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La crisi dell’università italiana

01/12/2015

Il nostro Paese si colloca ben al di sotto della media europea per finanziamenti, per numero di studenti iscritti e laureati, per numero di ricercatori e dottori di ricerca in rapporto alla popolazione

L’università italiana da anni vive una crisi profonda. Gli indicatori sono molti e noti ma quello più drammatico è rappresentato dal calo degli iscritti al primo anno: erano 338.482 nel 2003/04 si sono ridotti a 260.245 nel 2013/2014, come riportano i dati del MIUR . Al netto delle tendenze demografiche rallentano i tassi di passaggio dalla scuola superiore all’università: sono scesi al 51,7% al sud e al 58,8% al nord, riportando il paese indietro di 10 anni. Soprattutto, come segnalato dallo Svimez , si riducono le iscrizioni delle famiglie meno abbienti del Mezzogiorno.

Il tasso di ingresso all’università in Italia si attesta intorno al 40%, valore ben inferiore alla media Ocse che sfiora il 60%, mentre l’obiettivo di aumentare il numero dei laureati, priorità delle politiche sull’istruzione universitaria fin dalle riforme degli anni ‘90, è stato clamorosamente mancato. Anzi, siamo l’unico paese in cui gli iscritti all’università diminuiscono.

Come risulta dal rapporto Ocse Education at Glance con il 20% di laureati nella fascia 25-34 anni, occupiamo il 34-esimo posto su 37 nazioni . In Corea del Sud hanno raggiunto il 64% nel 2011. Erano il 37% nell’anno 2000 e meno del 10% nel 1980. Se guardiamo allo specifico del continente europeo il nostro ritardo appare ancora più evidente: solo la Romania ha una performance peggiore.

La riduzione del Fondo di finanziamento ordinario (FFO) pianificata nel 2008 ha dispiegato interamente i suoi effetti senza che nessun governo invertisse la tendenza. Il paradosso è che mentre la spesa pubblica è complessivamente aumentata del 10,7% tra il 2011 e il 2014 quella destinata all’università è scesa dall’1,19 allo 0,95%, come documentato dal Servizio del bilancio del Senato.

La spesa cumulativa per studente universitario ci vede sedicesimi su 25 nazioni considerate. E’ inferiore fra il 30% e il 70% rispetto a Spagna, Regno Unito, Francia, e soprattutto Germania. E’ meno della metà rispetto a Danimarca, Svezia, Svizzera e Stati Uniti mentre il numero di studenti per docente è in Italia nettamente superiore alla media Ocse. Anche il personale, dopo anni di blocco di fatto delle assunzioni, ha subito una forte contrazione, come sottolinea Viesti. I docenti nel 2013 erano circa 55.000 con un calo complessivo del 13% rispetto al 2008, molto più forte quello degli ordinari (-23,3%), rispetto ad associati (-11,6%) e ricercatori (-6,7%): ciò ha comportato un aumento del numero di studenti (in equivalente tempo pieno) per docente che era già fra i più alti tra i paesi Ocse. Il personale tecnico amministrativo e bibliotecario nelle università italiane ammonta a poco più di 51.000 unità, un numero di gran lunga inferiore a quello dell’ultimo organico nazionale definito all’inizio degli anni ’90.

Come riporta una recente ricerca, negli ultimi 10 anni su 100 ricercatori precari e dottorandi l’università ne ha espulsi 97 e l’unico modo in cui ha superato il de-finanziamento è stato attivando altri contratti precari di breve durata: mediamente tra i 13 ai 30 per ogni singolo ricercatore in meno di 10 anni. Il nostro corpo accademico è composto oggi per il 48,3% da docenti e ricercatori strutturati e per la restante parte da assegnisti di ricerca (17,4%), dottorandi (28,1%) e ricercatori a tempo determinato (6,2%). Nel solo 2014 ci sono stati 2324 pensionamenti mentre sono stati attivati solo 141 contratto a tempo determinato in tenure track. La crisi del sistema universitario investe anche gli aspiranti ricercatori. Le posizioni di dottorato bandite in Italia si riducono del 19% dal 2008. Nel sud il calo arriva fino al 38% accompagnandosi ad una riduzione netta dei corsi (-57%) che comporta l’estinzione di alcune tematiche di ricerca.

E’ un accidente del destino?

In sintesi il nostro Paese si colloca ben al di sotto della media europea per finanziamenti, per numero di studenti iscritti e laureati, per numero di ricercatori e dottori di ricerca in rapporto alla popolazione e a distanze siderali dalle famose eccellenze mondiali presentate come la prova del fallimento del nostro sistema di istruzione universitaria.

Questa situazione drammatica non è un accidente del destino. Piuttosto è la conseguenza di precise scelte di policy giunte a valle di un’impressionante campagna mediatica contro l’università italiana. Una campagna rilanciata anche negli ultimi mesi che si basa sempre sugli stessi assunti: la spesa per l’istruzione è troppo alta (cioè non si taglia mai abbastanza) ed inefficiente, come evidenziano le solite classifiche internazionali che guarda caso non tengono mai conto degli investimenti in rapporto al risultato; abbiamo troppe università, troppi corsi di studio e la nostra ricerca ha un ruolo marginale nel panorama mondiale. Si invita pertanto il legislatore a non aumentare la spesa in istruzione e ricerca ma, piuttosto, a ridurre gli sprechi, costruire una governance più efficiente, salvare solo le eccellenze da premiare con le risorse sottratte alle parti inerti e meno produttive del sistema.

La preoccupazione che questi argomenti possano rappresentare la base di discussione per un nuovo intervento sull’università è, quindi, molto forte. In particolare perché si dipinge un’università malata di burocrazia e guaribile “uscendo dal diritto amministrativo”; un’affermazione che potrebbe celare un preciso obiettivo. La stratificazione di norme che, in particolare dal 2008 in poi, ha cancellato l’autonomia delle università viene scambiata con la natura pubblica delle stesse istituzioni che, in quanto tale, sarebbe incompatibile con una gestione efficiente del personale e delle risorse finanziarie.

In realtà, già oggi, importanti scelte di distribuzione delle risorse sono determinate non da una analisi politica, che tenga conto di fattori sociali, economici e culturali, ma dal risultato di indicatori che hanno discutibili basi scientifiche e che, in realtà, nascondono valutazioni spesso arbitrarie e discrezionali, come è stato ampiamente documentato su Roars.

In sostanza nella riduzione complessiva dei finanziamenti sta avvenendo un costante drenaggio a favore delle università che, in virtù del contesto in cui operano, possono aumentare più facilmente le tasse e i cui studenti hanno le migliori performance occupazionali. Si tratta di indicatori quanto meno parziali, se non fuorvianti in alcuni casi, del valore di un ateneo ma sicuramente efficaci per il risultato che dovevano raggiungere.

Come se ciò non fosse sufficiente dopo il taglio di un miliardo di euro pianificato nel 2008 che ha determinato una riduzione del 15% del FFO, incrementare, come sta avvenendo, la quota premiale puntando ad arrivare fino al 30% del fondo stesso significa, di fatto, chiudere non sedi decentrate o corsi di laurea, ma importanti atenei a partire da quelli del Mezzogiorno, come ho già argomentato altrove. Insomma il cambiamento corrisponde essenzialmente ad una idea di razionalizzazione ed efficientamento che si sostanzia nella progressiva diminuzione dell’offerta formativa sul territorio nazionale.

Il ddl stabilità (sostanzialmente) non cambia direzione. Il DDL stabilità contiene alcuni interventi per l’università ma non rappresenta un’inversione di tendenza. Si inserisce piuttosto nel solco delle policy degli ultimi anni pur destinando risorse (modeste) ad alcune parti del sistema.

Il primo grande assente è il Diritto allo Studio, nonostante i costi dell’Università stiano diventando per alcuni insostenibili, come segnala il calo degli iscritti nell’ultimo anno (-71.784). Dovrebbe essere quindi prioritario un intervento di rifinanziamento del sistema di diritto allo studio, accompagnato dalla definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, funzionali e necessari affinché si ponga fine alle profonde disuguaglianze legate all’accessibilità del percorso universitario e alla fruibilità dei servizi destinati agli studenti da nord a sud della penisola.

Lasciano perplessi (per numero e modalità) anche gli interventi sul reclutamento. Si prevede, infatti, l’assunzione di (circa 500) professori di I e II fascia, con “portabilità delle risorse” secondo procedure distinte rispetto alle ordinarie modalità di assunzione previste dalla legge 240/10. Per finanziare le cosiddette “cattedre del merito” viene costituito un fondo ad hoc. Come appare dal rinvio a un successivo DPCM, i tempi di questo reclutamento straordinario potrebbero essere lunghi e incerti, quindi difficilmente compatibili con una qualsiasi corretta programmazione da parte del sistema universitario delle politiche di reclutamento. La norma lascia anche aperta la strada a deroghe estremamente pericolose all’unitarietà dello stato giuridico della docenza universitaria riguardo al trattamento stipendiale.

L’investimento previsto per l’attivazione di circa 1000 posizioni con tenure track è senza dubbio una buona notizia anche se ampiamente sottodimensionato rispetto alle necessità di un sistema che ha perduto, come certificato dal CUN, più di 12000 docenti (-20%) negli ultimi sette anni. In realtà per mettere in sicurezza il sistema a fronte delle cessazioni registrate e di quelle imminenti sarebbe necessario attivare un piano pluriennale che preveda il reclutamento di 5000 ricercatori con tenure track all’anno per 4 anni. Per gli atenei “virtuosi” si prevede che le assunzioni dei “ricercatori a tempo determinati di tipo A” (ovvero senza meccanismi automatici di tenure track) non siano sottoposte ai limiti al turn-over. Per evitare che ciò comporti un utilizzo prevalente di questa fattispecie rispetto ai contratti con tenure track servirebbe, invece, la liberazione dalle limitazioni del turn over (dopo anni di sostanziale blocco) per tutte le figure del mondo universitario e abolire il sistema dei punti organico. Ciò dovrebbe essere previsto per tutti gli atenei. Naturalmente impatta sugli atenei anche la norma che blocca (nuovamente) la contrattazione integrativa in tutti i settori pubblici incidendo direttamente sulle carriere e i salari e pregiudicando anche gli stessi investimenti nell’innovazione dei servizi e dei processi.

La crisi dell’università e quella del paese

L’idea che sia possibile risalire la china della difficile condizione economica del nostro Paese senza investire direttamente crescenti risorse nell’università e nella ricerca ignora, alcuni inequivocabili dati di realtà. Innanzitutto che la nostra crisi vive di una sua specificità , proprio quella del cronico ritardo degli investimenti in ricerca e tecnologia determinato innanzitutto dalla morfologia del nostro sistema produttivo.

Il punto non è incentivare l’assunzione di singoli ricercatori nelle imprese, o far svolgere il dottorato in azienda. Infatti se il personale ricercatore delle imprese manifatturiere ci vede ultimi su 6 paesi considerati è evidente che la spesa pubblica deve aumentare ancora più che altrove a sostegno delle infrastrutture di base ma anche della ricerca applicata perché dobbiamo modificare la specializzazione produttiva in assenza di investimenti privati. La spesa in questi settori da parte delle imprese, la così detta Business Enterprise Research, BERD, è sostanzialmente stagnante dalla seconda metà del decennio ’80. Serve quindi un investimento straordinario dello Stato. In questi anni abbiamo, al contrario, assistito ad una strategia di disincentivo alla prosecuzione degli studi che riduce il sapere a puro possesso individuale il cui costo deve gravare sempre meno sulla società e sempre più sui singoli individui. Coerentemente si deve favorire la formazione di una elìte specializzata a cui si apriranno le porte di poche professioni qualificate e ben remunerate mentre la maggioranza dovrà adeguare le aspettative a ciò che effettivamente “offre” il mercato.

Al contrario pensiamo sia necessaria una nuova politica dello sviluppo che abbia come presupposto l’estensione dei diritti di cittadinanza a partire da quello all’istruzione per tutto l’arco della vita, che punti a coniugare competenze e saperi, innovazione tecnologica e sostenibilità dentro una nuova specializzazione produttiva come già auspicato in un mio contributo recente. Una prospettiva, evidentemente, ancora lontana.

Articolo pubblicato da eticaeconomia.it

 

 

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