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Intervista a Gallino: prima il lavoro

19/07/2013

Per uscire dalle secche della crisi va riportata in cima all'agenda politica la piena occupazione. Perchè avere un lavoro è più importante che avere un reddito e la perdita del lavoro può infliggere danni maggiori della povertà stessa. Parla il sociologo Luciano Gallino

Redistribuzione del lavoro e redistribuzione del reddito: è possibile conciliarle? Sul dibattito lanciato da Sbilanciamoci.info sul tema del reddito minimo garantito abbiamo interpellato il sociologo Luciano Gallino, professore emerito, già ordinario di Sociologia, all'Università di Torino.

Lo slogan più diffuso al momento è: più crescita per rilanciare l'occupazione. A parte il fatto che si dice ma non si fa, pensa che sia vero o ritiene che il problema occupazionale abbia anche dei caratteri strutturali non eliminabili da una ripresa del ciclo economico?

In generale si parla di crescita come un tempo si parlava del flogisto, termine medievale che indicava una sostanza imponderabile circolante ovunque e capace di compiere miracoli. Nove persone su dieci, tra quelle che parlano di crescita, non sanno di cosa parlano. Se non corredato di indicazioni precise, infatti, il termine crescita non significa nulla, o addirittura può essere fuorviante perchè per esempio la crescita può essere anche legata all'aumento dei profitti finanziari. Io penso che sia meglio parlare di qualcos'altro, e, per restare alla domanda posta, credo che una misura realistica di buon funzionamento economico dovrebbe essere il tasso di occupazione e quello di attività.

Il dibattito aperto da Sbilanciamoci.info si è polarizzato tra interventi a favore del lavoro di cittadinanza e interventi per il reddito di cittadinanza: quale ritiene che sia, tra le due, la strada da intraprendere?

Privilegerei la creazione di occupazione diretta. Riportare in cima all'agenda politica la prassi e l'idea di piena occupazione è una questione prioritaria. Il fatto è che la terminologia stessa di “piena occupazione” è stata rimossa dall'ideologia neoliberale. A partire dal dopoguerra, e per i primi vent'anni, il concetto è stato in primo piano, poi è scomparso. Persino nel Trattato Europeo l'espressione “piena occupazione” ricorre una sola volta e non come fine statutario ma come esito auspicabile di mercati efficienti. È paradossale. Detto questo, una prassi di piena occupazione non collide con un progetto di reddito di base, ma va detto che le due cose hanno due pesi differenti perchè avere un lavoro è più importante che avere un reddito e la perdita del lavoro, in termini tanto sociali quanto personali, può infliggere danni maggiori della povertà stessa.

Pensa che la proposta di legge di iniziativa popolare sul reddito minimo garantito, consegnata alla Camera il 15 aprile, abbia buone probabilità di aprire una strada diversa alla tutela del reddito in Italia?

Ne dubito molto, anche perchè il governo in carica è un governo di destra che applica le indicazioni, di destra, che provengono da Bruxelles, e più in generale dalla Trojka. Una proposta di legge di questo tipo difficilmente potrà trovare ascolto e spazio. A mio avviso uno degli aspetti più interessanti della legge è il riordino delle prestazioni assistenziali. La sostituzione della dozzina di prestazioni, oggi previste, con un unica forma di sostegno al reddito potrebbe avere un effetto positivo e sarebbe auspicabile. Naturalmente questa unica forma di sostegno al reddito dovrebbe avere un carattere universale ma variabile in base ai livelli di reddito e alle condizioni familiari, come previsto anche dalla proposta di legge.

Chiedere interventi per un “lavoro di cittadinanza” significa porre come obiettivo di politica economica la creazione di nuovi posti di lavoro da parte dell'amministrazione pubblica per ottenere una “piena e buona occupazione”, cosa ne pensa?

Preferisco parlare, come ha fatto recentemente anche la Commissione Europea, di job guarantee. E se persino la Commissione europea scopre la “piena occupazione” forse è segnale che è arrivato il momento di fare qualcosa.

Chiedere un reddito minimo garantito significa fissare di fatto un salario minimo al quale il soggetto beneficiario è disposto a prestare il suo lavoro. Non costituirebbe un argine ai processi di precarizzazione del mondo del lavoro?

Nutro molti dubbi in proposito perchè i rapporti di lavoro precari non riguardano l'entità della retribuzione ma la possibilità di usare il lavoro esattamente come si usano ricambi e componentistica nei servizi. Il principio che si è affermato prima nella produzione e poi nel mercato del lavoro è quello del “giusto in tempo”. La flessibilità è figlia di questa idea e non penso che pagando qualcosa in più o in meno le cose possano cambiare. È sull'organizzazione complessiva della produzione che bisogna intervenire.

Cosa pensa di proposte che vogliono connettere la redistribuzione del reddito nella forma di una garanzia universale e una redistribuzione del lavoro attraverso l'espansione di forme contrattuali a tempo ridotto?

Penso che siano linee di difesa di secondo e terzo piano, mentre oggi sarebbe meglio concentrarsi su quelle di primo piano. Negli ultimi trent'anni abbiamo assistito a una gigantesca redistribuzione del reddito dal basso verso l'alto: questa è un'enorme questione politica che andrebbe affrontata attraverso gli strumenti legislativi, il potenziamento dei sindacati e del contratto nazionale.

Pensa che politiche di sostegno al reddito come quelle di cui abbiamo parlato siano sostenibili o che richiedano una rimodulazione della politica fiscale nel suo complesso per il loro finanziamento?

Una rimodulazione delle politiche fiscali sarebbe comunque necessaria perchè, come ho detto, le politiche fiscali hanno ridotto le entrate e favorito soprattutto l'aumento delle disuguaglianze. Però è necessario fare due conti: con 15 miliardi di euro si potrebbero creare posti di lavoro, in un anno, per 1 milione di persone, mentre destinando la stessa somma al reddito garantito non si coprirebbe una popolazione altrettanto numerosa e non si avrebbe quell'effetto moltiplicatore sull'economia che il creare occupazione produce.

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