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Isfol, la scure della spending review
La soppressione dell'Isfol ci priverebbe dell’unico soggetto pubblico in grado di valutare le politiche del lavoro indipendentemente dagli interessi del governo che le promuove
In questi giorni si parla molto del decreto legge in materia di lavoro che prevede una liberalizzazione pressoché totale nell’uso dei contratti a termine per un periodo massimo di 36 mesi. In questi 3 anni uno stesso lavoratore potrà essere assunto e poi licenziato, di nuovo assunto e quindi licenziato e così via fino ad 8 volte dallo stesso datore di lavoro. Quest’ultimo, d’altra parte, non avrà alcun obbligo di specificare il motivo per cui assume a termine mentre può licenziare senza pagare alcuna indennità e senza preavviso.
Secondo il governo si tratta di un provvedimento necessario a far fronte alla drammatica emergenza occupazionale, soprattutto giovanile. Il ragionamento è più o meno il seguente. Visto che sette assunzioni su dieci sono a tempo determinato e spesso non vengono rinnovate alla scadenza del contratto, tanto vale assecondare questa tendenza liberando le imprese da vincoli burocratici e oneri amministrativi sui nuovi contratti. In questo modo, si spera, i drammatici numeri della disoccupazione giovanile miglioreranno. Avere un lavoro, per quanto precario, è meglio che non averne affatto, si potrebbe aggiungere.
Naturalmente le indicazioni contenute nel decreto non sono prive di rischi per i lavoratori e per le stesse imprese. Anzi. L’esperienza del passato ci insegna che le politiche di flessibilità contrattuale nel nostro paese non hanno portato benefici duraturi in termini di occupazione, mentre hanno ridotto significativamente i salari, la produttività del lavoro e la competitività dell’economia. Il fatto è che i contratti a termine indeboliscono gli incentivi ad investire in formazione professionale e la propensione ad introdurre nuove tecnologie nei luoghi di lavoro e questo alla lunga si rivela un danno per le stesse aziende che li utilizzano. Senza considerare poi che la possibilità di usare un contratto a termine fino a 36 mesi senza causale rischia di essere troppo conveniente rispetto ad alte tipologie di contratti con maggiori tutele. Questa circostanza porta con se il pericolo che i nuovi contratti a termine spiazzino del tutto quei pochi contratti a tempo indeterminato (3 su 10) che ancora vengono usati per le assunzioni.
Insomma, se mettiamo uno accanto all’altro opportunità e rischi del decreto, non è scontato quale sia la scelta migliore. Ci potrebbero essere vantaggi di breve periodo in termini di un lieve miglioramento della disoccupazione e costi di medio periodo in termini di perdita di competitività e aumento delle disuguaglianza sociali.
Il Ministro Poletti su questo aspetto è stato comunque chiaro. Nel caso in cui la liberalizzazione dei contratti a termine non produrrà gli effetti previsti, i provvedimenti contenuti nel decreto potranno essere riconsiderati ed eventualmente modificati. In coerenza ad uno spirito pragmatico che il governo raccomanda di tenere in materia di lavoro.
A questo punto sorge però un problema. Poco evidente eppure fondamentale. Chi valuta gli effetti del decreto? Un principio di democrazia suggerisce che tale compito non può essere volto dal governo, il quale si troverebbe in palese conflitto di interesse nel valutare e giudicare la sua stessa politica. Servirebbe piuttosto un soggetto terzo in possesso di requisiti e competenze adeguate per assolvere questo ruolo con criteri di indipendenza e trasparenza.
In Italia questa istituzione c’è già. È l’Isfol, un ente pubblico di ricerca statutariamente predisposto all’analisi e valutazione delle politiche del lavoro, della formazione e dell’inclusione sociale. Ovvero proprio gli aspetti che si intrecciano più strettamente con gli obiettivi e le conseguenze del decreto.
Il quadro così è completo. Abbiamo un governo che legittimamente promuove una strategia di politica del lavoro, un istituzione indipendente che ne valuta gli effetti e la disponibilità pragmatica a considerare eventuali modifiche qualora questi effetti non si rivelassero in linea con le attese.
Tutto filerebbe liscio, si fa per dire, se non si fosse messa di mezzo la Spending Review. Il Commissario Cottarelli e i suoi collaboratori, infatti, non sembrano per niente convinti dell’utilità dell’isfol e dell’importanza delle sue funzioni. Tanto da averlo inserito nella lista degli enti da tagliare.
Si tratta di una scelta sorprendente, che di certo non può essere spiegata da ragioni di natura contabile. La soppressione dell’IsfoI farebbe risparmiare alle casse dello Stato italiano non più di 300 mila euro. E’ una scelta che appare ancora meno giustificata se la si guarda da una prospettiva di trasparenza e di corretto funzionamento della democrazia economica. Con l’Isfol se ne andrebbe l’unico soggetto pubblico in grado di valutare le politiche del lavoro indipendentemente dagli interessi del governo che le promuove.
Ora, a prescindere degli obiettivi che hanno guidato la redazione della Spending Review e la vicenda particolare dell’Isfol, il problema di cui si discute qui è di natura profondamente politica. Anche il più pragmatico dei governi non può infatti ignorare che il tema dell’autonomia della ricerca pubblica è un presidio essenziale del processo democratico. Soprattutto alla vigilia di un periodo di importanti riforme del sistema istituzionale e del mercato del lavoro che cambieranno la vita di milioni di persone.
Qualche giorno fa il Capo dello Stato ha confermato con la massima autorevolezza la sostanza dello stesso messaggio. Secondo il Presidente Napolitano bisogna porre fine ai “tagli immotivati” della spesa pubblica basati su calcoli e percentuali che guardino solo al risparmio immediato. E’ necessario invece puntare alla realizzazione di economie strutturali dentro una visione complessiva di paese e di democrazia. Come a sottolineare che per intervenire sul presente, occorre avere uno sguardo sul futuro. Un concetto tanto semplice quanto prezioso. Non solo per chi decide sui tagli suggeriti dal Commissario Cottarelli. Ma anche per chi stabilisce i diritti delle persone assunte con contratti a tempo determinato.
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