiori nove paesi della Comunità. Sebbene fin da allora avesse prevalso una logica di mercato – nel senso che la legislazione praticata faceva principalmente leva sulla ricerca di flessibilità nei mercati del lavoro e sulla formazione professionale, mentre solo sussidiariamente venivano previsti ulteriori meccanismi integrativi – il principio di un intervento pubblico in qualche misura correttivo della “spontaneità” dell’agire delle forze di mercato era considerato del tutto logico e legittimo.

Ci volle poco ad argomentare, al tempo di quello sforzo di valutazione europea, che le politiche di flessibilità perseguite da parte delle singole nazioni si spiazzavano reciprocamente. La formazione professionale (laddove ben fatta) dava risultati positivi sulla produttività ma non sull’occupazione, dando semmai luogo ad una redistribuzione soggettiva delle opzioni lavorative. La raccomandazione conclusiva era, fin da allora, di praticare politiche macroeconomiche più espansive e “organizzare” a livello pubblico o sociale saldature tra bisogni e risorse lavorative.

Esisteva comunque, allora, una forte attenzione e tensione sociale sul problema. Paolo Sylos Labini lanciò l’idea di organizzare un “esercito del lavoro” per intervenire laddove vi erano bisogni pubblici per i quali occorresse manodopera. Io proposi, con qualche credibilità, qualcosa di analogo, e cioè che a coloro che rimanevano disoccupati più a lungo lo stato offrisse un contratto simile a quello di imbarco dei marittimi, che prevedesse cioè una totale “presa in carico” dei giovani che lo volessero, “portandoli in giro” a fare o ad aiutare a fare lavori pubblici e azioni sociali (qualcosa di più del servizio civile).

Il comune intento era quello di far sentire ai giovani disoccupati che la società non li dimenticava, di conservare e valorizzare il capitale umano di cui i disoccupati erano portatori, di attenuare la loro frustrazione e la loro disperazione. I “lavori socialmente utili” in Italia furono un’idea giusta, anche se per lo più pessimamente gestita, per debolezza politica e incapacità organizzativa. Non sento nulla, nei discorsi di oggi, che ricordi la tensione politica che esisteva solo trenta anni fa su questi problemi.

 

 

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