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I fisici tedeschi nella Germania di Hitler

04/08/2015

Nei giorni dell’anniversario dell’esplosione della prima bomba atomica su Hiroshima, è importante ricordare come iniziò la corsa alle armi nucleari nella Germania di Hitler e le responsabilità dei fisici tedeschi, nella ricostruzione del libro di Philip Ball “Al servizio del Reich” (Einaudi,2015)

Del progetto americano per realizzare la bomba atomica durante la Seconda guerra mondiale ormai si sa tutto o quasi. E’ bene non dimenticare mai alcune date: il 16 luglio 1945, nel quadro del Progetto Manhattan, a Los Alamos, nel deserto del Nuovo Messico, si realizzò la prima esplosione nucleare sperimentale, un successo; il 6 agosto dello stesso anno l’esplosione sulla città giapponese di Hiroshima, e tre giorni dopo quella su Nagasaki. Ancor oggi il numero di bombe atomiche nel mondo, nonostante sia stato avviato da anni il processo di disarmo, è alto; secondo l’Istituto SIPRI circa 16 mila. In Italia si stima che vi siano da 20 a 40 bombe atomiche a Ghedi Torre e circa 50 ad Aviano, sotto il controllo degli Stati uniti.

E’ singolare che oggi oltre il 50% dei giovani giapponesi dichiarino di non sapere che Giappone e Stati Uniti si sono scontrati in un sanguinoso conflitto; quindi è improbabile anche che sappiano del massacro di cinesi a Nanchino (1937-38) e che migliaia di donne della Corea occupata siano state ridotte a schiave sessuali delle truppe del Sol Levante.

Contro quest’amnesia generale, è importante ricordare una storia importante, quella dei fisici tedeschi nella Germania nazista e dei progetti per realizzare la bomba atomica. E’ la storia raccontata – sulla base di nuovi documenti resi disponibili – dal volume di Philip Ball “Al servizio del Reich” pubblicato di recente da Einaudi (2015, 292 pp., 32 euro).

Durante il nazismo due fisici illustri aderirono al regime e alla sua politica razzista contro gli ebrei. Philipp Lenard, premio Nobel (1905) ormai pensionato, fu aperto sostenitore dell’idea che il suo paese dovesse appoggiarsi solo sul lavoro dei fisici tedeschi “ariani”, ignorando le fallaci e ingannevoli idee proposte dai fisici ebrei, con riferimento esplicito a Einstein e alla teoria della relatività. Per chiarire il suo punto di vista affermò: “La scienza è internazionale? E’ falso. In realtà la scienza, come ogni altro prodotto umano, e legata alla razza e condizionata dal sangue”. Insieme a Johannes Stark (premio Nobel per la fisica nel 1919) divenne la guida della fisica ariana sotto il regime.

La grande maggioranza dei fisici tedeschi, quelli rimasti dopo le epurazioni razziali, rifiutò di riconoscere valore scientifico alle enunciazioni, peraltro confuse, della fisica ariana. Nemmeno il regime nazista sostenne più che tanto Lenard e Stark; ma già aveva decapitato la fisica tedesca, allora la più avanzata, con le leggi razziali. Molti dei fisici ebrei che lasciarono la Germania, ironia della sorte, contribuirono al progetto americano per realizzare la bomba atomica.

Se Lenard e Stark fossero vissuti ancora qualche decennio avrebbero potuto assistere al numero sorprendente di premi Nobel assegnati a fisici ebrei: Otto Stern, Isidor Isaac Rabi, Felix Bloch, Lev Davidovič Landau, Maria Goeppert-Mayer, Richard Philliphs Feynman, Hans Albrecht Bethe, Murray Gell-Mann, Sheldon Lee Glashow, Steven Weinberg, Leon Max Lederman, Melvin Schwartz, Jack Steinberger, Jerome Isaac Friedman, David Morris Lee, David Gross, David Politzer, Max Delbruck, Salvador Luria, Emilio Segre, e forse altri, oltre ad Einstein.

La fisica ariana sparì da sola, più per la propria inconsistenza che per la forza dei suoi oppositori, prima ancora della fine della guerra. Altri fisici ebbero posizioni diverse, più sfumate, verso il regime nazista: da una fuga dalle responsabilità per rifugiarsi nelle proprie ricerche, a una adesione passiva al nazismo, giustificata dal senso di patriottismo e di obbedienza all’autorità dello stato.

Solo una esigua minoranza aderì al nefasto regime. Pochissimi, all’interno della Germania, si opposero al nazismo; quasi nessuno si dimise o emigrò per protesta nei confronti dell’espulsione dei fisici ebrei dalle cariche pubbliche. La reazione della comunità scientifica ai decreti razzisti che si abbatterono con violenza sui fisici fu arrendevole; le rare espressioni critiche furono per il danno alla cultura tedesca e alla sua reputazione internazionale, piuttosto che per la violazione di valori morali, nonostante che, almeno fino allo scoppio della guerra, i pericoli corsi da chi avesse dissentito non fossero gravi.

Uno dei fisici che ricoprì per lungo tempo posizioni della massima responsabilità nelle istituzioni scientifiche tedesche fu un olandese, Peter Debye (Premio Nobel nel 1936); Debye,presidente della Società tedesca di fisica, pressato dalle autorità, almeno una volta cedette e firmò una lettera in cui chiedeva le dimissioni dei membri ebrei della Società. Ma in genere, come molti altri, si preoccupò soprattutto delle proprie ricerche non belliche e di proteggere la propria carriera e la propria influenza. Quando, nel 1939, a guerra iniziata, lasciò la Germania, non fu per dissidi col nazismo, ma perché si rifiutava di rinunciare alla cittadinanza olandese. In seguito, negli Stati Uniti, collaborò alle ricerche belliche, ma non ai progetti per la bomba atomica.

Max Planck, lo scienziato che nel 1900 aprì la strada alla nuova fisica, era un conservatore tradizionalista, pervaso da un senso del dovere civico verso lo stato, anche verso lo stato nazista; la sua autorità scientifica era indiscussa, ma, di fronte alla pretese dei nazisti, si affliggeva e tergiversava. Caratterizzavano la personalità di Planck la mitezza, la fiducia nelle istituzioni, la dedizione al dovere, l’assoluta onestà. Nonostante ciò, egli fu uno dei molti scienziati tedeschi che, nell’ottobre 1914, firmarono il famigerato Manifesto a sostegno delle azioni militari tedesche; ebbe però il coraggio di ritrattare pubblicamente in seguito, durante la guerra.

In seguito alle leggi razziali, di fronte alla perdita del posto di molti colleghi, ritenne che non avesse senso protestare, perché inutile. In un colloquio con Hitler (maggio 1933) sostenne che sarebbe stato un danno far emigrare ebrei del cui lavoro la scienza aveva bisogno, ma non ricevette risposte rassicuranti. Planck morì nel 1947, vecchio e col morale distrutto; aveva perso un figlio nella Prima guerra mondiale e un altro figlio era stato ucciso dai nazisti dopo il fallito complotto (20 luglio 1944) per assassinare Hitler.

Werner Heisenberg, uno dei fisici più brillanti dell’ultimo secolo, fondatore della meccanica quantistica, condivideva il patriottismo di Planck e riteneva che la speranza di rinascita dello spirito tedesco dopo l’umiliazione della Prima guerra mondiale sarebbe venuta da un movimento che esaltava un attaccamento romantico alla natura e al cameratismo. La sua famiglia era benestante e militarista. Nell’ottobre 1933, dopo l’ascesa di Hitler al potere, Heisenberg scrisse: “Adesso si stanno provando anche molte cose buone, e le buone intenzioni vanno apprezzate”. L’anno seguente firmò, come Debye, il giuramento di fedeltà alla persona di Hitler. Nel suo campo di ricerca resistette alle crociate di Stark e Lenard, difese la meccanica quantistica e la relatività, osando citare pubblicamente il nome di Einstein e buscandosi per questo le reprimenda delle autorità. Nella sua azione difensiva fu sostenuto da Heinrich Himmler, il capo delle SS, aiutato in questo dalla madre, che aveva un buon rapporto con la madre di Himmler. Ma durante la guerra Heisenberg si astenne dal citare Einstein nelle conferenze che tenne per diffondere la cultura tedesca nei territori occupati, e fu uno dei principali attori nei progetti per realizzare la bomba atomica nazista.

Il libro di Philip Ball ripercorre gli sviluppi di quegli anni. Nel dicembre 1938 Otto Hahn e Fritz Strassmann (giovane antinazista, al quale era stato precluso ogni incarico accademico) scoprirono la fissione dell’uranio, ossia la rottura del nucleo pesante, bombardato con neutroni, in due nuclei di elementi di massa intermedia, pur senza capire chiaramente il fenomeno. L’interpretazione corretta fu fornita, pochi giorni dopo, da Lise Meitner (collaboratrice per molti anni di Hahn) e Otto Fritsch, fisici austriaci fuggiti dalla Germania per sottrarsi alle leggi razziali e in seguito ricercatori in Francia e negli Usa. Essi mostrarono che nel processo di fissione venivano generati altri neutroni, così da rendere possibile una reazione a catena con la liberazione di un’energia enorme. Il resto della storia che portò al Progetto Manhattan da parte degli Stati Uniti è ben noto: venne avviato per contrastare la possibilità di una bomba atomica nelle mani del regime nazista.

Nell’aprile 1939 due chimici tedeschi informarono il Ministero della guerra della possibilità di sfruttare la fissione dell’uranio per ottenere un esplosivo potentissimo. Dopo una prima, immediata, riunione informale all’Università di Gottinga, l’Ufficio Armi dell’esercito decise di convocare un gruppo di esperti per valutare le azioni di intraprendere; venne così istituito l’Uranverein (Club dell’uranio), che si riunì nel settembre, guidato dal fisico Kurt Diebner: si decise che le ricerche su questa potenziale nuova fonte di energia e di supremazia militare iniziassero subito.

Heisenberg redasse un rapporto sulla fattibilità di ottenere energia dalla fissione controllata dell’uranio anche per i motori di carri armati e sottomarini (un reattore nucleare), e sostenne che, disponendo di quantità sufficienti di U235, l’isotopo leggero dell’uranio, presente nell’uranio naturale in piccola quantità (7 per mille) ma difficile da separare dall’isotopo pesante (U238), si sarebbe potuto ottenere un esplosivo di smisurata potenza. Ma i ricercatori tedeschi non riuscirono mai a ottenere quantità significative di U235. Inoltre Heisenberg, sbagliando i calcoli, aveva sopravvalutato di molto la quantità di U235 necessaria per la bomba, e questo risultato aveva allontanato la prospettiva di realizzare l’ordigno.

In seguito si capì che da un reattore si sarebbe potuto ottenere un nuovo elemento, il plutonio (Pu), adatto per una bomba nucleare, ma i tedeschi non riuscirono a ottenerne quantità significative. Il Plutonio fu il materiale impiegato dagli americani nell’esplosione sperimentale del 16 luglio 1945 e nella bomba di Nagasaki, il 9 agosto.

Buona parte delle ricerche tedesche si concentrarono sulla costruzione di un reattore nucleare e si scelse, come moderatore necessario per rallentare i neutroni, l’acqua pesante. Nell’impianto di Gottow fu realizzato su piccola scala l’esperimento G.III, che mostrò la generazione di un flusso intenso di neutroni dalla fissione dell’uranio. Ma la più importante fonte disponibile di acqua pesante, in Norvegia, fu distrutta dai partigiani nel febbraio 1943. Così i progetti nucleari della Germania, sempre sotto-finanziati, furono quasi abbandonati, visto che, a detta degli scienziati, non vi erano prospettive di realizzazione che potessero portare contributi decisivi alla guerra. Le distruzioni provocate dai bombardamenti alleati ne accelerarono il fallimento.

Dopo la partenza di Debye per gli Stati Uniti, alla presidenza della Società tedesca di fisica fu nominato Carl Ramsauer, fisico industriale e nazionalista, ma non iscritto al partito nazista. Egli riconobbe che la scienza aveva il dovere di contribuire alla difesa della nazione e protestò con David Rust, capo della divisione scientifica del Ministero dell’Istruzione, perché la “fantasia della fisica ebraica” era stata così dannosa che la fisica tedesca aveva perso la sua supremazia su quella americana. Più tardi ottenne anche l’esenzione dal servizio militare attivo di molti fisici, sostenendo che, mentre le forze armate avrebbero potuto fare a meno di 3000 uomini, 3000 fisici in più avrebbero forse potuto decidere le sorti della guerra; ma dei 6000 scienziati che i nazisti cercarono di richiamare dal fronte nel 1944, ne tornarono solo 4000, mentre altri erano morti o introvabili. E la guerra era già praticamente persa.

Al contrario, gli Stati Uniti nell’avviare il progetto Manhattan e lo sviluppo del radar, avevano reclutato tutte le migliori menti disponibili, inclusi gli scienziati tedeschi appena rifugiatisi all’estero.

Quando, verso la fine della guerra, Heisenberg fu catturato dagli alleati, nei primi colloqui si mostrò arrogante: si sarebbe degnato di spiegare agli americani come costruire un reattore, ma non poteva accettare di andare a lavorare negli Usa perché la Germania aveva ancora bisogno di lui. In seguito insieme ad altri nove fisici fu confinato, in Inghilterra, in una villa nota come Farm Hall; la villa era piena di microspie che consentivano di conoscere le discussioni che i prigionieri tenevano fra di loro. Quando vennero a sapere dell’esplosione su Hiroshima, sulle prime Heisenberg si mostrò incredulo, convinto ancora che gli scienziati tedeschi avessero una superiorità sui rivali alleati. Solo Hahn ne fu tanto scosso che si temette che volesse suicidarsi.

Venticinque anni dopo Heisenberg sostenne che i fisici tedeschi avevano deliberatamente agito per prevenire lo sviluppo della bomba atomica da parte della Germania, ma tale tesi difensiva non è sostenibile alla luce dei fatti.

Dieci anni dopo la fine della guerra Heisenberg, von Laue, Hahn, von Weiszacker e altri coinvolti nei progetti atomici tedeschi furono tra i promotori di una campagna contro le armi nucleari (il manifesto di Gottinga). Ma dalla ricostruzione di Philip Ball in “Al servizio del Reich” colpisce l’assenza, da parte della stragrande maggioranza dei fisici tedeschi, di una riflessione morale sulla loro attività e sulle responsabilità della Germania. Molti di essi non capivano nemmeno dove fosse il problema. Fra le grandi personalità scientifiche (pochissime) che non condivisero questo atteggiamento possiamo soltanto ricordare Max von Laue.

 

 

 

 

 

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