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Europa, etimologia di una storia

25/03/2014

Il mito di Europa delimita e descrive già lo spazio geopolitico del Continente all’interno di una visione del mondo dominata dalla forza e dalla violenza patriarcale

Per ripensare le basi fondative dell’Europa comunitaria è necessario includere nella riscrittura le sue stesse ascendenza mitologiche. Creare un nuovo mito è, sul piano del pensiero, come in natura selezionare un nuovo gene che funzioni: una operazione titanica. Questa fu la sfida del Manifesto di Ventotene che, ancora prima della strumentazione politica metteva in essere una visione dell’Europa unita radicalmente differente da quella che, per millenni, si era affermata all’interno ed all’esterno del Continente, identificando l’Europa con l’Occidente e la sua supremazia. Le correnti profonde che ne hanno determinato prima l’espansione e poi la supremazia sul mondo intero, dovevano necessariamente rifluire nel punto da cui la grande onda era cominciata, la Grecia, ed erodere come acqua stagnante le fondamenta della sua costruzione più significativa in termini politici: la democrazia.

L’Occidente è il luogo in cui il sole tramonta; nomen omen: di fronte alla scomposizione non solo politica ma prima di tutto culturale e valoriale dell’ideale unitario per il vecchio continente - di cui i rinascenti nazionalismi e i rigurgiti xenofobi sono solo un sintomo, anche se il più evidente e preoccupante - il nome stesso appare come un presagio che contiene in sé il suo destino, come se, nella genesi del pensiero che vide gli albori nelle invasioni doriche dell’isola di Creta e nella progressiva distruzione e sussunzione del pensiero matriarcale nel patriarcato simboleggiato dal re degli dei olimpici, fosse già implicita la natura cruenta del suo dispiegarsi ma anche del suo ripiegarsi sino alle estreme conseguenze.

Il mito di Europa, principessa reale libanese rapita con l’inganno e violentata da Giove, delimita e descrive già lo spazio geopolitico del Continente all’interno di una visione del mondo dominata dalla forza e dalla violenza patriarcale, in cui le gerarchie tra uomini e dei sono solo il riflesso di quelle tra liberi e schiavi, proprietari e subalterni, conquistatori e conquistati. Omero, attraverso la narrazione dell’eroe borghese Ulisse, come lo definiscono Adorno ed Horkheimer nel loro Dialettica dell’Illuminismo, si incarica di tracciare in termini mitologici gli archetipi del potere temporale che governerà il destino del Continente e la sua espansione: la rotta del ritorno dopo aver sconfitto con l’inganno la città avversaria nei commerci e nella cultura, guerra sanguinaria pretestuosamente viene, ancora una volta, motivata dal possesso di una donna, Elena. Il conflitto costituente si svolge poi annichilendo via via le potenza primigenie del vasto e profondo mare, il territorio che nessuno può dominare tranne che con la eliminazione fisica dei suoi mostri: Polifemo, le Sirene, sono tutte ipostasi del profondo, dell’inconscio che sempre chiama l’uomo alla sua appartenenza naturale, inconciliabile col pensiero dell’ordine borghese e del profitto mercantile ottenuto a scapito dello sfruttamento della vita. I mostri marini sono le prime vittime della biopolitica, da Scilla e Cariddi giù giù sino a Moby Dick. L’assetto proprietario non può permettersi l’emergenza del profondo, del richiamo ad una appartenenza comune, ad una sola Terra: deve dominare, regolare inquadrare. Così e per questo nasce la sua filosofia. La distinzione tra il soggetto e l’oggetto crea la necessaria distanza, l’area del dominio dell’uomo sul Mondo, e con essa le sue pratiche e gerarchie. Ulisse si fa legare per non soccombere al canto delle Sirene, ma così facendo non lo intende. Ma i suoi uomini, che remano, non devono nemmeno provarci: solo il padrone può osare la conoscenza, il popolo che resti alle macchine. Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, invece, un eroe, Bute, lascia il remo, si solleva, e si tuffa verso il canto primordiale; Orfeo, con la sua cetra ha intanto azzerato il potere del canto delle Sirene permettendo, ancora una volta, all’ordine militare della spedizione di non essere fermato dal richiamo del profondo. Bute sarà amato da Venere, il premio per le vite che si aprono all’amore per il Mondo, mentre Giasone continuerà la sua arte dell’inganno, proprio come Ulisse o Teseo che, ingannando le forze primordiali, sconfiggendo Circe ed il Minotauro, ingannano in realtà se stessi, ma fondano una civiltà millenaria, un ordine gerarchico in cui è già riflesso quello che dominerà la visione di chi, di volta in volta, conquisterà l’Europa con la forza dell’inganno o delle armi. Passano gli anni e l’Europa diventa, sulla base della sua filosofia, della sua visione scissa tra uomo e Mondo, un continente di dominati che a sua volta diviene di dominatori: non è così che ci insegna il mito fondatore? Non erano forse divenuti i figli di Europa dei potenti Tiranni? L’innesto cristiano dona vigore trascendentale a queste forze che, con l’uso strumentale dell’Illuminismo da parte della borghesia vincitrice della rivoluzione francese, trasforma la forza della Ragione in Ragione della forza. Il Colonialismo espande in nome della civiltà lo jus publicum europeum diventato così il riferimento globale per i commerci mondiali, mentre il Continente viene dilacerato dallo scontro tra poteri che ripetono, ancora ed ancora, il gesto stupratore di Giove: imperi, imperatori, fuhrer, duci, zar, papi; sono solo le forme storicamente determinate del vecchio mito che si rinnova sempre uguale a se stesso.

La seconda Guerra mondiale sarà l’apoteosi di questo ciclo. Poi, nel buio della Guerra, qualche visionario penserà di creare un altro mito fondatore. Eppure il nuovo mito di Europa nasce e si afferma: non vede più la bella principessa libanese presa con la forza e con l’inganno ma decidere liberamente il suo destino, cioè i popoli europei, usciti da una guerra che aveva minacciato alla radice la loro stessa esistenza come diversità conciliabili, avevano deciso di unirsi spontaneamente, per creare una casa unica nella quale far convivere le diversità come fonte del bene comune. Si cominciava col condividere il passato, il carbone e l’acciaio, ed il futuro, l’energia atomica a scopo pacifico; ma questo era solo l’inizio di un percorso di unificazione dal basso, democratica appunto, e non più guidato da poteri forti ed ingannevoli che, in nome di principi condivisi regnavano invece in nome di interessi di parte. Non è andata così. Quel mito rinnovato da Spinelli è stato tradito: il profitto ed i suoi agenti, imprenditori, politici, burocrati, lobbisti, hanno esautorato il ruolo delle forze popolari e, per rendere evidente che la storia continuava come prima, il Potere gerarchico si è finalmente accanito verso la nazione che aveva prodotto, anche se per un breve momento, quella forma di governo, la democrazia, che tanto fastidio dà ancora ai manovratori del liberismo continentale e non. Anche la democrazia di Pericle, in fondo, era durata solo un attimo: sommersa, come si doveva, da Tiranni e forze più organizzate, da gruppi oligarchici che, naturalmente, dovevano prendere il potere. Forse che Platone non lo aveva previsto? O che per scrivere i suoi dialoghi più politici, Le Leggi o La Repubblica, non era andato a scuola da Archita da Taranto, allora il Tiranno più potente del Mediterraneo? Ma, come la Comune di Parigi, la breve primavera democratica di Atene, brilla ancora come una utopia nello sguardo di chi vuole tornare a far contare i popoli. Ed ecco che, proprio dalla Grecia, dove tutto è cominciato e tutto sembra finire, che riparte un rinnovato sostegno al mito della Nuova Europa, del Continente multiculturale composto da popoli che si autodeterminano all’interno di una partecipazione democratica che si fa bene comune.

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