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La guerra mediatica a Syriza
Il gioco è particolarmente delicato perchè sfrutta senza scrupoli una frattura effettiva nella società greca che il referendum rischia di approfondire
"Ti lascio accampamenti / d'una città con tanti prigionieri: / dicono sempre sì, ma dentro loro mugghia / l'imprigionato no dell'uomo libero" (K. Athanasulis). Il grande compositore Mikis Theodorakis, quello di Zorba e di tante canzoni di Ritsos ed Elitis, invita a votare "no" domenica, ma è pessimista: il governo di Syriza, troppo esitante e già pronto ad accettare, subito prima della rottura e ancora nell'ultima proposta di mercoledì, un compromesso troppo simile a un nuovo memorandum, rischia secondo lui di finire in pasto alle potenze straniere che hanno ridotto la Grecia (sul piano etnico, storico, culturale e sociale) a una colonia, a un paese di rayàdes - un termine fosco nella storia greca, in quanto designa i Greci ortodossi sotto la dominazione ottomana, privati d'ogni diritto.
Ma nulla accade per caso. Basta prendere un giornale (o sito) di norma composto come il Vima, per non parlare della Kathimerinì: il dibattito pubblico greco, che fino a pochi giorni fa si concentrava sugli effetti dei cedimenti di Tsipras su questo o quel punto della trattativa con i creditori, ora attacca il premier perché si è fermato dinanzi a richieste ben più gravose, insostenibili per un partito giunto al potere con lo scopo primario di por fine alla politica dei memorandum. Articoli pieni d'insulti, lunghi reportages su presunti dissensi e defezioni nella compagine di governo, accuse d'intelligenza con i neonazisti, scenari apocalittici sull'immediato futuro, servizi su trattative sotterranee per riesumare "governi tecnici" più fidati (l'ex premier Kostas Karamanlìs?); nessuna sorpresa per chi sappia (come Francesco De Palo, Greco eroe d'Europa, Albeggi 2014) quali potenti gruppi economici si celino dietro all'informazione greca (e se non ci fosse la rediviva ERT...).
È insomma ricominciato sui media - a tinte più forti - il crucifige già sperimentato nelle doppie elezioni del 2012 e poi in quelle del gennaio scorso, quando la disinformacija contro gli irresponsabili dilettanti di Syriza fu praticata da leaders europei e da giornalisti locali (alcuni dei quali, si è appreso da una recente inchiesta parlamentare, "indottrinati" dal FMI in appositi seminari). E toni non meno sprezzanti (oltre la decenza), nei confronti della "sinistra statalista" e dei "poveri incapaci", si odono perfino in Parlamento dai banchi del partito cui guardano con simpatia le cancellerie europee, i "liberali" del Potami. Mirare alla democrazia più giovane, far leva sulle sue inesperienze e contraddizioni, delegittimare gli eletti, terrorizzare la popolazione: strabiliati dall'unico politico che mette apertamente in discussione i loro dogmi e smaschera i loro interessi, i governanti dell'Eurozona e i loro seguaci adottano (con mezzi diversi) una strategia non dissimile da quella dell'ISIS in Tunisia.
Il gioco è particolarmente delicato perché sfrutta senza scrupoli una frattura effettiva nella società greca, che il referendum rischia oggettivamente di approfondire, e che corre da sempre anche all'interno del partito di maggioranza relativa, spesso financo nella coscienza dei singoli cittadini. Da un lato sta l'insostenibilità delle politiche recessive applicate fin qui, e la necessità di un cambiamento che dia una qualche speranza: chi oggi denuncia le file ai bancomat forse non vuole ricordare chi ha prodotto le code quotidiane alle mense dei poveri, cresciute a dismisura in questi anni; chi oggi parla di danni al commercio forse non ha guardato le vetrine eternamente chiuse - per colpa della trojka - nel centro di Atene; chi oggi s'inquieta se i medici di Salonicco diramano appelli a prestare cure gratuite forse non ricorda quanti ospedali, per le ricette del FMI, sono stati chiusi o ridotti al lumicino dal 2010 a questa parte.
Dall'altro lato sta l'ancestrale timore (culturale, economico e geopolitico) che l'Europa sfugga di mano relegando il Paese in una dimensione balcanica, emarginandolo in direzione di una famelica Turchia e un Medio Oriente in fiamme. Il modo più semplice di titillare questo riflesso condizionato, che permea la cultura greca sin dall'Ottocento, è quello di gabellare il referendum - come fanno tutti, da Samaràs alla Merkel, da Juncker a Renzi - come un "sì" o un "no" all'euro, o addirittura alla permanenza nell'Unione Europea: è questo un atto di malafede, come sa chiunque abbia ascoltato le dichiarazioni di Tsipras (Varufakis si dice perfino pronto a ricorrere alla Corte Europea contro un'eventuale estromissione dall'Eurozona; se anche alcuni all'interno di Syriza vedono di buon occhio la dracma, questa non è mai stata la posizione della maggioranza o del governo). Questa menzogna è tanto più grave in quanto presuppone implicitamente di identificare l'Europa con ben precise politiche di asservimento economico (l'Annessione di cui parla Vladimiro Giacchè), di abbattimento del welfare e di riduzione salariale, che sono la spina dorsale del documento su cui i Greci voteranno domenica.
Nei cosiddetti "negoziati" (la proposta-ultimatum, quella su cui si vota) si è voluto imporre alla Grecia non solo l'ammontare dei soldi da ricavare dalle singole voci di bilancio (per es. dall'aumento dell'IVA, dalle nuove tasse, o dalla riforma delle pensioni), ma anche la regolazione interna (per es. a quali prodotti, isole, attività aumentare l'IVA, quali e quante imposte sulle imprese introdurre, con quale meccanismo tagliare gli assegni pensionistici); si è voluto proibire alla Grecia di modificare - a saldi invariati - il proprio mercato del lavoro, e le si è ordinato di liberalizzare panifici e farmacie invece di cominciare a mettere in discussione i grandi cartelli industriali. Il problema del debito - che è quello centrale - non è stato nemmeno sfiorato, e anzi si è previsto un meccanismo di controllo mensile in vista di una nuova verifica dopo 6 mesi, con il Paese ancora più ostaggio di prima.
Dinanzi a questa lampante e indigeribile espropriazione di sovranità (unita al controllo sempre più straniero su strade, porti, acqua, energia), nessun governante onesto avrebbe firmato. La miopia della classe dirigente europea sta nel non prevedere che ove cadesse Tsipras, e magari venisse ripresa la "terapia" su quanto resta della Grecia, tutte le alternative, in Europa e fuori, sarebbero molto peggiori: estremismi di destra, da Alba Dorata al Front National alla Lega, la cui crescita costante sembra non preoccupare più. Un'eventuale vittoria del "sì" porterebbe alla fine del governo greco, e, per un lungo periodo, alla morte di ogni chance di trattativa politica sostanziale (per la Grecia e per l'Europa tutta): il vasto disagio si convoglierebbe verso forme di protesta prevedibilmente meno ordinate, e meno democratiche.
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