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Matteo Renzi, gambler in a rush

25/03/2014

Il governo afferma che il vincolo del 3 percento del deficit su Pil è “anacronistico”, ma dall’altro lato non potrà sfuggire facilmente a tale vincolo

È stata una settimana indubbiamente impegnativa la scorsa per il primo ministro Matteo Renzi.

Dopo lo show del 12 marzo, ha fatto il giro dell’Europa che conta e che decide per comunicare i sui impegni di governo. Prima Parigi, poi Berlino e quindi Bruxelles con tutti i presidenti e capi di governo per il Consiglio Europeo. L’Economist lo ha definito Gambler in a rush (1).

A Parigi si è rivolto al Presidente francese Hollande che era stato eletto per giocare il ruolo di baluardo nei confronti delle politiche di austerità tedesche e per propiziare una svolta per la crescita e l’occupazione. Peccato che nel frattempo si sia convertito alla tesi dell’”offerta che crea la sua propria domanda” e persegua ora la riduzione del cuneo fiscale a favore delle imprese francesi come unico modo per accrescere la loro competitività, mandando in soffitta Keynes, come noi peraltro lo abbiamo espurgato dalla Costituzione italiana nel 2012. I francesi gli hanno detto che il rapporto con gli amici tedeschi sarebbe rimasto la loro priorità, pur apprezzando gli sforzi italiani di uscire dal pantano.

A Berlino sembra che abbiano capito cosa sia la “Renzieconomics”, ovvero riforme strutturali sul mercato del lavoro anzitutto, con un occhio al modello continentale-europeo della flexsicurity, insaporita da alcuni interventi spot sui redditi da lavoro in vista delle prossime elezioni europee. Sembra che Frau Merkel non faccia però sconti. I patti sono patti, ed i vincoli devono essere rispettati, che si chiamino Fiscal Compact, Six Pack e Two Pack. Che implichino le regole del 3% e del 60% e conseguenti procedure poco importa, benché siano stati sottoscritti da un paese che realizza avanzi primari da 10 anni a questa parte ma ha un debito su Pil che veleggia verso il 135%. Quindi ci si aspetta che siano rigorosamente rispettati. Per le flessibilità dei decimali “deficit su Pil” occorre attendere che diano i loro frutti anzitutto le politiche sul mercato del lavoro. Renzi ha capito subito l’aria che tira in terra teutonica, per cui ha dichiarato che certo non aveva neppure pensato di discutere di margini dello 0,2-04% di deficit sul Pil per il 2014.

A Bruxelles, infine, il tema di come far quadrare i conti dei mirabolanti progetti di riforma del Premier Renzi non era certo all’ordine del giorno del summit intergovernativo. È vero che la Commissione è dimissionaria, ma sarà comunque presto sostituita - forse - dalla Presidenza Martin Schultz targata grande coalizione, molto tedesca nell’ispirazione; è anche vero, però, che il Consiglio è costituito dai governi nazionali e questi sono quelli che hanno firmato i Trattati europei e soprattutto i Patti intergovernativi più recenti. Questi sono in essere, fino a che i governi non decidano di cambiarli, che non sembra una iniziativa imminente neppure dopo le elezioni europee. Barroso, Van Rompuy e tutti quanti hanno fatto intendere che il governo italiano deve e può andare avanti lungo la strada delle riforme strutturali, garantire l’equilibrio politico del paese per uscire quanto prima dalla “Procedura di disquilibrio macroeconomico eccessivo” che è stata appena aperta nei suoi confronti.

Il Governo Renzi si trova quindi nella difficile situazione di chi da un lato afferma che il vincolo del 3% deficit su Pil è “anacronistico”, ma dall’altro non potrà sfuggire facilmente a tale vincolo, che peraltro la Commissione non intende (al margine) flessibilizzare verso il basso; ricorda che l’Italia è già troppo vicina al 3% in ragione di stime italiane di crescita non realistiche.

La situazione economica non volge al meglio per il 2014. Le previsioni inserite dalla Legge di Stabilità 2014-2016 (dicembre 2013) fiduciosamente davano un 1,1% di crescita del Pil, a cui corrisponde un deficit/Pil del 2,6%. Le istituzioni internazionali, però, già certificavano uno 0,7% di crescita, che di recente è stato abbassato allo 0,6%, con un 2,8% di deficit/Pil. Vi è poi chi immagina una crescita persino inferiore, 0,5%, con effetti negativi sul deficit/Pil che rischia di avvicinarsi alla soglia del 3%. In questo quadro, margini di flessibilità di 0,4 punti percentuali di Pil (6,4 miliardi) su cui il governo spera di fare affidamento svaniscono, prima ancora che la Commissione dichiari la propria disponibilità.

A ciò si deve aggiungere che a breve lo scenario non sarà quello del vincolo al 3% deficit su Pil, bensì lo 0,5% previsto dal 2016 dal Fiscal Compact (e per la verità dello 0% corretto per il ciclo sin dal 2014 previsto dall’articolo 81 della Costituzione italiana, riscritto da una maggioranza quasi assoluta del Parlamento nell’aprile del 2012). Nel 2016 inizia anche il percorso ad ostacoli del rientro del nostro debito al 60% del Pil entro il 2035, che comporta più di 50 miliardi di riduzione del bilancio pubblico all’anno dato che siamo ora attorno al 135%, e la modesta crescita del Pil non aiuta di certo. Infatti, la Commissione ha già annunciato che si attende avanzi primari (al netto degli interessi) coerenti per conseguire tale obiettivo, nell’ordine di 4.5% del Pil. Alcuni sostengono che tale percorso non sarà praticabile non solo per noi, ma anche per molti altri paesi, tra cui la Francia, oltre che per tutti i paesi periferici, per cui il suo rispetto è sin d’ora dubbio. Vedremo quanto stringente sarà tale vincolo; rimane il fatto che esso è scolpito sulla pietra del Fiscal Compact sottoscritto (gennaio 2012, Consiglio Europeo) da tutti i paesi dell’Unione Europea (25), fatta eccezione per Regno Unito e Repubblica Ceca.

È in questo contesto di regole europee che il Governo italiano deve realizzare i suoi piani di spesa nel 2014 e negli anni a venire. Le misure messe in cantiere sono ingenti per le risorse che richiedono (2).

Pur non registrando il pagamento totale dei debiti (peraltro di ammontare incerto, ma stimato in 68 miliardi) della PA verso le imprese entro il 21 settembre 2014 (San Matteo), per il quale ci si affiderebbe alla Cassa Depositi e Prestiti per la parte corrente, mentre, forse, un 20% è la quota di debito in conto capitale che farà crescere il deficit e il debito, sarebbero necessari oltre 20 miliardi per finanziare gli altri provvedimenti, di cui 10 (7,5 scontando i primi mesi) per garantire circa 80 euro (da maggio) in busta paga per i lavoratori dipendenti, ed oltre 10 tra Irap (2,6), energia (2), integrazione fondo garanzia PMI (0,5), edilizia scolastica (3,5), tutela del territorio (1,5), assistenza disoccupati (3 o 5 dipende dall’estensione della Naspi e dal recupero dalla cassa integrazione in deroga), terzo settore (0,5), giovani ricercatori (0,5). A tal fine si fa grande affidamento sulle risorse provenienti dalla Spending Review. Peccato che quelle risorse, quantificate in circa 30-35 miliardi, la Legge di Stabilità 2014-2016 le impegni già a riduzione del debito, fatto salvo quanto deve rimanere a garanzia di coperture di bilancio non del tutto certe per gli anni 2013 e 2014 e per gli impegni necessari a fronte del perdurare della crisi.

Sulla Spending Review occorre fare una ulteriore precisazione. Mentre il dibattito pubblico e mediatico ha discusso del taglio dalle pensioni, delle municipalizzate, degli esuberi (85.000) della pubblica amministrazione, nessuno ha discusso il vincolo istituzionale che il Commissario Cottarelli suggerisce al Governo e al Parlamento:

a. introduzione di un tetto alla spesa pubblica;

b. rafforzamento dei vincoli di spesa pubblica via Documento di Economia e Finanza (DEF);

c. ogni nuova spesa deve essere compensata da una riduzione di spesa.

Le uniche spese senza vincoli sarebbero quelle per gli interessi sul servizio del debito pubblico, la cassa integrazione e le catastrofi naturali (3). Se usciamo dai luoghi comuni e ancor di più dai confini patri, si osserva una qualche coincidenza tra le proposte di Cottarelli e i vincoli di bilancio degli Stati Uniti. Obama, ogni anno, è costretto a misurarsi con il congresso per trattare il tetto del debito pubblico e le misure a sostegno dell’economia. Cottarelli sembra un conservatore americano, ma con una punta di estremismo tipico del mainstream economico europeo. Non solo il debito deve contrarsi, ma ciò deve intervenire via taglio della spesa, non attraverso una buona modulazione tra entrate fiscali, spese e crescita economica. Quale è l’implicazione di questo impianto? Scompare l’economia pubblica nel senso dato dai padri fondatori della materia (teoria economica del benessere).

In attesa che il Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan si cimenti nella più classica “quadratura del cerchio”, il primo provvedimento della Renzieconomics è divenuto operativo con la pubblicazione del decreto legge n.34, del 20 marzo 20144.

Le nuove norme entrano in vigore il primo giorno di primavera della “nuova era del lavoro per decreto”. Non sarà probabilmente di buon auspicio, soprattutto per i lavoratori giovani e meno giovani. Come ha ben sottolineato Emiliano Brancaccio (5), dalla “austerità espansiva” si è passati alla “precarietà espansiva”, teorizzata dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Giuliano Poletti. Per avviare un nuovo ciclo di assunzioni, occorre: a) eliminare una delle cause all’origine dei contenziosi, quelli relativi al mancato rispetto della “causale” specificata nel contratto a termine; b) indurre le imprese ad assumere giovani con l’apprendistato, eliminando le clausole di stabilizzazione, gli obblighi formativi e riducendo le retribuzioni (6).

Con i cambiamenti intervenuti, il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato cessa di essere il contratto preminente, e deve misurarsi con i contratti a termine di durata triennale (a tempo determinato standard e somministrazione), liberati da qualsiasi motivazione di “carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro”.

Se guar­diamo ai prov­ve­di­menti con atten­zione è dif­fi­cile tro­vare qual­cosa di inno­va­tivo e che possa mini­mamente con­di­zio­nare il per­corso di cre­scita del paese. Non sarà la ridu­zione delle tasse, Irap o Irpef, a rilan­ciare la domanda di lavoro. Come direbbe Key­nes, non potete aspet­tarvi dei piani di rilan­cio degli inve­sti­menti da parte delle imprese se le aspet­ta­tive sono nega­tive. Alla fine gli inve­sti­menti sono diret­ta­mente pro­por­zio­nali alle aspet­ta­tive di cre­scita del sistema eco­no­mico, non all’aspettativa di una ridu­zione delle tasse. Inol­tre, la minore com­pe­ti­ti­vità delle imprese ita­liane non è attri­bui­bile al costo del lavoro, tra i più bassi a livello di paesi Ocse, piut­to­sto alla bassa pro­dut­ti­vità degli inve­sti­menti delle imprese pri­vate. Pochi lo sanno, ma il rap­porto investimenti/Pil dell’Italia è uguale alla media dei paesi euro­pei (19,4%), ma l’output è pari a 1/5. Forse l’Italia deve affrontare dei problemi molto più seri. Se da un lato il primo ministro Renzi all’inizio della sua avventura introduceva nel jobs act alcuni lineamenti di politica industriale, dall’altro le misure adottate hanno il sapore amaro della rinuncia. In qualche modo consolida l’idea che la crisi italiana è una crisi tutta interna all’alta pressione fiscale che avrebbe inibito gli investimenti, la ricerca e sviluppo e la creazione di lavoro. Purtroppo il sistema produttivo nazionale è diventato progressivamente marginale nel consesso europeo. La sua specializzazione produttiva non consentirà di recuperare nessuna nuova quota di commercio internazionale per la semplice ragione che la domanda internazionale si fonda su beni e servizi che l’Italia da tempo non produce più. L’Italia è l’unico paese di area Ocse in cui la spesa in ricerca e sviluppo (GERD) pubblica è più alta di quella privata. Facile la battuta: le imprese non investono in ricerca e sviluppo. Dovremmo cambiare modello interpretativo: la statistica fotografa lo stato dell’arte. Per definizione le imprese realizzano ricerca e sviluppo per conquistare quote di mercato prima di altre imprese, sempre che la specializzazione produttiva lo richieda. Riformuliamo la domanda: se la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese fosse coerente rispetto alla propria specializzazione? In effetti rischia di essere coerente. È il motore della macchina che non è più adeguato. Nessuna svalorizzazione del lavoro potrà risolvere il nodo di struttura. Per alcuni versi si riproduce un modello che tendenzialmente impoverirà sempre di più il Paese.

Leggi qui la versione completa dell'articolo:

PINI_ROMANO.pdf 579,38 kB

 

1 http://www.economist.com/news/europe/21599391-italian-prime-minister-hopes-be-let-some-europes-fiscal-austerity-gambler-rush

2 http://old.sbilanciamoci.info/Ultimi-articoli/Lavoro-diamo-credito-a-Renzi-23063

3 Commissario Straordinario, Proposte per una revisione della spesa pubblica, marzo 2014, pp.68.

4 http://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2014-03-20&atto.codiceRedazionale=14G00046&elenco30giorni=false

5 http://temi.repubblica.it/micromega-online/brancaccio-%E2%80%9Cla-dottrina-della-precarieta-espansiva-e-la-nuova-illusione-europea%E2%80%9D/

6 http://ilmanifesto.it/poletti-il-sacconi-pacioccone/

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