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Lavoro e reddito: una coppia in crisi
Il reddito di cittadinanza può diventare uno strumento di riconoscimento di tutte quelle attività sociali e cooperative che generano valori d'uso senza riceverne remunerazione
Nelle storie parallele della sinistra e dello sviluppo capitalistico, lavoro e reddito hanno sempre costituito due facce della stessa medaglia e camminato nella stessa direzione: più lavoro e più reddito nelle fasi di crescita, meno lavoro e minori redditi in quelle di crisi.
Per affrontare queste situazioni di crisi, sinistra e sindacati quando ancora erano forti, hanno conquistato strumenti – i cosiddetti ammortizzatori sociali – per difendere il reddito anche in presenza di un lavoro che diminuiva. In questo modo la relazione diretta tra lavoro e reddito veniva rimessa in discussione a favore del reddito e questo è stato possibile per la convinzione comune che la difesa dei redditi poteva evitare la caduta della domanda e favorire, quindi, la ripresa del lavoro.
Negli ultimi anni quella relazione è stata indebolita dal fronte opposto: la globalizzazione e la competitività sono state utilizzate dal capitale per generare una crescita tumultuosa del precariato. Ciò ha prodotto in una prima fase anche una crescita degli occupati. Non ha prodotto, però, un aumento, ma al contrario una diminuzione dei redditi da lavoro. È così calata la domanda contribuendo ad aggravare la crisi in atto.
Ma la crisi ha cause più profonde ed ha generato una tendenza che sembra inarrestabile alla diminuzione sia del lavoro che dei redditi. La relazione diretta tra lavoro e redditi si è cosi ricostituita al ribasso: riducendo il lavoro stabile e sviluppando quello precario, oggi abbiamo meno lavoro e redditi da lavoro ridotti più che proporzionalmente.
Gli effetti sulla domanda aggregata e sull’economia sono noti a tutti ed oggi, tra disoccupati che corrispondono alle definizioni statistiche e scoraggiati con diverse sfaccettature, ci sono cinque milioni di persone cui viene negato insieme sia il diritto al lavoro che quello al reddito.
In questo contesto, ed a quanto sembra soprattutto nella sinistra italiana, si sta sviluppando un dibattito sulle possibili vie d’uscita che introduce ulteriori elementi di separazione, in qualche caso di vero e proprio divorzio, tra lavoro e redditi: le proposte di reddito di cittadinanza e di reddito inserimento, di reddito minimo e di reddito sociale nascono da questa linea di ricerca e tendono a garantire forme di reddito “sganciate” dalla prestazione lavorativa (Gnesutta, Garantire il reddito o il lavoro? Una ricomposizione possibile; Lucaroni, Reddito minimo per un Commonfare).
I sostenitori di queste proposte sono mossi dalla convinzione che i livelli di disoccupazione raggiunti non saranno facilmente assorbiti e che si debbano adottare misure straordinarie.
Altri mossi dalla stessa preoccupazione propongono di agire sull’altro termine del binomio – il lavoro – attraverso una sua ridistribuzione.
Altri ancora a sinistra vedono, però, in queste proposte il pericolo di una accettazione rassegnata della realtà e di una rinuncia al diritto al lavoro ed alla necessità di attivare, con l’intervento pubblico, un nuovo ciclo di investimenti e di generazione di piena e buona occupazione (Pennacchi, Lavoro, e non reddito, di cittadinanza) oppure il rischio di far aumentare il numero dei non occupati e di una loro emarginazione (Lunghini, Reddito sì, ma da lavoro).
Siamo di fronte, così, ad un dibattito intenso su lavoro e reddito e sul futuro del lavoro che non è nuovo a sinistra.
Senza andare molto indietro a Marx o Keynes, esso ha alle spalle elaborazioni affascinanti come quelle degli anni ottanta e di Andrè Gorz, concrete sperimentazioni generali come quella francese sulle 35 ore, applicazioni emergenziali come quella fatta in Germania per affrontare situazioni di crisi di qualche azienda automobilistica.
Qual è il bilancio di quelle esperienze?
Se si esclude quella tedesca che ricalca il modello dei contratti di solidarietà tra lavoratori di una azienda per difendere il posto di tutti, l’esperienza delle “35 ore in un solo paese” è stata di fatto vanificata dalle leggi ferree della competizione globale che hanno spinto in direzione contraria verso l’aumento delle ore lavorate, mentre le teorie di Gorz sulla distribuzione del lavoro tra persone e nell’arco della vita sono rimaste nel libro dei sogni della sinistra.
Perché è accaduto tutto questo ed oggi ci ritroviamo di fronte ad una crisi che sta trascinando verso il baratro lavoro e redditi insieme? Erano quelle teorie e pratiche infondate o animate da un dose elevata di utopia? Sono state promosse in tempi non ancora maturi?
Ed oggi che la disoccupazione ha raggiunto dimensioni senza precedenti e che tocca tutti i paesi sviluppati, oggi che la crisi si prolunga oltre ogni previsione mentre niente lascia prevedere che ci possa essere una ripresa con tassi di crescita tali da consentire il riassorbimento della disoccupazione generata, sono forse maturi i tempi per un rivoluzionamento della relazione lavoro-redditi?
Il dibattito che si è aperto è certamente interessante e ricco di spunti e cercare di rispondere a queste domande è indispensabile per dotare la sinistra di una nuova progettualità e farla uscire dalle difficoltà che oggi la paralizzano.
Penso, però, che le risposte a quelle domande debbano essere meglio articolate ed inquadrate in un progetto organico e soprattutto che esse debbano riuscire a soddisfare due esigenze estreme: quella di misure immediate per alleviare i drammi del lavoro perduto e la disperazione di chi lo cerca invano; quella di soluzioni convincenti e di lungo periodo adeguate al carattere strutturale della crisi.
Tra questi due estremi si dovrebbe delineare un percorso di lavoro in grado di coinvolgere non solo la schiera degli economisti, ma le forze politiche, i sindacati e, soprattutto lavoratori e disoccupati.
Provo, solo per stimolare la discussione, ad indicare quelle che a me sembrano le tappe principali di questo percorso.
1) Una ripresa economica è senza dubbio una condizione importante per bloccare la caduta di occupazione e redditi. Ma la ripresa non basta evocarla e non credo che arriverà limitandosi, come si sta facendo oggi, a prendere provvedimenti volti a ridurre il costo del lavoro o ad accrescere ulteriormente la flessibilità del lavoro.
Questo vale per tutti i paesi in crisi, ma ancor più per l’Italia che ha smantellato già prima della crisi il suo apparato industriale, che paga oggi l’abbandono di una politica industriale e per la ricerca e l’innovazione.
Una ripresa, quindi, non potrà che avvenire nei settori produttivi del futuro, nel recupero – urbano ed ambientale – e nei servizi alla persona. Non si tratta, quindi, di invocare una ripresa qualunque né tantomeno che ricalchi il modello di sviluppo pre-crisi, ma di ridefinire gli obiettivi che la società deve perseguire nei prossimi anni nei campi della salute, dell’istruzione, della qualità sociale ed ambientale ed in funzione di essi individuare i settori produttivi di beni e servizi da implementare con politiche di sostegno, di incentivazione, di formazione professionale. Un campo da esplorare in questo senso è questo: se si assumono come obiettivi di policy gli indicatori di Benessere Equo e Sostenibile proposti da Istat e Cnel se ne può far discendere una individuazione analitica di quali saranno i beni e servizi da implementare, quindi, i settori del futuro. Un processo del genere è certamente complesso ed ambizioso, ma forse è più realistico dell’invocazione generica di una ripresa che non arriva mai.
2) Proprio per questa complessità è chiaro che questo processo non potrà dare risultati significativi a breve-medio termine. Quindi misure straordinarie che attenuino gli effetti più pesanti della disoccupazione si impongono. Si potrà discutere se è meglio agire sui redditi o sul lavoro e come, ma non c’è dubbio che interventi di emergenza si impongono ed essi non dovrebbero essere visti come rinuncia allo sviluppo. Così come anche provvedimenti minimi volti ad incentivare assunzioni di giovani debbono essere guardati per quello che sono: tentativi minimi ad effetto immediato, utili, ma che non scalfiscono i problemi di fondo.
3) L'istituzione di un reddito di cittadinanza, della quale molti hanno parlato e che trova applicazione in altri paesi, può rispondere a queste esigenze fungendo, intanto, da ammortizzatore sociale di emergenza.
4) Ma un reddito di cittadinanza può essere anche molto di più di una semplice misura di emergenza. Esso potrebbe saldare presente e futuro introducendo un principio di valore strategico: la ricchezza prodotta va distribuita non solo a coloro che contribuiscono a produrla col lavoro prestato nella sfera del mercato creando valori di scambio, ma anche a coloro che prestano attività sociali, cooperative e di cura che generano valori d'uso senza riceverne, però, una remunerazione.
5) In questo modo il reddito di cittadinanza potrebbe diventare uno strumento di "emersione e riconoscimento" di quelle attività e di loro "valorizzazione"; un cavallo di Troia per infrangere il muro che divide valore d’uso e valore di scambio, economia di mercato ed economia sociale.
6) Se è vero come è vero che tantissime attività (lavoro domestico e di cura in primo luogo) producono pil se svolte come lavoro retribuito e valgono zero se svolte gratuitamente nell'ambito familiare e del volontariato sociale, una loro "valorizzazione" tramite un reddito di cittadinanza avrebbe un altro valore strategico: far cadere quel muro che separa artificiosamente lavoro e non lavoro, occupazione e disoccupazione.
7) La distinzione tra occupati e non, infatti, è sempre più lontana dal rappresentare la realtà: all'interno del mondo del lavoro esistono ormai tante posizioni in termini di sicurezza e durata del lavoro che si può parlare di veri e propri mondi differenziati e qualche volta addirittura confliggenti; non molto diversa è la situazione nella sfera dei non occupati dove convivono aree di disperata emarginazione accanto ad aree di creatività e di impegno sociale che, in alcuni casi sono veri e propri avamposti di una nuova relazione tra lavoro e vita (Bascetta) .
8) Insomma oggi tra occupati e non si snoda un mondo estremamente variegato in un continuum con mille sfumature. Un mondo certamente non più racchiudibile nello schema classico occupati-disoccupati, ancora molto ancora da indagare sul quale servirebbe una indagine che ricostruisca una nuova “mappa sociale e del lavoro”
9) In questo nuovo contesto la ridistribuzione del lavoro è il secondo sentiero da percorrere. Essa può offrire risposte all'emergenza nelle situazioni di crisi con contratti aziendali di solidarietà.
10) Ma la ridistribuzione del lavoro può essere anche una risposta strategica alla diminuzione strutturale del lavoro necessario: ridistribuire il lavoro significa mettere in discussione anche i ruoli sociali, la separazione tra lavoro produttivo e lavori domestici e di cura, la relazione tra tempi di vita e di lavoro. Quindi ridistribuzione come rivoluzione e nuova scansione dei tempi di vita delle persone.
11) Si potrebbe, in sostanza, pensare ad un contratto nazionale ed europeo di solidarietà per la liberazione del lavoro e dal lavoro, ma proprio per questo è indispensabile che il dibattito coinvolga sinistra politica e sindacato.
12) E qui nasce una ultima domanda: un percorso così ambizioso e complesso può essere tracciato solo da economisti ed esperti senza una partecipazione attiva dei soggetti interessati, delle mille sfumature di occupati e non e senza una sinistra politica e sindacale che elabori, ed a livello europeo, un progetto di futuro di fronte ad una crisi epocale come quella in cui siamo immersi?
Certamente nel dibattito in corso e nelle cose dette c’è una forte dose di utopia che a prima vista può sembrare fuga dalla realtà.
Ma non penso sia così.
Oggi è evidente che le ricette proposte dagli economisti mainstream e dagli organismi di governo dell’economia sono assolutamente inadeguate ad affrontare questa crisi. Lo sono perché esse non arrivano a mettere in discussione le radici del modello sociale ed economico attuale.
Proporre un itinerario come quello appena accennato può sembrare poco realistico, ma in realtà, con un giusto equilibrio tra interventi sull’emergenza ed interventi strutturali questo può essere l’unico modo per affrontare la crisi e per uscirne.
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