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"I" come indignazione

11/10/2013

L’abbraccio apparentemente innaturale delle “larghe intese” è il suggello di un pensiero unico che attraversa le forze politiche dominanti. Per ricominciare occorrono nuovi modi di partecipazione e una revisione dal basso dei sistemi della rappresentanza

C’è, nel Paese, un’anomalia. L’indignazione è maggioranza, schiacciante maggioranza. Basta vedere l’andamento del voto nelle ultime tornate elettorali. Ancor più, è sufficiente passeggiare in un mercato e viaggiare su tram o treni. Eppure quell’indignazione non conta nulla a livello istituzionale. Oppure veicola movimenti populisti e pieni di contraddizioni. Così cresce il rischio che l’indignazione si chiuda in se stessa e produca sfiducia e rassegnazione anziché resistenza e progettualità.

Crescono nel Paese i poveri. A dismisura. Nel 2012 le persone in condizione di povertà assoluta erano 4 milioni 814mila, pari al 7,9 per cento della popolazione (mentre nel 2011 erano 3,415 milioni pari al 5,2 per cento). E sono ben 9 milioni e 563mila, pari al 15,8 per cento della popolazione, le persone in condizione di povertà relativa, cioè con una disponibilità inferiore a 506 euro mensili. Senza contare l’area della “deprivazione” o della “vulnerabilità”, pari al 41,7 per cento degli uomini e delle donne, non in grado di far fronte a una spesa imprevista di 700-750 euro nell’anno. E cresce, ancor più, la disuguaglianza. Basterebbe. Ma c’è di più. Il di più è il degrado morale e istituzionale – insolente, a dir poco – che accompagna la crisi economica, producendo una vera e propria corruzione del sistema. I guasti riguardano, anzitutto, l'assetto etico del Paese. Sono stati “sdoganati” comportamenti che scardinano il lavoro pedagogico di generazioni. È stato autorevolmente autorizzato l'inaccettabile per qualunque comunità civile, come se l'appartenere al circolo magico del potere permettesse tutto. È stata cancellata – neutralizzata, assimilata, condivisa – l'anomalia italiana costituita dalla persona di Silvio Berlusconi, dalla sua trasgressione di tutti i caratteri di virtù pubblica e privata. E per questa via è stata sancita l'ammissibilità della compravendita dei corpi e delle menti, della frode e dell'evasione fiscale, dell'ostentazione del privilegio e della pratica del «non sa chi sono io», della menzogna sistematica e della falsificazione dei fatti.

Da un buco nero di queste dimensioni non si esce senza una straordinaria quantità di energia politica e sociale. Senza uno scatto morale. E, invece, ci tocca assistere allo spettacolo deprimente dell'assemblaggio forzato dei vecchi protagonisti del disastro in una comune maggioranza di governo. Si colloca qui il gigantesco non detto del dibattito in corso sul destino della “sinistra” e in particolare del Pd. In realtà la mutazione genetica in atto nel Partito democratico sta modificando (ha ormai modificato) il quadro delle culture politiche italiane. Senza considerare lo spettacolo meno nobile della corsa a ricollocarsi, spartirsi le potenziali cariche, riconquistare posizioni perdute, consumare vendette antiche e recenti, mutare amicizie... Può non piacere – e non piace – ma questo è il Pd reale, non quello immaginario dei falsi realisti che aspettano ogni volta un "segno" di una sua rinata identità di sinistra.

La nascita del governo delle “larghe intese” poi, lungi dal garantire stabilità, ha dato vita a un meccanismo auto-dissolutivo, istituzionalizzato l'instabilità e facendone un carattere strutturale del nostro sistema politico. Ma tensioni e instabilità sono determinati essenzialmente da questioni di superficie e di spartizione del potere. Nel profondo, l’abbraccio apparentemente innaturale delle “larghe intese” è il suggello di un pensiero unico che attraversa le forze politiche dominanti, traducendosi persino in gesti e parole indistinguibili: nell’ossequio cieco e acritico all’Europa dei mercati, nel tentativo di esorcizzare il conflitto sociale (fino ad evocare irresponsabilmente, con il supporto di improbabili maîtres à penser, i fantasmi del terrorismo) e finanche nel disegno di stravolgere la Costituzione, servendosi a tal fine di una inammissibile modifica dell’articolo 138, cioè della norma di chiusura che dovrebbe garantirci – tutti – contro i colpi di mano di aggregazioni corsare...

Tutto ciò è chiaro da tempo, ma – sino ad oggi – non ha trovato interpreti e soggetti capaci di raccogliere l’indignazione e di modificare la realtà. Non per mancanza di idee o di progetti, che, anzi, sono stati oggetto di molte significative elaborazioni. E neppure per carenza di risorse umane e personali, ché forse mai come nell’ultimo decennio c’è stato un fiorire di iniziative settoriali, movimenti, associazioni anche di grande respiro. Quel che è mancato è stata la capacità di costruire un soggetto (nuovo, plurale, partecipato) in grado di raccogliere consenso e di proporsi, anche nei luoghi della rappresentanza, come veicolo di cambiamento. Nel bacino degli indignati chi non ha scelto l’autoemarginazione si è mosso, sul piano elettorale e dell’organizzazione della rappresentanza, riproponendo metodi logori e perdenti. Le ultime consultazioni elettorali sono state univoche e senza appello. La sommatoria di vecchi soggetti politici della sinistra (con o senza rinforzi) è un’operazione perdente e impresentabile in sé, a prescindere dai programmi. E c’è di più. Il voto – con la ripetuta sconfitta dell’intero arco della sinistra, pur in situazioni spesso favorevoli – ha messo a nudo la fine (probabilmente irreversibile, per lo meno nel modo con cui esso è stato declinato nel Novecento) del termine “sinistra”, con quanto esso evoca, come elemento di aggregazione, convincimento, mobilitazione. Restano validi e addirittura rafforzati – almeno per noi – i contenuti fondamentali che in tale termine si sono condensati negli anni, ma senza modi nuovi per veicolarli rischiano di essere travolti.

Che fare, dunque?

Per ricominciare – come sempre è accaduto nei momenti cruciali della storia – bisogna prima finire. Inutile pensare a una rigenerazione di questo sistema. Il fatto è che un reale cambiamento deve passare attraverso una profonda discontinuità di prassi e comportamenti. Il punto fondamentale è ormai chiaro: chi fa la politica? i cittadini, singoli e organizzati nella rete di movimenti, associazioni, comitati che animano il quotidiano e i territori? o un ceto politico professionale, investito di una ampia delega, che trae la sua legittimazione da una sperimentata capacità tecnica (sic!)? Per chi sceglie la prima opzione – e non può non essere così nella nostra prospettiva – c’è un corollario. Non solo i partiti tradizionali ma la stessa forma partito, così come la conosciamo, è superata, finita, travolta dagli eventi (pur essendo stata – meritoriamente – l’asse portante dello sviluppo della democrazia del dopoguerra). E quel che è finito non si può resuscitare. Occorrono forme diverse, nuovi modi di partecipazione, una revisione dal basso dei sistemi della rappresentanza. Senza una rifondazione profonda – inutile illudersi e illudere – è finita anche la sinistra. Anche perché le indicazioni programmatiche, se non sorrette da un reale radicamento sociale e da adeguate garanzie personali, rischiano di restare dei “pezzi di carta”.

Il pezzo qui sopra costituisce l'introduzione al libro collettivo Grammatica dell'indignazione (Edizioni Gruppo Abele) in libreria dal 7 ottobre

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