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Il segreto della manovra “espansiva” del governo

09/11/2015

Siamo sostanzialmente di fronte ad un modesto rallentamento nel percorso di riduzione del deficit, ma secondo il governo si tratta di una manovra inequivocabilmente “espansiva”

Molto si è detto sulla legge di stabilità finanziaria 2015. Secondo il governo – e gran parte dei media – si tratta di una manovra «inequivocabilmente espansiva»; secondo i critici, non si può parlare di una manovra espansiva – la legge di stabilità prevede per il 2016 una riduzione del deficit dello 0,4 per cento, dal 2,6 per cento di quest’anno al 2,2 per cento – ma solo di una manovra meno restrittiva del previsto, che è una cosa ben diversa. La Nota di Aggiornamento al DEF del 19 settembre, infatti, prevede una riduzione del deficit inferiore a quella che si determinerebbe in assenza di interventi discrezionali (e alla manovra prevista nella bozza della legge di stabilità, pubblicata ad aprile).

Siamo sostanzialmente di fronte ad un modesto rallentamento nel percorso di riduzione del deficit, nulla di più; la Nota di Aggiornamento, infatti, parla di una «maggiore gradualità del consolidamento di bilancio». Il pareggio di bilancio, inoltre, viene spostato al 2018, un anno in più rispetto a quanto concordato in precedenza. Tanto basta al governo per definire la manovra «espansiva». «Ma è uno strano modo di ragionare», scrive Ruggero Paladini, giacché da che mondo è mondo il “segno” di una manovra si ottiene confrontando il deficit previsto per l’anno prossimo con quello dell’anno corrente. E visto che il deficit scende – e il saldo primario aumenta – la manovra non può che essere definita «restrittiva». Chi ha ragione, Paladini – e le altre voci critiche – o il governo?

Sicuramente più Paladini che il governo, ma c’è molto altro da aggiungere. Il punto, come fa notare l’economista australiano Bill Mitchell, è che è difficile capire se una manovra di bilancio sia espansiva o restrittiva solo guardando all’evoluzione del deficit nominale (differenza tra entrate e uscite), poiché quest’ultimo tende a salire o a scendere in base al ciclo economico e ai cosiddetti stabilizzatori automatici, indipendentemente dalle scelte discrezionali di politica fiscale: quando l’economia è debole le entrate calano e la spesa sociale aumenta, e dunque il saldo di bilancio scende (aumenta il deficit o si riduce il surplus); al contrario, quando l’economia è in buona salute, le entrate aumentano e la spesa sociale diminuisce, e dunque il saldo di bilancio sale (diminuisce il deficit o aumenta il surplus). La presenza degli stabilizzatori automatici vuol dire che non sempre è facile capire il “segno” delle scelte di politica fiscale di un governo: se il deficit scende non vuol dire necessariamente che il governo abbia deciso di perseguire una politica restrittiva, e viceversa.

Nel tentativo di depurare i conti dall’effetto del ciclo, gli economisti fanno ricorso al cosiddetto “saldo di bilancio strutturale”, il parametro principale utilizzato oggi in Europa per valutare la “sostenibilità” o meno delle finanze pubbliche degli Stati membri. Il fiscal compact, infatti, obbliga tutti i paesi ad assicurare il pareggio (o avanzo) di bilancio strutturale come obiettivo di medio termine. Per saldo strutturale si intende il saldo al netto del ciclo economico (ossia “epurato” degli effetti degli stabilizzatori automatici). Per tenere conto del ciclo, invece del PIL attuale si prende come riferimento il PIL potenziale, cioè il PIL che si avrebbe se tutte le risorse produttive (capitale e lavoro) fossero pienamente impiegate nella produzione. Poiché il PIL potenziale è sicuramente maggiore di quello attuale durante una recessione, il rapporto così calcolato risulta minore. In teoria questa regola dovrebbe offrire ai governi un piccolo margine di manovra fiscale in più in caso di recessione, costringendoli invece ad attuare manovre restrittive in caso di espansione, “raffreddando” così l’economia. A prima vista sembrerebbe una regola accettabile, persino keynesiana. Ma nei fatti le cose stanno diversamente.

Il punto è che per valutare quale sarebbe il deficit in assenza di una recessione o in caso di ripresa economica, serve una teoria: quale sarebbe il livello della produzione – gli economisti la chiamano “produzione potenziale” – se la situazione fosse “normale”? Più la differenza tra la produzione effettiva – quella che viene misurata – e la produzione potenziale è significativa, più la parte considerata congiunturale del deficit risulterà rilevante, e più il deficit strutturale verrà considerato basso. E viceversa. La differenza tra PIL effettivo e PIL potenziale è chiamata “output gap”. Supponiamo che un paese registri un tasso di crescita dello 0,5 per cento e un deficit pubblico del 3 per cento, e che si calcoli che il tasso di crescita potenziale del paese è l’1,5 per cento (output gap dell’1 per cento); in questo caso il deficit strutturale sarebbe pari al 2 per cento (3 – 1 = 2).

In un articolo che scrissi qualche anno fa facevo notare che l’utilizzo del saldo strutturale presentava numerosi problemi, in primis il fatto che non esiste nella teoria economica un metodo generalmente accettato per misurare la “produzione potenziale” di un paese, e che l’approccio liberista a cui si ispira tutta la governance economica europea tende a sottostimare enormemente la componente ciclica del deficit e dunque il divario tra produzione effettiva e produzione potenziale (di fatto costringendo i governi a ridurre il deficit anche in tempi di recessione).

Facevo notare, inoltre, che l’assenza di uno strumento per misurare oggettivamente il saldo strutturale di un paese – a differenza del saldo effettivo – dava ai burocrati della Commissione e/o dei singoli governi un potere enorme, poiché sono loro a stabilire, sulla base delle loro stime, quanto un paese sia destinato a crescere l’anno seguente, determinando così le misure di austerità “preventive” da varare in vista della riduzione dell’output gap.

Non avevo considerato, però, l’ipotesi – a ben vedere più innocua ma anche più machiavellica! – che un governo potesse arrivare a utilizzare il saldo strutturale a scopo propagandistico, ossia per “vendere” come espansiva una manovra che di fatto non lo è. Se guardiamo ai numeri del DEF, notiamo che per il 2016 è previsto un aumento del deficit strutturale, dallo 0,3 per cento di quest’anno allo 0,7 per cento. A prendere per i buoni questi numeri dovremmo dare ragione al governo: un incremento del deficit strutturale dello 0,4 per cento rappresenterebbe effettivamente una manovra «inequivocabilmente espansiva».

Ma come è possibile che ad una riduzione del deficit nominale di 0,4 punti percentuale corrisponda un proporzionale aumento del deficit strutturale? La risposta la troviamo nell’output gap, di cui la legge di stabilità prevede una drastica riduzione tra il 2015 e il 2016, dal 4 al 2,5 per cento, grazie ad un tasso di crescita stimato del PIL reale – del tutto irrealistico – dell’1,6 per cento. Ricapitolando, il governo vorrebbe farci credere che il semplice rallentamento del percorso di riduzione del deficit avrà un effetto espansivo così vigoroso da ridurre drasticamente l’output gap – ricordiamolo, la differenza tra produzione attuale e produzione potenziale –, con l’effetto di far aumentare il deficit strutturale, anche a fronte di una riduzione del deficit nominale, poiché si riduce la componente ciclica di quest’ultimo.

Un perfetto esempio di come una manovra vagamente restrittiva possa diventare – grazie ai trucchi contabili del saldo strutturale e ad un po’ di insano ottimismo – ultra-espansiva, permettendo al governo di presentarsi come paladino anti-austerity nel mentre che applica – con un po’ di flessibilità, ça va sans dire – le direttive del fiscal compact.

*Ha collaborato Guido Iodice

Articolo pubblicato da eunews.it

 

 

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