Home / Archivio / fascia bassa / Padri e figli

facebook-link twitter-link

Newsletter

Registrati alla newsletter di sbilanciamoci.info

Archivio

Ultimi articoli nella sezione

08/12/2015
COP21, secondo round
di Lorenzo Ciccarese
03/12/2015
Lavoro, la fotografia impietosa dell'Istat
di Marta Fana
01/12/2015
La crisi dell’università italiana
di Francesco Sinopoli
01/12/2015
Parigi, una guerra a pezzi
di Emilio Molinari
01/12/2015
Non ho l'età
di Loris Campetti
30/11/2015
La sfida del clima
di Gianni Silvestrini
30/11/2015
Il governo Renzi "salva" quattro istituti di credito
di Vincenzo Comito

Padri e figli

29/08/2014

Il lavoro non si vede, di lavoro non si parla. È un argomento tabù, la cui narrazione è affidata alle retoriche aziendaliste, mentre la realtà parla di disoccupazione, precarietà e sfruttamento. E la crisi fa deflagrare il conflitto generazionale, con i padri che svolgono il ruolo dei figli

Sul parapetto, vicino al corrimano della scala che portava al metrò, qualcuno aveva lasciato un biglietto. Era timbrato, ma lo guardai e vidi che valeva ancora una mezzoretta. Ero fortunato. Non solo perché il tragitto fino a casa era di venti minuti scarsi, ma anche perché un simile evento era raro ormai. Quando avevano aumentato i prezzi del biglietto per la prima volta, la reazione alla nuova misura si era manifestata in un modo singolare. I nuovi biglietti rimanevano validi per un'ora e mezza dalla timbratura: ma un'ora e mezza era troppo anche per andare da un capo all'altro della città. Così, quando uno usciva dalla metropolitana o dall'autobus, aveva quasi sempre in mano un biglietto che consentiva un'altra mezzora di viaggio. Quando la gente se ne accorse, invece di gettarlo via iniziò a lasciarlo in posti nei quali potesse reperirlo il prossimo viaggiatore; molte volte ti trovavano davanti alle macchinette e prima che tu ne comprassi uno nuovo ti mettevano in mano il loro. Disobbedienza legale. E così nessuno pagava il prezzo, né del biglietto né della disobbedienza. Ma col tempo anche questo finì. Non so perché. Non conosco nessuno, cioè, che sia finito nei guai per aver dato a un altro il suo biglietto convalidato. Forse la gente ha pensato che donare il proprio tempo a un terzo è in qualche modo un atto di tracotanza. Un turbamento dell'ordine. Non solo di quello legale, ma anche di quello fondamentale dell'esistenza stessa, l'ordine cosmico. Gli uomini non sono capaci di essere generosi con il tempo.

Cacciai il biglietto nella tasca posteriore e discesi la scala mobile. Non mi soffermai sulle cause della mia buona sorte. Ultimamente era in difetto, e non volevo stuzzicarla con pensieri sul perché e il per come. Del resto non è che non avessi cose più serie a cui pensare.

Quando arrivai a casa non trovai nessuno. Per fortuna, perché non avevo voglia di parlare. Ero stanco e l'unica cosa che volevo era coricarmi. A mia memoria non ho praticamente mai dormito il pomeriggio. Ma da qualche mese non riesco a sfangare la giornata se non mi corico anche solo una mezzora. Anche se non faccio nulla, anche se esco semplicemente e vado in centro, quando torno sono sfinito. Come se fossi continuamente a pezzi, per dire. Al principio non ci avevo dato importanza, ma col tempo mi ero inquietato ed ero andato dal medico. Nessuna patologia, mi aveva detto. Mi prescrisse degli esami del sangue, per togliermi il sospetto – disse – ma non me ne curai. Mi aveva detto che non avevo nulla, non vedevo perché perderci tempo. Non avevo mai avuto simili ipocondrie, né soldi da spenderci appresso. Andai dritto verso il frigorifero, ingurgitai mezza bottiglia d'acqua, poi entrai in camera mia e senza nemmeno spogliarmi né chiudere le persiane mi coricai sul letto e mi addormentai.

Mi svegliò un messaggio sul cellulare. Era Eleni. Non volevo rispondere in quel momento e dunque non lo aprii per vedere cosa diceva, perché l'icona sarebbe scomparsa dallo schermo e magari me ne sarei dimenticato. Mi alzai, mi tolsi la maglietta madida di sudore, e andai in cucina a farmi un caffè. Erano le quattro. Qualcuno stava girando la chiave nella toppa.

L'estate è la stagione peggiore. Sin da bambino non l'ho mai amata. Era un vero tormento. Ci lasciavano liberi tre mesi per vedere com'era la vita, per poi riportarci nel recinto a settembre. Come darti mezzo boccone di un dolce. Anche da grande non la sopportavo. Caldo, un caldo impossibile, ma ugualmente a lavorare. E appena prendevi le ferie, hop hop subito tirar su famiglia e carabattole e via una ventina di giorni a correre ora dai suoceri ora dai genitori. Tutto l'anno di corsa, di corsa anche l'estate con la canicola e il solleone. Anche una volta in pensione, l'estate ho continuato a detestarla. Certo, hai tutti i giorni per te: ma non sai che farci. Se uno avesse trenta, quarant'anni, per dire. Io andavo per i settantacinque suonati. Non è un'età per vivere. «Gli anziani prestino attenzione alle giornate afose: è meglio non uscire e restare in luoghi freschi»: non lo dicono anche alla tivù? L'altro giorno in metrò ho visto un manifesto su un tale che era scomparso. Un anziano, dicevano. Di anni cinquantotto. Un bambino, in confronto a me. Che dire. Alla mia età, anche se volessi, l'estate non dovrebbe piacermi. È pericolosa.

Penso a tutto ciò mentre sudo e mi affanno cercando di salire la strada di casa. Un tempo il bus mi lasciava a dieci metri dall'entrata, ma qualche mese fa hanno ridotto l'itinerario e dalla fermata ho dieci minuti a piedi. Sono quasi le quattro e il sole cade a picco sul solco in cui cammino in mezzo ai condominî. Mi pento di essere uscito, ma non potevo farne a meno. Non volevo trovarlo nel momento in cui tornava a casa. Le cose già così sono difficili, e appena posso fare qualcosa, dargli un po' di respiro, anche così, devo farlo. Altrimenti non se ne esce. Capii che era lui perché lasciò le chiavi sul tavolino accanto alla porta. Era il solo che faceva così. «Buonasera» esclamò ancora sulla porta. «Buonasera, sei uscito?» «Sì, ero andato al bar e ho incontrato Andonis. Te lo ricordi? Un compagno di lavoro, erano anni che non lo vedevo. Lavora ancora lì, ma mi dice che il negozio non va per niente bene». «Ce n'è forse uno che va bene?» buttai lì, perché non volevo proseguire quella conversazione. «Tu come butta?» Con la coda dell'occhio notai che non mi stava guardando. Faceva finta di rovistare nel frigorifero. Fingeva che non gli interessasse. Che stesse chiedendo per pura curiosità. Era non meno imbarazzato di me che giravo il caffè quasi sperando di essere risucchiato dal vortice che si era formato nella tazza.

«Come sempre».

«Hai mangiato?»

«Sì, sì. Ho messo qualcosa sotto i denti quando sono tornato. Vabbè. Vado un po' in camera, ho delle cose da fare al computer».

«Ok. Se accendo la tv ti dà noia?»

«No. Allora a dopo».

Mi rinchiusi nuovamente in camera mia. Non reggevo queste conversazioni scontrose. Parlavamo senza guardarci neanche più in faccia. Tutto era stato corrotto dalla ripetizione. Che cosa dovevo dirgli? Che anche stavolta non avevo passato nemmeno un colloquio? Che mi avevano detto «Grazie, lasci il curriculum e le faremo sapere»? Che aspettavo? Che cosa poi? Se lui non la prendesse seriamente quanto la prendo io, forse le cose sarebbero più semplici. Se si arrabbiasse, se urlasse che qualcosa in me non va, che non regge più questa situazione, forse le cose sarebbero migliori. Forse potrei guardarlo in faccia, urlare anch'io, dirgli lasciami in pace, faccio quello che posso. Cerco ovunque. Bar, caffè, ovunque. I miei diplomi firmati ce li ho. Cerco un lavoro. Uno qualsiasi. Un lavoro. Non lo vedi? Pensi che stia qui a spassarmela? Pensi che per me vada tutto bene? Un tempo avevo pensato di dirgli che non mi aiutava stando così tanto dalla mia parte. Ma sarebbe stato un torto ancora peggiore. Uno non può diventare ingrato per proteggere il proprio egoismo.

Non avevo nulla di serio da fare al computer. Gettai un'occhiata alle notizie e poi mi ricordai il messaggio di Eleni. Mi proponeva di andare al cinema. Le scrissi che ero al verde. Cinque minuti dopo mi rispose dicendo che il film che voleva vedere lo davano a un festival e che l'ingresso era gratuito. Le dissi di sì e stabilimmo di trovarci direttamente al parco dove veniva proiettato il film. Avevo tempo prima dell'appuntamento, così bevvi il caffè cazzeggiando ancora un po' prima di iniziare a prepararmi.

Lo trovo in cucina e dal modo in cui sta chino sul caffè capisco che anche oggi è andata uno schifo. Lo sapevo, lo sapevo ma, come si dice, la speranza è l'ultima a morire. Nel frattempo però ti dà il tormento. Faccio finta di non capire e provo a parlare d'altro, ma lui non ha voglia di discorsi. Allora gli faccio la domanda, per liberare tutti e due del peso, caso mai si sbottonasse e potessimo avere una conversazione normale. Altro errore. Lì per lì se ne va in camera. Si vergogna ancora di guardarmi in faccia.

Sbuccio un’arancia e mi siedo davanti alla tv. Resto così per cinque, dieci minuti. Con la tv spenta. Com’è possibile che non riusciamo a fare nemmeno un discorso, a sederci come uomini senza che uno cerchi di sfuggire all’altro? So bene perché e per come. Quello che non so è come far sì che lui si segga a parlare. Come liberarci entrambi di questo peso. Ho sempre paura di peggiorare le cose. Non sono bravo con le parole.

Accendo la tv e la metto un poco alta. Anzitutto per lui, affinché non creda che mi sono dispiaciuto per le sue notizie e che sto lì a rimuginarci sopra. Ma la mia mente è sempre lì. Al coraggio che mi manca di prenderlo e parlargli, di alleggerirci tutti e due. Ma non so se tutto ciò abbia senso ormai. Ci siamo arresi da un pezzo.

Lo trovai in salotto dinanzi alla tv. Camicia aperta, braccia stese lungo i braccioli della poltrona. L’aveva colto il sonno. Pareva che quell’esaurimento che mi tormentava da mesi fosse diventata una malattia contagiosa. Certo non era giovane, ma nemmeno tanto vecchio. Non troppo tempo fa, prima che iniziasse la nostra convivenza, me lo ricordo tutto pieno di vita. Ormai era diventato come un gatto. Appena il suo corpo si trovava a suo agio chiudeva gli occhi. In pochi mesi era invecchiato. L’avevo invecchiato; e alla prima occasione il sonno diventava la sua via di scampo.

Camminai in punta di piedi verso la porta, ma le suole delle scarpe sul nudo marmo mi tradirono. Sì guardò attorno come sperduto e quando mi vide mi disse:

«Esci?»

«Mi vedo con Eleni» gli dissi girandogli le spalle, come cercando le chiavi.

«Soldi ne hai?»

La mano mi andò inavvertitamente alla tasca e lì si gelò. Non sapevo che rispondere. Non ne avevo, ma nemmeno ne volevo. Aveva sempre cura di chiedermi prima che chiedessi io, per preservarmi dalla vergogna. Ma così mi logorava ancor di più. Non era una questione di orgoglio. Era che capivo di essere diventato una preoccupazione, oltre che un peso economico. E a quell’età lui non meritava di sopportare né l’una cosa né l’altra. A quell’età, erano le mie spalle che dovevano sostenere ogni suo peso. Non per dovere. Ma perché volevo trovare un modo più tangibile di mostrargli quanto lo penso, quanto gli voglio bene. Per liberarlo finalmente da tutto ciò che non gli appartiene. Che potesse pensare esclusivamente a come passare la giornata. Come meritava una persona a cui non avevano mai regalato niente.

«Ne ho». mentii, «grazie», e feci per andar via.

«Sei sicuro di non volerne? Vieni qui che ti do qualcosa».

«Sicuro, sicuro. Scappo che sono in ritardo. Un bacio».

Non mi voltai a guardarlo. Un tempo riuscivo a comprendere la generosità del suo affetto, ormai non riuscivo nemmeno ad affrontarla.


Esce di casa sempre come un ladro.

Quando siamo in bagno o dormiamo. Butta lì in fretta «io esco, ho da fare, mi vedo con il tale» e lascia dietro di sé solo lo sbam della porta.

Così anche stavolta, sgattaiola via mentre dormo. Mi viene in mente di fingere di dormire e di lasciarlo andare, ma gli parlo. Mi fa male sapere che va in giro come un bambino con cinque euro in tasca, e gli chiedo se vuole soldi. Mi fa male, perché è un uomo di trentacinque anni e non può fare nemmeno la metà della vita che facevo io alla sua età. Mi fa male, perché so che non è colpa sua. Mi fa male, perché io l’ho cresciuto e so che si sente menomato a non poter uscire nemmeno con la sua ragazza se non lo rifornisco io. E anche se non gli ho mai chiesto il rendiconto dei soldi, si sente sempre in dovere di farmelo. Di chiedermi a modo suo il permesso, di giustificarsi per qualunque cosa faccia, quasi andasse ancora a scuola. Capisco che lui lo sente come un dovere. Che mi sfrutta. Che mi pesa. E io voglio dirgli che non è così. Che le famiglie ci sono per questo, per i momenti difficili. Che lo so che non lo fa volontariamente. Che verrà il momento in cui le cose cambieranno. Che tutti abbiamo cedimenti e non è un male che qualcuno ci dia una mano quando siamo a terra. Ma non gli dico niente. Ho paura. Ho paura quasi fossimo a un funerale e io parlassi del morto e poi qualcuno scoppiasse in lacrime e poi... Come guardarci in faccia? Ci vergogniamo l’uno di aprire il cuore all’altro, perché da anni abbiamo imparato che gli uomini tirano dritto senza fiatare. Che questo vuol dire essere forti.

Chiude la porta dietro di sé e riapro il volume della tv.

Eleni non se ne curava affatto. Non ne avevamo mai parlato, ma la vedo. Si vede da come si muove per casa. Non le dà fastidio. Assolutamente sciolta. Io invece mi angoscio. Un giorno le avevo detto di mettersi qualcosa di più lungo, di non girare per casa solo con la mia maglietta, e mi disse «ma perché fai così? sto andando solo in bagno! Sei totalmente conservatore, Ghiannis. Totalmente piccoloborghese». Stavo per dirle che non era questione di conservatorismo, ma era già entrata in bagno, aveva chiuso la porta e aperto il rubinetto perché scorresse l’acqua. Le urlai tu lasci scorrere l’acqua affinché io non ti senta pisciare, e poi il piccoloborghese sono io. La casa è piccola ribatté si sente tutto. Appunto dico risposi La casa è piccola, dunque... Non continuai. Non aveva senso. Avrebbe seguitato a fare come aveva imparato. E aveva imparato diversamente.

La casa è piccola e diventa ancora più piccola perché non abito da solo. Eleni viene a trovarmi spesso e volentieri e qualche volta rimane anche la sera. Sono i giorni in cui siamo in quattro "coinquilini". Sono i giorni più difficili. Non è tanto il problema di chi deve andare in bagno o di chi o quando ha lasciato piatti sporchi nel lavandino e chi li laverà tutto questo è risolto. Il mio problema è un problema di spazio. Non lo spazio che si misura in metri e metriquadri, ma lo spazio personale, quello che ha a che fare con come disponi del tuo tempo quando ti ci muovi dentro. Il non sentire che la vita è sempre esposta agli sguardi degli altri, per quanto tuoi cari. Dovere dar conto del tuo abbigliamento, giustificarti in qualche modo perché alla tale ora ti è venuto di fare questo o quello. Non che nessuno mi dica nulla. Io non tollero che gli altri mi tollerino. Per quindici anni sani questa non è stata casa mia. Era loro e solo loro. E adesso arrivo io e la mia agenda, la mia vita mangia spazio alla loro, e invece di lamentarsi si fanno da parte e mi offrono altro spazio ancora. Come quando mi crescevano ed ero la loro prima e unica preoccupazione. Soprattutto questo non tollero. Vedere un’altra volta la loro vita passare in secondo piano affinché io viva la mia nel modo più comodo possibile. Di questo mi angoscio. Della loro angoscia.

Il film era una bufala. Colpa forse anche della mia disposizione d’animo. Eleni invece era entusiasta e mi rimproverò che mi lamentavo per ogni cosa. Dalle banalità della sceneggiatura alla fotografia mediocre. Certe volte sei intollerabile, mi disse. Nemmeno una commediola riesci a goderti. Sempre a cavillare e a criticare. Giunsi a un pelo dal mandarla al diavolo, ma capii che non tutte le persone prendono le cose così sul serio. In questo io e lei eravamo diversi, e forse era per questo che stavamo ancora insieme. A Eleni non disturbava abitare ancora con i suoi. Anche lei, come me, aveva perso il lavoro ed era stata costretta a disdire l’affitto e a tornare su due piedi nella sua stanza di bambina, ma la cosa la divertiva. «Dormo di nuovo con i miei orsacchiotti» mi diceva così quasi graziosamente. Nel frattempo era riuscita a trovare un lavoretto con qualche lezione privata e almeno copriva le spese. «Fa una grande differenza» le dissi una volta. Disse di no. «Non è il lavoro che mi rende ottimista. È che so di sapere ancora nuotare. Nuotare e non annegare». Io non sapevo più cosa sapevo ancora e cosa avevo dimenticato.

Tornai a casa da solo. Alla fine non eravamo riusciti a non litigare. Mi propose di continuare con una birra da qualche parte e le dissi che non avevo soldi. Mi disse che avrebbe offerto lei e a quel punto persi la testa e feci tutta una predica sul parassitismo, la dipendenza, e che era una vergogna permettersi certi lussi in una simile situazione. «Mi serve un lavoro le dissi non birra e relax. Rilassato lo sono già». Mi rispose che sono uno stupido e un miserabile, mi piantò lì e presi da solo l’autobus verso casa. In tutto il tragitto mi rifiutai perfino di mettere le cuffie e di ascoltare musica, perché la giornata era andata di merda e dunque non era opportuno provare a risollevarsi l’animo anche di poco. Ma solo subire la città e l’odore dell’immondizia, come un’arancia tagliata di fresco, che si mescolava con l’umidità e si confondeva con il mio sudore.

Non riesco a dormire. Mi sono coricato e ho provato, ma il sonno non tiene. Forse è che la routine si è spezzata questi giorni in cui Katerina è andata al paesello a trovare sua madre. Forse penso che dovremmo finalmente affrontarlo, quel discorso. Mi verso un dito di vino e lo aspetto in cucina.

La porta di casa non era chiusa a chiave, dal che si capiva che non dormiva ancora. Se non avessi già inserito la chiave e non mi avesse dunque per forza sentito, avrei fatto dietrofront e sarei andato via, a girare per le strade finché passasse un altro po’ di tempo e lui andasse a dormire. Non riuscivo a stargli davanti. Non riuscivo a stargli davanti quando tornavo a casa dopo un’uscita. Lui sulla sua poltrona e io di ritorno con i suoi soldi. Ladro del suo tempo e della sua felicità.

Lo sento che apre ed entra. Non lo vedo ancora.

«Buonasera. Vado a letto. Sono stanco».

«Prendi un bicchiere e vieni a sederti un po’ qui con me».

«Un’altra volta, adesso...»

«Ho detto vieni e siediti. Basta con queste fesserie».

«Quali fesserie? Che cosa dici? Hai voglia di litigare?»

«Ghiannis, ho detto siediti. Dobbiamo parlare».

«È successo qualcosa? Ti ha chiamato la mamma? La nonna sta male?»

«Tutti stanno bene. Voglio parlarti di me. Ecco. Il vino è lì. Stavo pensando, sai. Quanto tempo è? Tre anni che sono andato in pensione? Cioè ora ho, potremmo dire, 70-71 anni. Dico dunque: quanti anni buoni ho ancora? Pochi; molti certo non saranno. Al punto in cui sono, sai, dovrei augurarmi che i giorni passino lentamente. Come dire, figlio mio, che siano pieni minuto dopo minuto. Che un giorno sia come dieci e che nonostante ciò io mi trovi a dire che è passato in fretta. Ma al contrario mi rode la pena che non passino rapidamente. Ecco, dovessero passare come i secondi sarei entusiasta. E sai perché? Perché i giorni li trascorro aspettando e quando non fai che aspettare non è più vita, è un turno di guardia. Mi dirai, cosa aspetti papà? Aspetto che arrivi la fine del mese, Ghiannis, per avere i miei soldi, e poter comandare ancora. Pensavo questo, sai, e dentro di me ho detto, sbagli. Sbagli di grosso. E per tutto questo tempo né io né te l’abbiamo capito. Perché io ti vedo così curvo e per abitudine mi incurvo anch’io, e poco a poco dimentichiamo che questa cosa non è vita. E va bene per te che non capisci, ma io ho vissuto qualcosina in più di te e non ho giustificazione. No. Non dirmi niente. Ora parlo io e voglio che tu mi stia a sentire. Capisco tutto, tutto. Io ti ho cresciuto e so chi è mio figlio. Vedo che ti angosci e fai come se ci fosse un modo di congelare la giornata, di farla diventare un mese e un anno per sfoderarla con i venti euro che ti ho dato affinché tu non abbia bisogno di richiedermene altri. Sei un condannato dell’orologio, figlio mio. Tu come un vecchio e io come un giovane. Tu con la paura e io con la spavalderia. Hai capito? Tutto sottosopra. La vita non funziona così. In questa casa io non ti ho né come genero né come figlio. Non è uno scambio. Siamo fissi sulla stessa trincea tutti e due, e uno deve aiutare l’altro. Oggi posso io, domani potrai tu. Così va la faccenda. Non vergognarti di chiedere e io non mi vergognerò di darti. Affronti una lotta difficile e non ti arrendi. Non so né come né quando finirà, ma quando uno affronta una lotta noi altri dobbiamo sostenerlo. Ho davanti a me un uomo che non si è arreso. Così ti vedo. E per questo so che posso avere fiducia in te come compagno, non solo come figlio. Per questo ti dico, questo deve finire. Sia io che te sbagliamo. Possiamo andare avanti assieme? Questa è l’incognita. Perché comunque sia, nulla dura per sempre. Né le cose buone né quelle cattive».

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info? Clicca qui

Commenti