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Tutto quel che (non) ci ha insegnato la crisi

16/01/2014

Il ritorno delle cartolarizzazioni e l'ammorbidimento del Liikanen Report sulla separazione per le banche tra attività commerciali e speculative

La crisi scoppiata ufficialmente nel 2007-2008 ci ha insegnato molte cose.

Tra l’altro, essa ci ha svelato chiaramente la reale struttura del potere esistente nelle società occidentali, che è apparso molto concentrato in una ristretta oligarchia politico-industrial-finanziaria; ci ha mostrato anche, altrettanto chiaramente, le crescenti differenziazioni di reddito e di ricchezza che tale struttura genera nei vari paesi. Essa ci ha anche indicato i meccanismi finanziari attraverso i quali cresce e si riproduce in maniera allargata nel tempo.

Si poteva pensare, e molti lo hanno fatto, che la stessa crisi avrebbe spinto le classi dirigenti dei paesi ricchi ad apportare dei mutamenti rilevanti nei meccanismi di funzionamento della macchina finanziaria, che non apparivano chiaramente più adeguati ad una marcia ordinata delle cose; ma tali mutamenti, che pure non sono mancati, sono indubbiamente risultati, almeno sino ad oggi, pochi, tardivi e modesti. Sino a questo momento viene così smentita la indubbia capacità del sistema capitalistico, sempre manifestatasi in passato, di rispondere alle crisi e alle difficoltà con rinnovata energia e mettendo comunque in campo tutte le innovazioni necessarie ad innescare nuovi cicli di accumulazione.

E è forse anche per tale stato delle cose che, negli ultimi tempi, si è sviluppato un dibattito tra gli economisti occidentali, avviato da Larry Summers e sul quale abbiamo a suo tempo fornito qualche informazione su questo stesso sito, sul cosa fare davanti alla stagnazione di lungo periodo che sembra caratterizzare ormai le economie occidentali, al di là di qualche oscillazione congiunturale più o meno favorevole che si manifesta qua e la.

Una serie di notizie molto recenti sul fronte finanziario che vengono dai due lati dell’Atlantico confermano le preoccupazioni; esse vanno dal ritorno in forze dei processi di cartolarizzazione, all’approvazione delle nuove deboli disposizioni in materia di separazione delle attività di banca ordinaria da quelle di banca di investimento, agli altrettanto deboli orientamenti sulla struttura finanziaria delle banche che stanno avanzando in sede di Basilea III, alle stesse astronomiche cifre pagate dalle grandi banche internazionali a fronte della recente ondata di scandali, notizia solo apparentemente positiva.

Il ritorno delle cartolarizzazioni

Per quanto riguarda la prima questione, molti ricorderanno che, all’origine della crisi del sub-prime, stava, tra l’altro, questo meccanismo di prestiti immobiliari fatti irresponsabilmente a chi non avrebbe potuto restituirli e poi però ceduti dalle banche, attraverso le tecniche della cartolarizzazione (incorporazione di tali diritti in titoli negoziabili sul mercato), ad altri investitori. Questo processo provocava, tra l’altro, una totale irresponsabilità in chi concedeva il prestito, perché, sapendo che esso avrebbe potuto essere ceduto facilmente del mercato, la banca che emetteva il titolo non si preoccupava molto della qualità dello stesso. È così che sono proliferati i vari Cdo, Clo, Abs, Mbs e prodotti collegati, di cui tanto male e tanto a lungo si è parlato.

Ora, come ci informa la stampa economica (si veda, ad esempio, The Economist, 2014), i vari strumenti sopra citati stanno tornando in forze sul mercato e tutti, o quasi, ne gioiscono. La stessa Bce e i regolatori bancari di tutto il mondo, come ci informa lo stesso settimanale, appaiono molto contenti.

Alcuni ritocchi migliorativi portati nel frattempo dagli stessi regolatori alle normative in proposito e una maggiore auspicabile attenzione degli investitori, che dovrebbero ricordare le negative esperienze passate ed essere più cauti nelle loro operazioni, non avrebbero però dovuto, a nostro parere, essere sufficienti a provocare tali entusiasmi. Né avrebbero dovuto esserlo le speranze che, con l’aumento delle operazioni di cartolarizzazione, si dia anche una mano alla ripresa dei flussi di credito delle banche verso gli operatori economici.

Va peraltro sottolineato che, nonostante la ripresa dell’attività nel settore, siamo ancora oggi lontani dal raggiungere i livelli di scambio degli anni d’oro, dal 2005 al 2007.

Come è andata a finire con il rapporto Liikanen

Su un altro fronte, in un recente articolo pubblicato su questo stesso sito, in data 7 gennaio 2014, avevamo analizzato il varo definitivo della cosiddetta Volckler rule negli Stati Uniti e avevamo sottolineato i molti problemi che la formulazione della nuova normativa comportava. Ma qualche tempo fa (Barker, 2014) sono stati anticipati sui media i contorni del progetto equivalente messo a punto dall’Unione Europea e siamo quasi sconcertati per la pochezza dello stesso, ancora più riduttivo delle norme statunitensi.

Tutto era cominciato da noi qualche tempo fa, nel 2012, con la presentazione del Liikanen Report, dal nome del governatore della banca centrale finlandese che era stato nominato presidente della commissione che doveva studiare la questione. Il rapporto finale si sforzava, sia pure con qualche limitazione, di suggerire il perseguimento del principio della netta separazione tra attività di banca commerciale e attività di speculazione in proprio con i soldi dei correntisti.

Ma alle conclusioni del rapporto si sono a suo tempo opposte non solo molte banche, ciò che era del resto prevedibile, ma anche la Germania e la Francia. Va sottolineato come, in generale, sin dall’inizio la presidenza Hollande si sia caratterizzata come molto sensibile ai desideri del mondo della finanza.

Così le lobbies finanziarie hanno avuto un gioco facile nel riuscire a far modificare in peggio il primitivo rapporto Liikanen.

In sintesi, con la riforma le banche europee non saranno automaticamente obbligate a separare le operazioni di prestito da quelle di trading. Tra l’altro viene concessa ampia discrezione alle autorità di controllo nazionali nell’applicazione delle normative.

In ogni caso viene fornita nel progetto una definizione molto restrittiva sul tipo di operazioni di proprietary trading che verrebbero proibite.

Come ha correttamente commentato un parlamentare verde tedesco, le nuove regole rischiano di non avere nessun effetto sul settore bancario, se non quello di aggiungere ulteriore burocrazia alla gestione delle operazioni.

E lasciamo da parte le nuove, inaccettabili regole sugli hedge fund e sui fondi di private equity su cui ha scritto in data 7 gennaio 2014 Andrea Baranes su questo stesso sito.

Le nuove regole di Basilea

È noto come da tempo il comitato di Basilea stia approntando le nuove normative in tema di struttura finanziaria delle banche, in particolare per quanto riguarda i capital ratio ( rapporto tra i mezzi propri e il totale delle attività ponderate per il rischio), i leverage ratio (rapporto tra mezzi propri e totale attività), i liquidity ratio (che misurano la capacità di un istituto di far fronte ai suoi impegni finanziari di breve termine). È noto peraltro che i nuovi orientamenti entreranno in vigore solo fra parecchi anni.

È pronto ora un rapporto sulle modalità di calcolo dei leverage ratio. Intanto non sappiamo ancora a quale livello preciso sarà fissato lo stesso indice, ma si presume che esso verrà determinato nella misura del 3,0 per cento delle attività, misura sicuramente troppo bassa. Un tale rapporto significherebbe infatti che le banche potrebbero finanziarsi con 3 euro di capitale ogni 97 euro di debiti. Gli americani, che stanno come al solito lavorando al problema per conto loro, dovrebbero in realtà fissarlo ad un livello abbastanza più elevato, mentre da varie parti si chiede che esso lo sia ad un valore di almeno il 10%.

Ma sono pronte le misure per definire i criteri di calcolo dell’indice ed esse, come veniamo informati (Fleming, Chon, 2014), appaiono deludenti. Le lobbies bancarie hanno fatto ancora una volta un buon lavoro. In effetti, vengono molto allentati i criteri per calcolare il peso dei derivati e di altre operazioni finanziarie sul totale delle attività; da notare che tali voci costituiscono una parte quantitativamente molto importante dei bilanci bancari.

Gli accordi tra autorità statunitensi e grandi banche

L’ultima notizia fa riferimento agli accordi in via di definizione tra le autorità statunitensi ed una serie di grandi banche per far sì che queste ultime rispondano finanziariamente delle pratiche scorrette a suo tempo portate avanti sul fronte delle operazioni sub-prime. Già la JPMorgan ha accettato di pagare oltre 13 miliardi di dollari per chiudere l’affare. Ora altri grandi istituti, secondo notizie di stampa, si apprestano a dare il loro contributo ed alla fine le penalità complessive che le banche presenti nel paese dovrebbero pagare potrebbero arrivare alla somma astronomica di 50 miliardi di dollari.

Tutto bene allora? Certamente no. Ci sono almeno due osservazioni da fare. La prima è quella che le somme citate verranno facilmente assorbite nei bilanci delle grandi banche, che negli ultimi anni hanno ripreso a fare grandi profitti e comunque esse saranno al massimo a carico degli azionisti degli istituti e non dei responsabili in prima persona dei fatti. La seconda è quella che i grandi manager degli stessi, che hanno a suo tempo sviluppato le operazioni incriminate, restano per la gran parte al loro posto, vedono i loro bonus crescere nel tempo e non sono chiamati sostanzialmente a pagare penalmente per le loro azioni.

Alla fine ha pagato solo Harry Madoff, che gestiva soltanto una piccola boutique finanziaria.

 


Testi citati nell’articolo

-Barker A., Europe set to soften bank split reform, Financial Times, 6 gennaio 2014

-Fleming S., Chon, G., Banks win Basel concessions on debt rules, www.ft.com, 12 gennaio 2014

-The Economist, The return of securitisation, 11 gennaio 2014

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