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Def, l’austera ricetta del governo prorogato

12/04/2013

Il governo Monti ha presentato il Documento di Economia e Finanza: le politiche non cambiano, le previsioni sui conti pubblici sono poco credibili, la recessione viene sottovalutata

Il quadro macroeconomico e di finanza pubblica delineato prima nella nota di aggiornamento del Def – il Documento di Economia e Finanza del governo – del 21 marzo 2013, poi nel Def del 10 aprile 2013, con annesso Pnr (Programma nazionale di riforma), costituiscono l’impalcatura di riferimento dell’azione della pubblica amministrazione. Sono documenti fondamentali per la finanza pubblica, e concorrono al cosi detto semestre europeo. In particolare il Pnr delinea le misure-azioni che saranno la base della Legge di Stabilità, probabilmente l’atto legislativo più importante del governo e del parlamento.

Nel leggere i documenti di finanza pubblica è del tutto evidente che i ministri in carica non si percepiscono come transitori. Infatti, nel Pnr sono delineate le misure che hanno “qualificato” l’azione del governo Monti, senza che vi sia stata una qualche modifica degli orizzonti politici ed economici. In alcuni passaggi si manifesta persino un certo orgoglio, soprattutto quando si dà per scontato l’ambito delle misure entro cui il prossimo governo dovrebbe intervenire. Sono soprattutto le riforme (controriforme) sulle liberalizzazioni, il decreto sullo sviluppo 1 e 2, per non parlare della riforma del mercato del lavoro e della previdenza, le iniziative rivendicate con maggior orgoglio. Nell’esercizio controfattuale sull’impatto macroeconomico delle riforme (pag. 8, Def) si stima una maggiore crescita dell’1,6% nel 2015, del 3,9% nel 2020, mentre nel lungo periodo, quando saremo tutti morti (Keynes), l’effetto macroeconomico sarebbe del 6,9. Ovviamente sono soprattutto le privatizzazioni-liberalizzazioni a fornire il maggior contributo nel lungo periodo, di 4,8 punti percentuali. La riforma del mercato del lavoro invece ha un impatto significativamente più contenuto: nel lungo periodo è di 1,4, mentre per il 2015 è dello 0,4%. Forse tutta la fretta della ministra Fornero non era così indispensabile.

 

Nel Pnr sono indicate altre iniziative che dovrebbero qualificare l’azione della PA. Tra le principali e prioritarie possiamo indicare:

· Il pareggio di bilancio con efficacia a partire dal 2014, con l’istituzione di un organismo indipendente di controllo e verifica;

· Dismissione del patrimonio pubblico;

· Spending review. Su questo punto il Pnr sottolinea come il successo del contenimento della spesa pubblica sia principalmente imputabile alla riduzione in termini reali delle retribuzioni dei dipendenti pubblici e al blocco del turnover, alla riduzione della spesa pubblica e di quella per investimenti;

· Patto di Stabilità interno e rientro dalle posizioni debitorie;

· Razionalizzazione della spesa sanitaria;

· Valutazione del sistema scolastico e universitario;

· Riforma del mercato del lavoro e ammortizzatori sociali [1];

· Accordo sulla produttività e linee d’azione con le parti sociali;

· Riforma previdenziale;

· Social card (città sperimentali), modifica dell’Isee e sviluppo delle imprese sociali;

· Implementazione dei fondi strutturali europei (con un qualche successo e con effetti soprattutto per il Mezzogiorno), e programmazione dei fondi 2014-20;

· Riforma fiscale e lotta all’evasione (è stato costruito un data base che potrebbe concorrere efficacemente al contenimento dell’elusione e della evasione fiscale);

· Concorrenza con una qualche tutela dei settori strategici via golden share;

· Energia e ambiente [2];

· Sostegno all’imprenditorialità [3] e riforma degli incentivi;

· Semplificazione e riduzione della burocrazia.

Il quadro generale è quello di una politica economica tesa a creare le migliori condizioni possibili dal lato dell’offerta, anche se l’anticipazione dei debiti delle PA verso le imprese (40 miliardi in due anni), in qualche modo contraddice le policy fino ad oggi implementate.

Macroeconomia e finanza pubblica

Secondo il Def, il graduale miglioramento della situazione dei mercati finanziari non si è ancora pienamente trasmesso all’economia reale. In realtà, le misure adottate nel 2011 e nel 2012 non solo hanno travalicato le iniziali previsioni dal lato del contenimento della spesa pubblica, ma hanno concorso all’effetto demoltiplicatore del Pil, con una caduta del Pil cumulato (2012-2013) del 3,7%, unitamente ad una caduta degli investimenti, in particolare di quelli in macchinari, del 10,6%. L’effetto a valle, cioè i consumi delle famiglie, è stato quello di una caduta verticale della spesa delle famiglie del 7% nel periodo 2012-13. Inoltre, la decrescita del Pil per il 2013 avrebbe potuto essere superiore se non si fosse provveduto, via decreto legge, alla retrocessione di parte del credito delle imprese verso le PA. Diversamente, la minore crescita del Pil per il 2013 non sarebbe stata pari al meno 1,3%, piuttosto al meno 1,8%.

L’impatto del decreto legge per lo sblocco dei pagamenti della PA verso le imprese, salvo modifiche in corso di conversione, sono comunque soggetti a vincoli stringenti e solo una parte di essi potranno essere retrocessi in tempi certi e veloci. Infatti, sono previsti per le PA interessate dal supporto statale dei piani di rientro credibili e tali da garantire il rimborso del prestito in un arco di tempo prestabilito, con l’effetto di una riprogrammazione della spesa nel tempo. L’effetto macroeconomico è quello di una maggiore crescita del Pil per il 2013 pari a 0,5% (8 mld di euro), facendo diminuire la contrazione del Pil, come già ricordato, dal meno 1,8% al meno 1,3%. L’ipotesi del governo si fonda su tre effetti macroeconomici:

1) una parte dei 20 miliardi confluirà direttamente al sistema creditizio, determinando una maggiore disponibilità al credito e una conseguente riduzione dei tassi di interesse praticati alla clientela;

2) una parte dei 20 miliardi sarà destinata a nuovi investimenti o per migliorare-chiudere eventuali pagamenti pregressi al personale;

3) un'altra parte dei 20 miliardi di euro dovrebbero arrestare il fenomeno di chiusura delle imprese, particolarmente accentuato nel 2012.

Una ipotesi alquanto positiva, visto il trend degli investimenti e dei consumi. Inoltre, la capacità di produrre consumo aggiuntivo è discutibile: stiamo parlando di risorse già contabilizzate nei bilanci delle imprese. Al limite possono risolvere delle sofferenze pregresse, ma ri-avviare nuovi investimenti è tutta un'altra cosa. Di diverso segno sarebbe una spesa aggiuntiva, magari in conto capitale. Queste sarebbero risorse finanziarie nuove, capaci di alimentare nuovo reddito. Attenzione a non confondere giustizia fiscale con gli effetti economici.

Inoltre, la riduzione degli investimenti fissi italiani sono in parte legati all’effetto del ciclo economico, ma in parte è alla maggiore spesa per investimenti delle imprese italiane realizzato in questi ultimi anni, senza una corrispondente crescita economica. Quindi la caduta degli investimenti è in parte condizionata dall’allineamento degli stessi alla media europeo; in parte alla ristrutturazione del tessuto produttivo che sarà ridimensionato dalla crisi, con una riduzione della capacità produttiva tra il 20 e il 25%.

In altre parole, le imprese italiane sono fuori dal circuito europeo in ragione della propria specializzazione produttiva e della loro dimensione: la recessione economica salverà solo le imprese appena decenti. Schumpeter aiuta la comprensione di questo particolare fenomeno.

Quindi, nonostante la retrocessione di una parte del debito della pubblica amministrazione verso le imprese, la crescita del Pil sarà pari a meno 1,3% nel 2013, anche se le nostre valutazioni, in ragione dell’andamento dei consumi, degli investimenti, in particolare quelli legati ai beni capitali, stimano una caduta del Pil per il 2013 dello stesso livello di quello intervenuto nel 2012 (-2,4%), mentre per il 2014 è difficile credere ad una crescita del Pil dell’1,3%. Alcuni istituti internazionali hanno la stessa ipotesi.

vedi pdf:

confronto.pdf 50,10 kB

L’effetto delle misure adottate

Il quadro delle misure del Def non contempla altre iniziative di rilievo rispetto alla retrocessione dei debiti della PA. Le misure di contenimento della spesa pubblica sembrano essere andate oltre le previsioni iniziali, e forse in questo modo si giustifica l’allentamento della spesa per il pagamento dei debiti pregressi.

L’indebitamento netto passa dal 3,9% del 2011, al 2,9% del 2013, in ragione della spesa destinata al pagamento dei debiti della PA. Infatti, l’indebitamento del 2013 era previsto al 2,4%. Per il 2014 si prevede un indebitamento netto dell’1,8%, sempre che le risorse ottenute dal fisco con l’Imu sperimentale non siano modificate. La puntualizzazione è rilevante per la contabilità pubblica. Se fosse modifica la base imponibile dell’Imu, le minori entrate dovrebbero essere compensate da una manovra correttiva aggiuntiva, così come per l’aumento dell’Iva di un punto, già contabilizzato tra le entrate fiscali. Modificare una di queste imposte, significa ampliare o meno la manovra correttiva dello 0,7% del Pil nel 2015, così come per il 2014. Diversamente dall’indebitamento netto, il rapporto debito/Pil continua a crescere, nonostante la spesa per interessi sia sostanzialmente stabile in rapporto al Pil (5,6% per il 2013 e 5,8% per il 2014). Le stime sono pari al 130,4% del Pil per il 2013, al 129% per il 2014 e al 125% per il 2015. Un effetto del tutto ovvio: se il denominatore diminuisce con la velocità di questi ultimi anni, il rapporto è destinate a crescere, indipendentemente dalla misure di contenimento della spesa pubblica adottate. Non si deve dimenticare che dal 2008 al 2013 il Pil dell’Italia si è contratto di quasi 10 punti percentuali.

Uno dei comparti della spesa pubblica che più di altri ha sofferto dei tagli della spesa pubblica è, indiscutibilmente, quello del lavoro pubblico, dovuto al mancato rinnovo contrattuale e al blocco del turn over. Complessivamente la spesa per lavoro dipendente della PA ha subito una contrazione del 5,4% tra il 2011 e il 2014, che in termini di Pil significa passare dal 10,7% del Pil del 2011 al 10% del Pil del 2014.

Relativamente alle spese, la costanza del rapporto tra la spesa sociale e previdenziale con il Pil, nasconde una verità pericolosa. Infatti, la costanza di rapporto della presente spesa rispetto al Pil, quando il Pil diminuisce di quasi 4 punti percentuali, significa una contrazione equivalente delle prestazioni. Il problema della spesa sociale rimane uno dei nodi della crisi, che deve essere valutato in termini di livello adeguato e di efficacia, senza dimenticare che la prima vera riforma dello stato sociale da implementare è quella della creazione di nuovo lavoro via politica industriale. Adottare nuove politiche sul mercato del lavoro, cassa in deroga o altro ancora, non può sostenere la domanda effettiva.

La previsione di Monti e Grilli sull’andamento delle entrate è difficile da condividere. Le maggiori entrate sono interamente imputabili alla crescita delle imposte indirette, ma dato l’andamento dei consumi e degli investimenti è difficile credere che possa andare così, soprattutto se consideriamo l’andamento dell’Iva nel 2012.

vedi pdf:

 

Riprendere le politiche economiche

Il comunicato di presentazione del Def e del Pnr del governo argomenta che le politiche adottate sono quelle giuste per uscire dalla crisi. Non c’è alcun dubbio sull’efficacia dei provvedimenti adottati, occorre solo del tempo. Un atteggiamento che ricorda il “tormentato periodo che va dal 1929 al 1936… dove… gli economisti accademici... non avevano saputo offrire pressoché nessun suggerimento politicamente accettabile circa un piano d’azione governativo, in quanto essi erano fermamente convinti della capacità d’autoregolamentazione del meccanismo di mercato... l’economia prima o poi si sarebbe ripresa da sola, a patto che la situazione non venisse aggravata ulteriormente dall’adozione di un’errata politica economica, inclusa la manovra fiscale” (Minsky).

Non solo è stato perso quel vasto patrimonio di conoscenze che ha concorso ad evitare finora il ripetersi di una crisi come quella del ’29, ma persino il buon senso circa le forme e i modi per realizzare politiche capaci di incidere sulle spese improduttive e sui vantaggi che si potrebbero ottenere con misure di buon senso. Anche con i vincoli del patto di stabilità europeo, che certamente non aiuta la domanda effettiva (lo dice l’Fmi), sarebbero possibili molte soluzioni alternative per rimodulare la spesa pubblica e contrastare (in parte) la caduta del Pil.

Il nuovo governo, fosse anche per le pratiche correnti, deve registrare il Def e il Pnr. La proposta attuale è del tutto inadeguata al contesto della crisi. È forse coerente con l’azione precedente del governo, ma non con l’esito delle elezioni.

 

[1] Una curiosità: il numero di pagine dedicata alla riforma del mercato del lavoro nel Def è di gran lunga la maggiore rispetto ad altre riforme, ancor più delle cosiddette liberalizzazioni e privatizzazioni.

[2] Come è ben noto, gli incentivi per la produzione di energia rinnovabili hanno dato un esito industriale negativo (bilancia commerciale negativa, nonostante l’Italia sia tra i maggiori produttori europei di energia prodotta da fonti rinnovabili.

[3] Questa misura è microeconomicamente inutile. Infatti, in Italia non scarseggia l’autoimprenditorialità, piuttosto una certa dimensione di scala delle imprese e una specializzazione produttiva in linea con quella dei principali paesi di riferimento.

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