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La scatola nera della non crescita italiana
Le imprese italiane hanno investito in Italia per consolidare la produzione di beni di consumo, ma creato lavoro buono fuori dal Paese nei beni capitali, perdendo l’occasione per modificare la propria specializzazione produttiva
L’Italia è un paese che, con il passare degli anni, ha manifestato segni di debolezza in quasi tutti gli indicatori economici, in particolare la crescita del Pil. Il Paese, anno dopo anno, si allontana sempre di più dall’Unione Europea, cumulando un ritardo che interroga la struttura produttiva e la sua specializzazione. Le cause sono molte, ma quella della struttura e specializzazione produttiva è un nodo trattato male e, spesso, superficialmente. La pubblicistica denuncia l’insufficiente domanda a sostegno del sistema produttivo, con una riduzione secca di lavoro, come principale causa della crisi, ma qualcosa di più profondo si nasconde nella scatola nera della mancata crescita del Paese. F. Daveri (lavoce.info) avanza dei dubbi sulla motivazione: “Molti attribuiscono la bassa crescita del Pil alla carenza di domanda. Non è così. L’Istat dice che nel secondo trimestre i consumi si sono risvegliati con una crescita dello 0,4 per cento. Il guaio è che la maggiore domanda è soddisfatta più dalla produzione estera (le importazioni) che da quella interna”.
Il tema non è nuovo ed è stato trattato accuratamente sia nel libro bianco del lavoro della CGIL (edizione Ediesse) e sia nell’aggiornamento dello stesso disponibile dai primi mesi di settembre. Si tratta di un lavoro prezioso e accurato portato avanti da D. Barbi e R. Sanna, e prima ancora da M. Beschi, che raccoglie i contributi del forum degli economisti della CGIL, coordinato da L. Pennacchi (Un’analisi accademica e precisa è rintracciabile nel contributo di S. Lucarelli, D. Palma, R. Romano, Quando gli investimenti rappresentano un vincolo. Contributo alla discussione sulla crisi italiana nella crisi internazionale, ed. Moneta e Credito).
In realtà, il tema dell’incapacità del sistema produttivo nazionale di soddisfare la domanda di beni e servizi era presente in “Europa e Italia, divergenze economiche, politiche e sociali, ed. Feltrinelli, 2004, di R. Romano e S. Ferrari, con il contributo di D. Palma, Guglielmo Epifani e Luciano Gallino. In questi contributi si sottolinea qualcosa di anomalo e, in qualche misura, inedito. Gli investimenti delle imprese italiane non sono proprio la principale causa della mancata crescita del paese. Indiscutibilmente gli investimenti negli anni della crisi hanno registrato un calo vistoso, come in tutti i paesi europei, le imprese non investono se le prospettive di profitto sono negative, ma il calo degli investimenti non giustifica la minore crescita del Pil italiana rispetto alla media europea. Proprio l’impossibilità delle imprese di soddisfare la domanda interna, cioè consumi e investimenti, ha piegato un indicatore positivo come l’investimento nel suo contrario. Infatti, se una componente attiva e per alcuni versi anticiclica del Pil come gli investimenti non trova una corrispondente produzione, le risorse finanziarie delle stesse imprese, destinate al consolidamento e rafforzamento della produzione, diventano domanda di beni capitali provenienti dall’estero. In altri termini, le imprese italiane hanno investito in Italia per consolidare la produzione di beni di consumo, ma creato lavoro buono fuori dal Paese nei beni capitali, perdendo l’occasione per modificare la propria specializzazione produttiva.
Almeno la metà della divergenza economica e crescita del Pil italiano rispetto alla media europea è attribuibile a questo inedito fenomeno. La crisi ha radici profonde e di struttura (R. Lombardi), e solo cambiando il motore della macchina senza fermarlo sarà possibile agganciare il treno della crescita, sempre che in Europa si possa parlare di crescita economica.
In effetti la crescita dell’Italia è più bassa della media europea dal 1996, proprio nel periodo in cui la finanza pubblica avvicina i così detti vincoli di Maastricht. La distanza che ci separa dai paesi europei nel periodo 1996-2014 raggiunge i 15 punti rispetto alla Germania, così come nel periodo ristretto della crisi (2008-2014), ancorché la crescita in questo caso diventa negativa di 9 punti percentuali.
L’impatto sulla produzione industriale italiana rispetto all’Europa è disarmante. Non solo la produzione industriale tra il 2003 e il 2008 cresce poco più dello zero, con una differenza (negativa) dalla Germania di 18 punti, ma la specializzazione produttiva del paese durante il periodo della crisi (2009-2014) determina un calo della produzione di quasi 21 punti, con una differenza dalla produzione tedesca di quasi 24 punti.
Colpa degli investimenti insufficienti o più bassi dalla media dei Paesi europei? Se osserviamo i tassi di variazione nel primo periodo (2001-2007) è difficile sostenere la tesi. Non solo gli investimenti sono sostanzialmente in linea con quelli europei, ma sono anche molto più alti di quelli realizzati dalla Germania, che nel frattempo ha rafforzato la produzione industriale rispetto all’Italia. Complessivamente gli investimenti europei crescono del 17,2%, quelli dell’Italia del 16,2%, mentre la Germania registra un risultato modesto del 2,2%. Quindi, la minore crescita del Pil italiano legata alla assenza di investimenti non trova una conferma empirica. Potrebbe essere diversa la lettura se consideriamo il periodo della crisi (2008-2014). In effetti gli investimenti fissi lordi dell’Italia registrano un calo vistoso rispetto a tutti i competitor europei. Gli investimenti diminuiscono del 34,2%, mentre la Germania registra una crescita del 5% e l’Europa una contrazione del 17%. In questo caso è possibile “denunciare” i mancati investimenti delle imprese come responsabili del s del Pil, ma qualcosa non torna nel ragionamento. Infatti, se analizziamo l’andamento della produzione industriale dello stesso periodo, la contrazione degli investimenti è coerente. Non sono diminuiti gli investimenti in senso stretto, piuttosto il sistema produttivo ha perso per strada una parte significativa del suo sistema industriale. Infatti, il rapporto investimenti-Pil, pur riducendosi, rimane saldamente al di sopra del 18%, non molto distante dal rapporto tedesco. In altri termini, il calo degli investimenti è legato alla chiusura di impianti che da tempo non erano sul mercato. Il mercato ha selezionato le imprese più competitive, lasciando per strada quelle che restavano sul mercato in ragione di politiche di prezzo incompatibili con la dinamica di struttura europea.
Possiamo tentare di dare una risposta al declino industriale dell’Italia? Per farlo dobbiamo introdurre un tema complesso, ma efficace per chiarire il posizionamento degli investimenti nazionali. Si tratta dell’intensità tecnologica degli investimenti, cioè il rapporto tra spesa BERD (ricerca e sviluppo delle imprese) e investimenti fissi lordi, sempre in rapporto al Pil. La tabella di cui sotto illustra il nodo di struttura che divide l’Italia dagli altri paesi europei. In tutti i paesi è cresciuta l’intensità tecnologica degli investimenti. L’Italia passa da 2,51% del 2005 a 3,90% del 2013, troppo poco per agganciare l’Europa. L’area euro passa da 5,01% a 6,71%, la Germania da 8,81% a 9,66%, la Francia da 5,85% a 6,52%.
Il ritardo del sistema economico è proprio nell’intensità tecnologica degli investimenti. Se non produci beni capitali con certe caratteristiche sei costretto a importarli. In molti denunceranno le ridotte risorse destinate a ricerca e sviluppo delle imprese. Un argomento debole e senza nessun fondamento. Infatti, la ricerca e sviluppo delle imprese è coerente con quello che producono. Chiedere alle imprese che lavorano a valle della specializzazione produttiva di fare ricerca e sviluppo è un azzardo. In realtà, l’Italia dovrebbe produrre cose diverse per rafforzare la spesa in ricerca e sviluppo e trarre, quindi, beneficio dagli investimenti. Il forum degli economisti della CGIL qualche risposta l’ha costruita,; l’aggiornamento di settembre è una buona occasione per avviare una discussione che non è mai partita seriamente.
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