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L'insostenibile leggerezza del Jobs Act

12/07/2015

La flessibilità del lavoro si può tradurre in salari più bassi e maggiori profitti. Ma senza un intervento pubblico che “guidi” il mercato, nulla garantisce che i profitti generati dal JA si traducano in maggiori investimenti. Una discussione aperta sui contenuti del Jobs Act e sulla proposta di Workers Act lanciata da Sbilanciamoci!

Come da molto tempo si sa, la matematica ha stabilito l’inconsistenza logica del modello neoliberista. Infatti, mentre la realtà economica continua a rifiutarsi di obbedire alle stravaganti prescrizioni dell’economia teorica dominante, le politiche economiche prescritte dal pensiero unico continuano a flagellarci l’esistenza in nome del mercato. Il modello neo-liberista è morto, ma il suo fantasma, che continua ad aggirarsi per il mondo accademico e le istituzioni che contano, sparge danni e sofferenze tramite promesse senza fondamento (sembrerebbe che aggiungere il prefisso “neo-“ non sia sufficiente a rimediare alle contraddizioni logiche).

Possiamo certo fingere che così non sia, tanto l’economia sopravvive comunque, ma non è più tollerabile che il nostro vivere, e quello delle generazioni future, dipenda da speranze basate su teoremi indimostrabili, sul nulla cioè. Ci si chiede da anni il perché di tale pervicace insistenza: inerzia intellettuale, pigrizia mentale, e assenza di paradigmi alternativi. O profitti.

Credo che il Jobs Act sia emblematico in questo. Argomenterò come sia utile a rimpinguare i profitti delle singole imprese, ma non il lavoro (e il lavoratore) (Una delle possibili letture del Workers Act vs il JA, è che quest’ultimo riduce il lavoro ad fattore di produzione, sostituibile col capitale, monetizzabile quindi; ma così facendo riduciamo a denaro anche i diritti e la qualità della vita stessa del lavoratore). e l’economia nel suo insieme poiché manca uno strumento che sia in grado di trasformare i profitti in investimenti e creare domanda tramite occupazione in servizi di qualità.

Iniziamo dal contesto in cui siamo oggi costretti: in presenza di due fatti strutturali come la globalizzazione e la morte della manifattura.

​La globalizzazione aumenta la competizione e richiede, per continuare ad esportare, che il CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto) si riduca. Esistono due vie per farlo: la riduzione del salario o l’aumento della produttività. La prima è immediata e ottenibile con poco sforzo, e su questa il JA si concentra. L’altra non piove dal cielo o dalla penna del legislatore. Dietro c’è un’attività di ricerca e sviluppo che spesso solo lo Stato riesce a fare (Mazzuccato, 2014) e che in Italia le imprese private praticamente non fanno.

Ma perché minori costi del lavoro si traducano in maggiori profitti non basta produrre (come ci racconta la favola neoliberista): occorre vendere i prodotti. Ovviamente non tutte le imprese ci riescono. Per quelle che dipendono dalla domanda estera, salari più bassi possono voler dire maggiore competitività in mercati tradizionali, dove maggiore è la concorrenza dei paesi emergenti. Ma il costo orario è ora nel rapporto di 10 a 1: sarà la via giusta?

Minori salari equivalgono inoltre a minore domanda interna: l’unica via per incrementare la domanda complessiva pare essere quella dell’estero, dove però la competitività non può essere che sulla qualità. Dovremmo non restare fermi a produrre merci tradizionali. Inoltre, il moltiplicatore si riduce quando la disuguaglianza aumenta, con effetti perversi sul PIL. Insomma: il combinato disposto “salari più bassi-minori tutele del lavoro” indicato dal JA volge lo sguardo al passato e non indica direzioni percorribili.

Quindi la flessibilità del lavoro si può tradurre in salari più bassi e maggiori profitti, ma non in maggiori investimenti. Poiché non esiste nulla di automatico che traduca i profitti in investimenti se non interviene lo Stato (imposizione redistributiva, agevolazioni per utili re-investiti e spesa in ricerca e sviluppo).

La morte della manifattura è il secondo aspetto. Negli US gli occupati in tale settore passano dal 23% all’8% dal 1970 ad oggi. Cosa fa quella massa di ex-operai? Passa, in gran parte, a nuovi lavori nei servizi. Se i servizi sono qualificati, anche i salari lo saranno, ci dice l’esperienza dei paesi OECD. Sennò non c’è JA che tenga: senza spesa in ricerca e riqualificazione, il lavoro diventa una merce e si confonde il lavoratore col posto di lavoro. E bassi salari sono il corrispondente di basse tutele.

Il terziario avanzato non è solo un modo per recuperare salari, ridurre le disuguaglianze e favorire l’occupazione. E’ il segnale che senza un intervento pubblico che “guidi” il mercato, nulla garantisce che i profitti generati dal JA si traducano in investimenti. Il mercato produce troppo (inquinamento e.g.) e troppo poco (R&S per esempio). E non è riducendo il lavoro a uno dei fattori di produzione che possiamo attenderci un futuro migliore.

 

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