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Europa, il potere senza egemonia

21/05/2015

Unione a pezzi/I piani del Fmi e della Troika ripropongono il trionfo dello “stato d’eccezione” di Agamben: l'esercizio del potere senza il consenso

L’ultima sentenza della Corte che boccia la riforma Fornero ha fatto scattare la propaganda neoliberale al grido del “no ai diritti acquisiti”, un mantra cruciale nel discorso in difesa delle politiche di austerità in fase di crisi, e che traduce in italiano il TINA (There Is No Alternative) con cui la tecnocrazia e i suoi organi di stampa cercano di imporre con la forza le misure per le quali non sono più in grado di costruire consenso.

È il problema dell’egemonia: la crisi - esito inevitabile del regime di accumulazione post 1980 - ha aperto gli occhi a una parte dell’opinione pubblica e ha allontanato la maggioranza dal sistema politico, spingendola verso l’astensione o forme fascistoidi o inconsistenti di opposizione.

Oggi non si può più parlare di diritti del lavoro, di redistribuzione e uguaglianza crescente, di mobilità sociale delle classi più basse, di riduzione della segregazione socio-economica. Tuttavia la macchina della propaganda s’infastidisce perché i lavoratori continuano a formulare queste domande.

Non resta quindi che imporle attraverso sistemi decisionali che confliggono sempre di più con la democrazia: i piani condizionali del Fondo Monetario Internazionale, le Troike, i parametri fissi, la delega a organismi “indipendenti” di decisioni cruciali sulla politica economica e sociale. È il trionfo dello “stato d’eccezione” di Agamben: il potere che rivendica la sua esclusiva nel poter decidere sulla vita quando gli manca il consenso. Che cosa altro sarebbero i suicidi della crisi, i morti per i tagli ai sistemi sanitari, i migranti affogati nel nome della stabilità finanziaria se non l’arroganza del potere? Che cos’è la Grecia della Troika se non il potere senza egemonia?

E non resta che schernire chi difende l’agenda del capitalismo a “trazione salariale”. Il perché questi discorsi siano derubricati a residui di un mondo che non c’è più, risiederebbe nella globalizzazione, l’Europa, internet o una sequenza di luoghi comuni.

La verità è che le condizioni nuove - quelle che impediscono la realizzazione di un modo di produzione pensato per il 99% e non per l’1% - non sono una circostanza esogena, sono il risultato di precisi cambi nell’architettura istituzionale pensati per garantire un equilibrio di potere a favore del capitale e contro il lavoro.

Lo scontro tra potere e contro-condotte, per dirla con Foucault, condusse nei Trenta Gloriosi (i tre decenni post Seconda Guerra Mondiale) a una normalizzazione dove il capitale è costretto ad assumersi costi e soprattutto rischi: la stabilità delle condizioni di accumulazione richiede un impegno crescente sul lato delle politiche del welfare e del controllo delle condizioni di lavoro (come nel caso dello Statuto dei Lavoratori in Italia). Il capitale ottiene a cambio condizioni stabili di realizzazione dei profitti e il consenso del sistema contro l’alternativa sovietica.

Cruciale per quell’equilibrio di lungo periodo fu tanto la cooperazione in fabbrica, la classe operaia che torna in se stessa schiacciata dal fracasso della produzione (come diceva il vecchio Marx) quanto l’esistenza di un’alternativa egemonica. La prima obbligava il capitale a trattare per garantire le condizioni di produzione, la seconda obbligava a cercare consenso, per evitare che l’organizzazione politica dei lavoratori eliminasse alla radice il potere contrattuale del capitale.

La risposta doveva essere articolata sui due fronti, da un lato l’esplosione delle fabbriche, le strutture a rete, la precarizzazione, terziarizzazione e delocalizzazione. Una mossa efficace soprattutto nei paesi del primo mondo ma contraddittorio perché riproduce nel terzo mondo quei fenomeni di organizzazione e solidarietà contro i quali era pensata.

Dall’altra esisteva la strategia politica. Essa era costituita da due tessere fondamentali, innanzitutto l’integrazione finanziaria che serviva per bruciare il terreno sotto i piedi delle rivendicazioni politiche: il deficit pubblico che alimenta la macchina finanziaria attraverso le banche centrali indipendenti (che non finanziano più il Tesoro spingendolo a recuperare soldi sul mercato), la de-regolamentazione che garantisce la realizzazione dei profitti attraverso il meccanismo instabile delle bolle, e la libera circolazione dei capitali che disciplina la capacità impositiva dello Stato. Un quadro che travolge il sistema globale e trasforma gli Stati Uniti nella spugna assorbente dei capitali internazionali e permette di finanziare, keynesianamente, le guerre stellari di Reagan e portare l’URSS al collasso. Secondariamente, la promessa di maggiore crescita quando gli spiriti animali del capitalismo si siano liberati: lo sgocciolamento (trickle down) della ricchezza verso il basso una volta che i ricchi siano diventati ancora più ricchi. Un quadro istituzionale puntellato dalle organizzazioni internazionali, un esercito di burocrati che risponde alle logiche del potere ma che giustifica la sua esistenza negli slogan della pace mondiale, della fine della povertà e di altri obiettivi mai raggiunti.

In Europa l’unificazione europea è stata il collante con cui lo spettro politico ha acconsentito a muovere sul terreno sovranazionale la lotta di classe, dove il lavoro ha difficoltà a lottare unito ma dove il capitale si trova a suo agio.

L’epoca neoliberale non ha garantito crescita economica comparabile ai trent’anni anteriori (nemmeno negli USA), ha peggiorato la distribuzione del reddito e ha drasticamente spostato il rischio dal capitale al lavoro, con nuove generazioni per le quali l’accesso all’istruzione spesso avviene attraverso il debito, le condizioni di lavoro sono precarie, le carriere instabili e il mantenimento di prospettive di pianificazione del futuro richiede costante accesso al mercato finanziario. E che oggi, oltre al danno subiscono la beffa di veder chiamare privilegi la stabilità lavorativa, una pensione decente o un servizio sanitario pubblico.

La riproposizione di un’agenda di emancipazione delle classi lavoratrici non può pertanto che accompagnarsi alla ricostituzione di un margine di azione sul piano politico. Il potere transnazionale è di difficile controllo democratico, spesso parla un’altra lingua, offre accesso privilegiato ai gruppi di pressione. L’altra globalizzazione o l’altra Europa non sono realizzabili: solo spezzando i meccanismi d’integrazione finanziaria si può ribilanciare la contesa a favore del lavoro.

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